L’impegno civile di un costituzionalista: a proposito dell’ultimo libro di Cesare Pinelli

Tra numerosi motivi di interesse e profonde suggestioni, l’ultimo libro di Cesare Pinelli (“Nel lungo andare. Una costituzione alla prova dell’esperienza. Scritti scelti 1985-2011”, Napoli ES 2012) invita, sin dalla Premessa, a tornare a riflettere sul problema del ruolo sociale del costituzionalista.
Già nella scelta del momento di pubblicazione del volume, peraltro, sembra possibile individuare una ben precisa opzione sulla declinazione di tale ruolo nei termini di un impegno. Il costituzionalista, infatti, “prende la parola” per dare voce ad un’urgenza e condividere percorsi di riflessione, sforzi, tensione civile, fornendo il proprio punto di vista sui problemi, analizzandone le implicazioni più profonde  ed indicando possibili vie di uscita. Non a caso, ciò accade in un momento del tutto particolare della storia repubblicana, quando – e non è la prima volta (come sottolinea lo stesso Pinelli in alcuni saggi contenuti nella prima parte del volume) – nel contesto di un drastico riposizionamento degli equilibri politici sembra intravedersi la possibilità di intervenire con riforme strutturali sugli assetti fondamentali della convivenza. La Costituzione del 1948, in tale contesto, si pone – a seconda dei punti di vista – come punto di riferimento o pietra di scandalo, come impulso all’ulteriore approfondimento dell’originario progetto di liberazione della persona umana o come ostacolo da rimuovere sulla strada di una piena modernizzazione delle istituzioni. Sullo sfondo – ed è questa una delle prime e più stimolanti considerazioni che lo stesso Pinelli espone in premessa – ad essere (o sembrare) compromesso è tuttavia il tessuto civile del Paese, stretto tra una “perdita di fiducia dei cittadini in un futuro condiviso” e “l’eterno presente dei circuiti mediatici” (pp. XI-XII).


In tale contesto, l’impegno media tra ragione e passione, allontanando il rischio dell’indifferenza – “buco nero per il diritto costituzionale di un paese democratico” (p. 114) – ed il costituzionalista risponde alla preoccupazione con gli strumenti di una razionalità scientifica che, lungi dall’irrigidirsi in costruzioni concettuali dogmatiche, si apre alla considerazione delle interdipendenze tra diritto e realtà storica, tra esperienza giuridica, esperienza morale ed esperienza sociale, mostrandosi sensibile agli apporti di altre discipline (giuridiche e non, gli scritti di Pinelli sono ricchi di riferimenti al pensiero economico e alla scienza politica). Nel solco di una tradizione autorevole (penso all’insegnamento di Santi Romano), il diritto costituzionale descrive l’insieme dei principii, dai quali le altre discipline giuridiche si dipartono, come rami da un unico tronco: in conseguenza, il costituzionalista è chiamato ad essere giurista a tutto tondo, segnato da profonde aperture culturali e da una strutturale attitudine critica (Cervati), frutto di sensibilità storica e politica ed arricchita dalla capacità di elaborare una visione .
L’orizzonte più autentico della “presa di posizione” di Pinelli – pur nella diversità e ricchezza dei temi di lavoro prescelti, che toccano ambiti solo apparentemente lontani tra loro, ed invece tenuti assieme, come meglio vedremo, da una visione ben definita – sembra essere la questione del “nesso costituzionale fra tradizione e mutamento” cui si affianca – come secondo pilastro teorico – la ricerca dello spazio per una “interpretazione costituzionale attenta alle circostanze del presente” (p. 302) e alle “prospettive della convivenza” (p. 311). Attraverso la critica costante di ogni irrigidimento “originalistico” (cfr. pp. 342-343), simile sforzo di interpretazione costituzionale si delinea progressivamente come veicolo di una “identità più matura” (p. 304).
L’attuazione della Costituzione è dunque ricostruita come processo complesso, che non può fare appello unicamente alle risorse istituzionali e che anzi, in quanto processo immerso nel contesto culturale, chiama in causa direttamente la cooperazione sociale e la responsabilità individuale come dimensione più autentica di esercizio della libertà (rinvio sul punto, al saggio su “Libertà e responsabilità”, pp. 129 ss.). Allo stesso tempo, e proprio per tale inquadramento largo delle dinamiche che lo animano, il processo di attuazione della Costituzione si apre alle risorse del pluralismo e, in una parola, diviene il luogo di una attività politica intesa come “tessuto di solidarietà e passione” (p. 598), che sembra evocare le pagine più profonde di Hermann Heller. Ed in effetti, la ricostruzione del processo di attuazione della Costituzione che può desumersi dalle pagine di Pinelli sembra collocarsi a metà strada tra un debito forte verso il nesso tra democrazia e relativismo tratteggiato da Kelsen e le diverse posizioni helleriane, caratterizzate dall’appello alla “traduzione in azione” della coscienza del “noi” (cfr. pp. 282-283).
Il richiamo ripetuto e forte alle risorse della cooperazione sociale e del concorso – concetto cardine della riflessione di Pinelli in tutta la ricchezza di accenti desumibile dallo stesso testo costituzionale (cfr. pp. 206-207) – è strettamente connesso, inoltre, all’interpretazione delle premesse antropologiche che animano la Costituzione repubblicana: con l’obiettivo di superare “la dicotomia tra Stato e individuo senza precostituire strutture corporative o presupporre visioni comunitarie” (p. 353), questa si impernia infatti su “un’esigente concezione dell’uomo come essere sociale, artefice della propria fortuna ma anche consapevole dei propri limiti […] i cui meriti vanno riconosciuti da tutti gli altri in una gara basata sull’uguaglianza dei punti di partenza” (p. 126). Concezione esigente, senz’altro, ma che certo non astrae rispetto alla considerazione delle materiali condizioni di vita, giacché a più riprese viene riaffermata la necessità di politiche sociali – non esclusivamente assistenziali ed anzi aperte al concorso e alla cooperazione – decisamente orientate al pieno sviluppo della persona umana:  le differenze sono ammissibili, pertanto, solo se “per avventura coincidano con quelle costituzionalmente giustificabili” (p. 354).
