La Corte costituzionale, i parametri “conseguenziali” e la tecnica dell’assorbimento dei vizi rovesciata (a margine di Corte cost. n. 150 del 2012)
Palese è l’obiettivo avuto di mira dalla pronunzia qui annotata “a prima lettura”, che è di guadagnare tempo, con la non recondita speranza che le questioni di costituzionalità originariamente proposte sulla legge 40 non siano quindi nuovamente portate al giudizio della Consulta. La tecnica processuale messa in atto allo scopo di centrare l’obiettivo appare essere alquanto originale e – diciamo pure – ardita, ma non per ciò – come si tenterà di mostrare – persuasiva.
La Corte si guarda bene dal dichiarare che la pronunzia della Grande Camera del novembre scorso sia, in tutto e per tutto, da assimilare allo ius superveniens; è, però, qualcosa che gli somiglia molto (se non pure nella natura giuridica) al piano degli effetti, tant’è che, al pari di ciò che si ha in presenza di norme sopravvenienti ed idonee ad alterare i termini della questione, esso giustifica appunto la restituzione degli atti alle autorità remittenti. La Corte non chiarisce in cosa propriamente consista il “fatto” nuovo costituito dal mutamento di giurisprudenza: si limita a qualificarlo come “un novum che influisce direttamente sulla questione di legittimità costituzionale così come proposta”. Poco prima, d’altronde, aveva rammentato quali sono i fattori determinanti la restituzione in parola, individuati in modifiche della norma costituzionale assunta a parametro ovvero della disposizione che integra il parametro stesso o, ancora, in “considerevoli modifiche” del “quadro normativo”. Insomma, la sopravveniente pronunzia della Corte EDU comporta pur sempre un’alterazione di “situazione normativa” – come a me piace chiamare l’oggetto del giudizio di costituzionalità –, in presenza della quale si giustifica (e, anzi, s’impone) una nuova verifica della rilevanza della questione da parte dei giudici remittenti.
La differenza, sottile ma non insignificante, rispetto allo ius superveniens in senso proprio sta qui nel mutato indirizzo giurisprudenziale che obbliga a ripercorrere la via dell’interpretazione conforme a CEDU, originariamente battuta senza successo proprio (o anche) in considerazione dell’originario indirizzo interpretativo adottato a Strasburgo e quindi ribaltato dalla decisione della Grande Camera, cui si è sopra fatto cenno.
Non discuto ora se (e fino a che punto) possa ovvero debba accostarsi una nuova interpretazione del dettato convenzionale al suo mutamento per ius superveniens, per quanto si tratti di questione di cruciale rilievo, sia teorico che pratico, a più piani e sotto più profili, a partire da quello al quale l’attività interpretativa e l’attività di produzione giuridica appaiono essere sostanzialmente fungibili, comunque idonee a dar vita ad effetti non dissimili.
Discuto piuttosto della tecnica processuale adoperata, del suo fondamento e del suo svolgimento.
La Corte s’è trovata davanti ad un ostacolo pressoché insormontabile, costituito dal carattere plurimo o complesso delle questioni sollevate, dal momento che, in disparte il tribunale di Firenze che aveva fatto esclusivo riferimento al I c. dell’art. 117, gli altri giudici avevano denunziato la possibile violazione da parte della legge 40 di non poche altre disposizioni costituzionali.
Ora, la tecnica dell’assorbimento dei vizi – com’è chiaro – qui non poteva venire in soccorso, non essendosi fatto luogo alla dichiarazione d’incostituzionalità della legge rispetto ad uno dei parametri evocati in campo. Qual è, allora, il senso della restituzione degli atti in relazione ad uno di tali parametri, quando poi resterebbe in ogni caso aperta la questione con riferimento ai parametri restanti?
Solo in un modo la Corte avrebbe potuto sottrarsi alla critica sottesa a questo interrogativo: dimostrare che i parametri diversi dall’art. 117, I c., sono comunque “conseguenziali” a quest’ultimo, che essi insomma possono essere violati solo in quanto vi sia la violazione dell’enunciato che offre copertura alla CEDU (e al diritto internazionale in genere). Non a caso, la Corte rammenta che i giudici a quibus hanno proposto la questione con riguardo all’art. 117 “in linea preliminare rispetto alle altre pure sollevate”.
