Ancora sull’ordinanza n. 150 del 2012 della Corte costituzionale: alcune ragioni per fare di necessità virtù.
Il contributo di Antonio Ruggeri pubblicato nei giorni scorsi su diritticomparati.it ha messo in luce i più rilevanti profili critici che emergono dalla lettura dell’ordinanza n. 150 del 2012, con cui – lo ricordo – la Corte costituzionale ha restituito gli atti ai tre tribunali rimettenti (Firenze, Catania e Milano) che avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale delle norme della legge n. 40 del 2004 che vietano la fecondazione eterologa. Restituzione motivata dalla Corte richiamando lo jus superveniens costituito dalla decisione della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 3 novembre 2011, S.H. et autres c. Autriche, con cui è stata ribaltata la decisione di accoglimento adottata dalla prima Sezione della Corte nel 2010 la quale, in vario modo, era stata largamente richiamata dalle tre ordinanze introduttive a supporto dell’incostituzionalità della normativa interna.
Pur condividendo in pieno le critiche che, dal punto di vista dell’iter processuale e, in particolare, dell’assorbimento “rovesciato” dei vizi di incostituzionalità, sono state autorevolmente rivolte all’ordinanza, cercherò di soffermarmi in questo breve commento sulle prospettive che, a seguito del rinvio operato dalla Corte costituzionale, si possono aprire per la prosecuzione del giudizio di costituzionalità. Se, infatti, da un lato non si può che prendere atto della chiusura operata dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo rispetto alla contrarietà alla Convenzione del divieto di fecondazione eterologa nei termini posti dal caso S.H., non sembra, dall’altro lato, che dalla stessa pronuncia si possa far derivare un’ipoteca sulle ragioni che hanno spinto i giudici rimettenti a mettere in dubbio la legittimità del divieto di fecondazione eterologa. È importante sottolineare, in altre parole, l’asimmetria che, per la soluzione della controversia in esame, si deve riconoscere alle due sentenze della Corte europea, nel senso che mentre dalla prima si sono a ragione tratte (forse con un investimento argomentativo eccessivo) molte delle ragioni a supporto dell’incostituzionalità delle norme in questione, la più recente pronuncia non è in nessun modo idonea ad essere utilizzata in direzione uguale e contraria, tenuto conto che, per le sue caratteristiche, essa determina nulla di più che un’esigenza di riespansione delle censure fondate sul testo costituzionale. Censure che erano e restano tutt’altro che prive di pregio, ma che sicuramente non vengono indebolite dalla sentenza di rigetto della Corte europea che anzi, se attentamente considerata nella sua natura, può persino offrire ad esse qualche imprevisto elemento di supporto.
Il punto, anche se già accennato dalle difese di parte in limine all’udienza davanti alla Corte costituzionale, mi pare rilevante perché tutte e tre le ordinanze che hanno sollevato la questione, sebbene in misure ed in direzioni diverse, hanno puntato sull’argomento forte costituito dalla sentenza del 1° aprile 2010 della Corte europea, sia identificando in essa il parametro interposto da far valere per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., sia rinvenendo in essa molti degli argomenti idonei a dare corpo alle censure fondate sui restanti parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 31 e 32. Da questo punto di vista, rispetto alle osservazioni critiche del prof. Ruggeri sul rinvio disposto dalla Corte, proverei maggiormente a fare “di necessità virtù”, perché ho l’impressione, leggendo le ordinanze, che effettivamente il richiamo al precedente CEDU costituisca il fil rouge che interseca la maggior parte dei profili e dei parametri d’incostituzionalità, anche se non al punto da giustificare l’assorbimento “rovesciato” dei parametri coinvolti. La stessa dovizia di argomenti con cui l’ord. n. 150 cit. si sforza di dimostrare, ordinanze alla mano, il carattere “preliminare” del parametro costituito dall’art. 117 Cost. e, dietro di esso, del precedente europeo del 2010, al di là della condivisibilità degli esiti cui ha condotto è, infatti, il segno di una connessione forte sul piano delle ragioni d’incostituzionalità prima che dei singoli parametri di per sé considerati, che effettivamente non possono non venire alterate dal rovesciamento operato nel 2011 con la decisione della Grande Camera. Alla luce di ciò, l’opportunità di ricalibrare le censure di incostituzionalità per dare maggiore spazio a ragioni che siano maggiormente connesse ai parametri costituzionali ritenuti ora “assorbiti”, da un lato, e che chiariscano quale sia l’uso corretto da fare del precedente del 2011, dall’altro lato, penso possano giovare ad una chiarificazione della situazione normativa sub iudice. Un tentativo utile anche al fine di scongiurare un effetto perverso che può provenire da una pronuncia apparentemente “solo” processuale che tanto si sforza per far emergere la natura assorbente del vizio ex art. 117 cpv. Cost.: cioè far ritenere che, una volta sgombrato il campo dalla censura ricollegabile alla CEDU come parametro interposto, siccome venuta meno la portata prescrittiva del precedente favorevole del 2010 e la sua “forza radiante” anche rispetto ai parametri costituzionali assorbiti, questi ultimi non si mostrino più oggi altrettanto adeguati a fondare l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004.