Il nesso costituzionale fra tradizione e mutamento viene dunque ricomposto (e soprattutto perseguito) attraverso un’articolazione complessa e ariosa del processo di attuazione della Costituzione che, peraltro, riconduce ad una visione unitaria la solo apparente eterogeneità di contenuto di questi “Scritti scelti”. È in simile quadro che si spiega infatti, anzitutto, l’attenzione ai doveri costituzionali, mai disgiunta da una sicura fiducia nelle risorse della libertà ed animata dalla coscienza profonda del nesso tra cittadinanza come partecipazione consapevole e responsabile (si pensi allo scritto sullo status dei non cittadini: “Questioni di frontiera. Cittadini, stranieri, persone”, pp. 169 ss.) ed una concezione dei diritti sociali come luogo di politiche non assistenziali e spazi di esperienza solidale (pp. 213 ss.; 269 ss.; 381 ss.; ma si pensi ancora alle pagine su “Lavoro e progresso nella Costituzione”, pp. 181 ss.). Tali politiche, peraltro, sono affrontate in tutta la loro complessa fenomenologia, con significative incursioni nel diritto amministrativo e, soprattutto, con la chiara consapevolezza del legame tra ripartizione delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali secondo criteri sussidiari ed approfondimento dell’effettività dei diritti sociali.  Le prestazioni pubbliche, in tale quadro ricostruttivo, si allontanano (o dovrebbero allontanarsi, e qui il costituzionalista diviene soggetto di impegno critico) dalla prospettiva tradizionale dell’erogazione assistenziale per divenire luogo in cui si temprano dinamiche di cooperazione solidale: ma qui emerge, soprattutto, un altro principio cardine della riflessione di Pinelli, vale a dire il principio di responsabilità dell’azione pubblica (p. 81; pp. 272-273). Una responsabilità che, di nuovo, solo in parte deriva da congegni istituzionali – ferma restando la profonda attenzione a questi ultimi, ed in particolare alle dinamiche della rappresentanza politica e sociale (anche oltre il binomio partito/sindacato) ed all’esigenza di una revisione profonda della  selezione e della formazione della classe dirigente – ed è piuttosto armonicamente inserita in processi di apprendimento e cooperazione sociale. Lo stesso processo di integrazione europea – oggetto di numerosi lavori che pure Pinelli non ha scelto di raccogliere in questo volume – è qui liberato dalla prospettiva della teoria delle fonti e delle relazioni tra ordinamenti per essere riguardato nello snodo più critico del suo farsi “esperienza costituzionale”, vale a dire nel problematico intreccio tra libertà, diritti e mercato e nelle sue ricadute materiali sul processo di attuazione costituzionale (pp. 281 ss.; 427 ss.).
Ma in questa luce si spiegano anche le riflessioni di Pinelli sul principio di laicità e sulla “prospettiva del diritto interculturale” (pp. 305 ss.; 331 ss.; 345 ss.), perno della relazione tra attuazione costituzionale ed assetto pluralistico della formula di convivenza: la dedica del volume a Leopoldo Elia prende vita, in quelle pagine, attraverso il richiamo esigente ad un dialogo attento a fondamentali posizioni di libertà come autodeterminazione. L’obiettivo è quello di un “universalismo emancipato da astratte pretese impositive” (p. 377), cioè di un universale assunto non come dato, ma come compito, nella sua dimensione essenzialmente relazionale (ritorna qui con forza l’eredità di Hermann Heller, e forte appare la vicinanza con la concezione della dignità umana come autodeterminazione nel mutuo rispetto messa in luce da Paolo Ridola).
Se il processo di attuazione costituzionale è pertanto immerso nel con
testo culturale, sociale, istituzionale e politico e se esso si apre alle risorse del pluralismo e dell’impegno individuale, appare chiarito un passaggio importante del volume (p. 77), in cui la dimensione costituzionale è invocata come superamento di tradizionali dicotomie – quella tra diritto e fatto, o ancora quella tra legalità e rivoluzione – proprie di quel “pensare per separazioni” tipico della dogmatica statualistica (oggetto di riflessione risalente per l’Autore, a partire almeno dalla monografia del 1989 su “Costituzione e principio di esclusività”). Punto di mediazione resta, almeno ad avviso di chi scrive, il riferimento forte alla dimensione dell’impegno, che in primo luogo è impegno del costituzionalista che si lascia interrogare senza pregiudizi dall’esperienza in cui è immerso, rinunciando – almeno in parte – ad un’altra tradizionale dicotomia, quella tra chi osserva e l’oggetto che viene osservato. E che accetta di contribuire all’opera di costruzione della memoria, specie con riferimento ai tornanti più controversi della storia repubblicana (penso in particolare ai due lavori sulla crisi del governo Tambroni – pp. 29 ss. – e sulla transizione 1992-1994, pp. 53 ss.), nella consapevolezza che, per recuperare e ricostruire la fiducia in un futuro condiviso “occorre guardarsi in faccia” (p. 152).
Ed in fondo, come strumento di costruzione e condivisione della memoria può essere riguardato questo stesso libro.