È vero che i modi con cui più parametri costituzionali (o interposti) si combinano reciprocamente possono essere i più varî; e, tuttavia, l’autonomia concettuale e positiva di ciascuno di essi non si discute, faticandosi pertanto a comprendere come possa aversi incisione di uno o più di essi unicamente in “conseguenza” della incisione di un altro. D’altro canto, se le cose stessero davvero così come le rappresenta la Corte, dovrebbe considerarsi ridondante ed, a conti fatti, ininfluente il richiamo ai parametri “conseguenziali”, la questione riducendosi ed interamente risolvendosi nella compatibilità della norma indubbiata rispetto all’art. 117.
Si può pure, con molto sforzo, immaginare il caso che la sopravvenuta riconciliazione della legge 40 con la CEDU comporti a cascata la sua parimenti sopravvenuta, obbligata riconciliazione coi parametri costituzionali restanti: ad una condizione però, ed è che alle decisioni della Corte EDU si riconosca un potere di riconformazione dell’intero dettato costituzionale, apportando deroghe a quest’ultimo (persino, come qui, a principi fondamentali…) giustificate in nome della Convenzione e del suo bisogno di affermarsi a qualunque costo. Come dire che ciò che è rispettoso della Convenzione stessa ha da farsi comunque valere, ancorché sia poi irrispettoso di questa o quella norma costituzionale. Dimostrare l’esattezza di quest’affermazione, che finisce col dotare la CEDU di una forza per sistema sovracostituzionale, mi parrebbe tuttavia esser cosa alquanto ardua, persino a stare all’ordine di idee, nel quale da tempo mi riconosco, secondo cui la CEDU stessa può competere alla pari con la Carta costituzionale nel servizio da entrambe offerto ai diritti fondamentali, partecipando dunque ad operazioni di bilanciamento con questa o quella norma della Carta stessa. Altro è però dire questo ed altro ancora riconoscere che la Convenzione abbia sempre, in ogni caso, la meglio sulla legge fondamentale della Repubblica. Ad ogni buon conto, non è certo quello appena descritto l’orizzonte teorico-ricostruttivo verso il quale punta decisa lo sguardo la giurisprudenza costituzionale, che anzi – come si sa – qualifica la CEDU quale fonte “subcostituzionale”.
Ci si può poi chiedere per quale ragione la Corte non si sia decisa a pronunziarsi in primo luogo proprio sui parametri “conseguenziali”; nel qual caso, qualora avesse acclarato la violazione rispetto anche ad uno solo di essi della legge 40, avrebbe potuto far piana applicazione della tecnica dell’assorbimento dei vizi. È però di tutta evidenza che, una volta passata al merito, non avrebbe potuto, per logica necessità, chiedere ai giudici di verificare la perdurante rilevanza della questione. Se poi fosse stata scartata l’ipotesi del contrasto della legge coi parametri diversi dall’art. 117, la Corte non avrebbe più potuto sollecitare i giudici a riconsiderare la questione alla luce del nuovo indirizzo interpretativo della Corte EDU. In breve, avrebbe dovuto impegnarsi in prima persona, stabilendo quale rilievo assegnare al mutamento di giurisprudenza registratosi a Strasburgo. Questo, però, come si è venuti dicendo, era proprio ciò che non si voleva fare, e non s’è fatto. E così abbiamo assistito all’inaugurazione di una nuova tecnica decisoria, quodammodo speculare a quella dell’assorbimento dei vizi, applicata però al caso opposto rispetto a quello dell’annullamento. Una tecnica che – come si è veduto – poggia sull’idea, invero alquanto singolare e francamente stupefacente, secondo cui si danno parametri “conseguenziali” rispetto ad altri, a conti fatti privi – come si è fatto notare – di reale autonomia concettuale e positiva.
La partita resta comunque aperta; ed è facile previsione quella per cui le autorità remittenti, pur laddove si accodino docili al nuovo orientamento della Corte EDU (che, tuttavia, si rammenta alla Consulta, richiede di esser tenuto presente unicamente nella sua “sostanza”…), ugualmente possono riproporre il dubbio originario con riferimento ai parametri restanti. A questo punto, la tattica pilatesca della Corte non soccorrerà più e la Corte stessa dovrà assumersi fino in fondo, ed alla luce del sole, le proprie responsabilità. Nel caso che il verdetto dovesse essere di assoluzione per la legge 40 (e non sarà facile darne la dimostrazione, pur appoggiandosi all’indirizzo della Corte EDU…), ci si potrà chiedere se ed a cosa sia giovato quest’ulteriore passaggio dalle sedi della giustizia comune da cui sono partite le questioni di costituzionalità. Alle volte nel gioco del ping pong la tattica di rimandare la palla nel campo avverso senza attaccare e confidando unicamente nel fallo dell’avversario si dimostra vincente; ho qualche dubbio però che così sarà anche nel caso nostro.