Alla ricerca del retto significato dell’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione (noterelle a margine delle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot su una questione d’interpretazione sollevata dal tribunale costituzionale spagnolo)*
Il caso è spinoso, per molti versi inquietante; francamente, non vorrei essere nei panni della Corte dell’Unione il giorno in cui sarà chiamata ad esprimere il proprio verdetto su di esso. Conciliare i diritti fondamentali dei singoli con l’interesse generale dell’Unione stessa è sempre assai problematico, anche perché – non si dimentichi – dietro l’interesse in parola stanno altri diritti, sia dei singoli che dell’intera collettività. Così è, appunto, nel caso nostro, dove a fronteggiarsi sono il diritto del condannato in absentia e l’interesse alla sicurezza, sotteso alla disciplina del mandato di arresto europeo.
Confesso un’impressione che ho subito avvertito, forte, a prima lettura delle Conclusioni cui si dirige questo breve commento; ed è che il caso, la posta in palio (dar seguito, o no, al mandato di arresto), abbia lasciato un segno sulla linearità del ragionamento svolto dall’avvocato generale Y. Bot, di solito – come si sa – stringente e largamente persuasivo. Non me ne sorprendo, tuttavia. In fondo è sempre (o quasi…) così. È però assai rischioso farsi prendere la mano dalla vicenda processuale, specie laddove – come qui – la posta in palio è costituita dall’interpretazione da dare ad un disposto normativo suscettibile di generale valenza, trattandosi di una metanorma provvista di una formidabile capacità di escursione di campo, siccome idonea a distendersi sopra ogni questione relativa ai diritti, alle forme della loro protezione, alla “intensità” della protezione stessa.
Qui, è il punctum crucis della questione oggi portata alla cognizione del giudice dell’Unione. Come si misura il “grado” di tutela apprestato da questo o quell’ordinamento e da questa o quella norma ad un diritto? Qual è, dunque, il criterio in applicazione del quale possa farsi luogo, senza soverchie incertezze ed approssimazioni, a siffatta misurazione? E ancora: chi è abilitato a stabilirla? E infine: il raffronto va circoscritto alle sole norme relative al singolo diritto di volta in volta in gioco (come non di rado sono portate a fare le Corti europee, specialmente quella di Strasburgo) ovvero all’intero sistema dei diritti (come, ad es., consiglia di fare Corte cost. n. 317 del 2009)?
Un grumo di questioni estremamente complesse; tanto più, se si pensa che, mentre le Carte dei diritti (la Carta di Nizza-Strasburgo al pari della CEDU o di ogni altra Carta) si fanno cura appunto dei soli diritti, le Costituzioni nazionali contemplano, unitamente ai diritti stessi, altri beni o valori, non di rado bisognosi di comporsi coi primi a mezzo di complesse operazioni di ponderazione assiologica, all’esito delle quali si rende possibile (alle volte, per vero, solo in parte) conseguire sintesi giuridicamente apprezzabili.
Le notazioni appena svolte spiegano come possa essere legittimamente diverso il punto di vista rispettivamente adottato dalle Corti europee e dalle Corti nazionali: per le une, il “sistema” si riduce ai soli diritti consacrati dalle Carte di cui esse sono chiamate a farsi garanti, ferma restando la considerazione che va comunque prestata anche ad altri documenti normativi, cui le Carte stesse fanno espresso richiamo (la Carta dell’Unione rimanda, come si sa, alla CEDU, così come questa a quella, ed entrambe alle Costituzioni nazionali); per le Corti nazionali, di contro, il “sistema” si compone altresì di beni della vita che diritti non sono (perlomeno, in ristretta accezione), beni dei quali va nondimeno tenuto conto. È poi vero che nessun enunciato può, metodicamente, essere correttamente inteso nel “chiuso” del sistema positivo di appartenenza: i sistemi sono ormai a tal punto reciprocamente intrecciati da rendersi impossibile, se non col costo di palesi forzature, alcuna operazione di ricognizione semantica di un enunciato che non faccia, a un tempo, capo ad altri enunciati, quale che sia la fonte, interna ovvero esterna, che li esprime. È persino banale dover qui nuovamente insistere sul rapporto di mutua alimentazione semantica che senza sosta s’intrattiene tra le Carte (e perciò, in buona sostanza, sul mutuo soccorso che si danno le Corti); eppure, gli svolgimenti argomentativi presenti nelle Conclusioni cui si dirigono queste notazioni e, prima ancora, l’impostazione metodica che li sorregge obbligano a far riferimento a concetti che ormai appartengono al comune bagaglio culturale di studiosi ed operatori. Del tutto assente dall’orizzonte preso di mira da Y. Bot sembra invero essere il rilievo che va comunque assegnato alle Costituzioni nazionali al fine della opportuna messa a punto dei significati della Carta dei diritti dell’Unione. Trovo singolare, davvero stupefacente, l’affermazione fatta al punto 84 delle Conclusioni, laddove Bot, discostandosi da un indirizzo più volte avvalorato dalla giurisprudenza dell’Unione, enuncia il convincimento che “la Corte non possa fondarsi sulle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri per applicare un livello di protezione più esteso”; e singolare è altresì la motivazione addotta a sostegno di quest’idea.