Proprio al fine di rivelare la poca sussistenza di un simile assunto, va detto che la sentenza della Grande Camera è emblematica di quell’orientamento della Corte europea che fa proprio un uso particolarmente difensivo del margine d’apprezzamento, sia nel momento in cui decide di riferire il consensus standard alla situazione normativa esistente al 1999 (data della decisione della Corte costituzionale austriaca) mostrando così di ignorare gli sviluppi intervenuti successivamente, sia nel momento in cui ritiene insufficiente il numero di paesi che negano, come fa l’Austria, il trasferimento di ovuli e di sperma in vitro (rispettivamente otto e cinque su quarantasette) per poter dichiarare l’insussistenza del margine d’apprezzamento. Entrambi questi aspetti, a ragione duramente criticati anche dall’opinione dei quattro giudici dissenzienti, oltre a gettare un’ombra sulla decisione nel suo complesso, dovrebbero chiarire le ragioni per cui il suo dictum non appare idoneo a supportare la costituzionalità delle norme della legge 40 sulla fecondazione eterologa. Oltre alla circostanza, che merita di essere fermamente ribadita, che una decisione come quella della Grande Chambre esclude la violazione dell’art. 8 della Convenzione non perché venga esclusa a priori una lesione del diritto in questione, ma perché essa non è ritenuta di gravità tale da giustificare la completa eliminazione del margine d’apprezzamento statale, nel caso di specie a circoscrivere la portata della pronuncia concorre anche la diversità delle situazioni fatte valere davanti alle due Corti, da cui traspare con grande evidenza la maggiore restrittività della legislazione italiana rispetto a quella austriaca. Mentre, infatti, quest’ultima consente almeno una tra le forme di fecondazione eterologa – il trasferimento di sperma in vivo da donatore estraneo alla coppia – vietando tutte le altre, la legislazione italiana, come noto, le vieta tutte indistintamente, sposando un indirizzo legislativo che al momento la accomuna ad una minoranza più che esigua in Europa, insieme solamente a Turchia e Lituania. Più che il solo dato numerico, tuttavia, quel che conta rilevare è che questa diversità di situazioni rende, ancora una volta, non utilizzabili a livello interno le ragioni sostanziali che hanno spinto la Grande Chambre a respingere il ricorso di S.H., tenuto conto che la Corte europea è ben consapevole, come appare al § 114 della decisione, che un esito simile in tanto è possibile, in quanto il legislatore austriaco, nel momento in cui ha ammesso almeno una forma di fecondazione eterologa, ha pur sempre trovato un bilanciamento in certa misura adeguato rispetto agli interessi in conflitto (“Il fatto che il legislatore austriaco, nell’emanazione della legge sulla procreazione artificiale che sanciva la decisione di non consentire la donazione di sperma o di ovuli per la fecondazione in vitro, non vietava al contempo la donazione di sperma per la fecondazione in vitro – una tecnica tollerata da lungo tempo e comunemente accettata dalla società – è un elemento importante nel bilanciamento dei rispettivi interessi e non può ridursi a una semplice questione di efficacia del controllo dei divieti. Dimostra piuttosto l’approccio attento e cauto del legislatore austriaco nel tentare di conciliare le realtà sociali con la sua posizione di principio in materia”).
A partire dalla presa d’atto di questa diversità, che incide proprio su
i presupposti per l’applicabilità del precedente della Grande Chambre del 2011, si apre lo spazio per una considerazione intorno all’opportunità che la Corte costituzionale, come ha fatto spesso nel recente passato, faccia valere il rispetto delle specificità del quadro costituzionale interno così da apprezzare le sentenze europee e tenerne conto nella loro sostanza (sentt. nn. 236 e 303 del 2011, secondo un orientamento indagato e ribadito anche di recente dal Vice-Presidente della Corte, Franco Gallo, in occasione dell’Incontro di studio con le altre Corti costituzionali su “Applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come diritto comunitario”, pp. 8 e 20 ss. < http://www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_internazionali/RI_BRUXELLES_2012_GALLO.pdf> ).
L’effetto che mi sembra doversi riconoscere all’ord. n. 150 del 2012, pertanto, sta proprio nell’indurre una maggiore presa in considerazione dei profili di incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa diversi da quello incentrato sulla violazione della CEDU, ma anche, come anticipato, in una loro parziale ricalibratura anche alla luce della sentenza della Grande Chambre, da cui quindi possono in parte qua trarsi alcuni isolati elementi a supporto delle ragioni di incostituzionalità. Da questo punto di vista, in stretta relazione con la diversità di fattispecie di fecondazione eterologa vietate in Italia e in Austria, assume una rilevanza ancora maggiore il § 100 della sentenza della Grande Chambre, in cui si osserva che “[l]a Corte ritiene che le preoccupazioni basate sulle considerazioni morali o sull’accettabilità sociale devono essere seriamente considerate in un campo delicato come quello della procreazione artificiale. Tuttavia, queste non sono di per sé motivi sufficienti per un totale divieto di una tecnica specifica di procreazione artificiale quale la donazione di ovuli. Nonostante l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati contraenti, il quadro giuridico concepito per questo scopo deve essere plasmato in modo coerente cosicché si tenga adeguatamente conto dei diversi interessi legittimi coinvolti”.
Questo passaggio della motivazione può assumere un peso particolare nel conferire ulteriore solidità alla censura di incostituzionalità fondata sugli artt. 3 e 31 Cost., poiché rafforza quell’imperativo di coerenza della disciplina legislativa in tema di fecondazione assistita che è stato già consacrato nella materia de qua, per quanto su un diverso terreno, dalla sentenza n. 151 del 2009 della Corte cost. Messo in questi termini, infatti, l’argomento mi pare in linea con le censure dei giudici a quibus che, condivisibilmente, hanno ravvisato il primo e più rilevante motivo di censura nella grave e palese contraddizione tra lo scopo della legge (“favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”, art. 1, co. 1, legge 40 del 2004) e il divieto totale di accesso alla fecondazione assistita per quelle coppie che più ne avrebbero bisogno, impossibilitate alla radice a causa della totale sterilità o infertilità di uno dei partner.
Appare tutt’altro che implausibile, quindi, trarre dalla pronuncia della Grande Chambre un (anche se modesto) principio di coerenza delle scelte legislative in materia di fecondazione assistita che, se non è valso (per ragioni criticabili, ma che ora non importa rievocare) a censurare la legislazione austriaca, non per questo non può, saldandosi ai parametri costituzionali come argomento ad adiuvandum, addurre elementi a favore dell’incostituzionalità della normativa italiana sub iudice, la quale si presenta, come detto, in una luce ben più problematica sia per la maggiore estensione del divieto che per le coordinate temporali alla luce delle quali la Grande Chambre ha “misurato” il margine d’apprezzamento.
Quello che, invece, mi sembra certo è che dalla sentenza del 2011 non si debba dedurre alcun elemento in grado di impedire la prosecuzione del giudizio di legittimità costituzionale intorno alle norme della legge 40 che vietano la fecondazione eterologa, considerato che le diverse e articolate censure di incostituzionalità fondate sui parametri costituzionali ritenuti oggi assorbiti mantengono una loro autonomia non solo dal punto di vista processuale (nonostante il disposto dell’ordinanza n. 150 cit.), ma anche e soprattutto dal punto di vista sostanziale, senza venire in nulla modificate o indebolite dalla pronuncia di rigetto della Grande Camera.