Per un verso, si fa richiamo alla circostanza per cui la decisione-quadro 2009/299 è “frutto dell’iniziativa di sette Stati membri” ed è “stata adottata dalla totalità di essi”: come dire che un atto politico sovranazionale, frutto di una decisione parimenti politica che ha visto la convergenza della volontà degli Stati, è condizione necessaria e sufficiente della ricognizione di una “tradizione costituzionale comune”, senza che allo scopo si dia o possa darsi rilievo alcuno all’orientamento dei giudici, specie di quelli che, a motivo della loro natura costituzionale, sono elettivamente chiamati a definire e mettere costantemente a punto quelle tradizioni e, alla bisogna, sanzionare gli atti politico-normativi che non vi si conformino.
Per un altro verso, poi, il rigetto dell’idea, problematicamente avanzata dal tribunale rinviante, favorevole alla presa in considerazione delle norme interne al fine di stabilire dove si appunti la più “intensa” tutela ai diritti è argomentato con un sibillino richiamo al “contesto”, rilevandosi (punto 110) che siffatta considerazione “equivarrebbe, di conseguenza, a ignorare che la determinazione del livello di protezione dei diritti fondamentali da conseguire dipende strettamente dal contesto nel quale essa viene compiuta”. Un’affermazione persino banale (chi ha mai negato il peso del “contesto” – salvo a precisare come quest’ultimo vada inteso – in sede di ricognizione semantica degli enunciati?), che nondimeno non si capisce perché mai debba sempre e comunque (verrebbe da dire: per sistema) risolversi nella considerazione del diritto dell’Unione come “chiuso” in se stesso, in modo autoreferenziale. Piuttosto, anche sotto questo profilo le cose parrebbero andare diversamente; e, a seconda della posta in palio, il richiamo al “contesto”, in ispecie a quello nazionale, può rivelarsi prezioso, conducente al fine della determinazione della norma o del “sistema” di norme in cui si appunta la più “intensa” tutela. D’altro canto, proprio al contesto spagnolo lo stesso Bot volge opportunamente lo sguardo, nel fare preciso riferimento ai fatti di causa…
Il vero è che all’autore delle Conclusioni preme dimostrare che ciò che solo conta è quanto è stabilito dal diritto dell’Unione: la tutela più “intensa” è, e non può che essere, quella offerta da quest’ultimo, senza alcun riguardo per un’eventuale, diversa tutela stabilita a livello nazionale, la quale potrebbe acquistare rilievo nel solo caso – dice Y. Bot – che a livello di Unione non si dia una definizione del grado di protezione che dev’essere accordata a un certo diritto (punto 124 ss.).
Qui, si tocca con mano quanto si segnalava poc’anzi a riguardo del non coincidente punto di vista che potrebbe essere, legittimamente, adottato in ambito europeo e in ambito nazionale. Il timore nutrito da Bot è che, all’esito del confronto col diritto interno, il diritto “eurounitario” – come a me piace chiamarlo – possa uscirne perdente, venendo pertanto meno il principio del primato del diritto sovranazionale, interamente soppiantato dal primato dell’ordinamento nazionale (v., spec., al punto 97). Dall’angolo visuale di quest’ultimo ordinamento, di contro, un uguale esito non potrebbe che portare all’attivazione dei “controlimiti”, facendosi dunque “non applicazione” del diritto eurounitario che offra una tutela meno avanzata (altra cosa è se la messa da canto del diritto sovranazionale consegua di necessità al previo accertamento da parte del giudice delle leggi ovvero se possa, perlomeno in taluni casi, subito aversi da parte del giudice comune; ma, di ciò in altra sede). Naturalmente, è vero anche l’inverso; e in non pochi casi potrebbero rinvenirsi norme sovranazionali che, persino in deroga rispetto a principi fondamentali di diritto interno, offrano una miglior tutela a libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità, dov’è la giustificazione e il fine degli stessi principi che stanno a fondamento sia dell’ordine positivo interno che del diritto sovranazionale: si rammenti, per tutti, il caso Omega). La qual cosa, come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi, dimostra che ragionare in astratto – come fanno dottrina e giurisprudenza corrente – di “controlimiti”, sempre e comunque opponibili all’ingresso in ambito interno di norme dell’Unione, è cosa priva di senso alcuno, non escludendosi – come si viene dicendo – il caso che si diano norme di origine esterna incompatibili con questo o quel principio costituzionale e tuttavia parimenti bisognose di essere portate ad applicazione, sempre che – è questa l’unica condizione che ne giustifica il vigore in ambito interno – si dimostrino appunto “coperte” dai principi di libertà ed eguaglianza, in ragione del caso ed alla luce della sua considerazione nel “contesto”. E, poiché da tali principi potrebbero essere altresì “coperte” norme nazionali incompatibili con norme di origine esterna, ecco che alla fin fine si tratta di far luogo ad operazioni di bilanciamento su basi assiologicamente connotate ed a carattere interordinamentale, stabilendosi di volta in volta dove si appunta la più adeguata tutela ai diritti in campo.
Per altro verso, l’eventualità che a Bot incute timore, secondo cui il diritto dell’Unione potrebbe non sempre ed in ogni sua parte ricevere uniforme applicazione nei territori degli Stati membri, è per tabulas riconosciuta in uno dei principi fondanti l’ordine “eurounitario”, laddove si fa carico all’Unione stessa di mostrarsi appieno rispettosa delle identità costituzionali di ciascuno Stato membro (art. 4 TUE). Come mi è venuto di dire altrove, la qual cosa equivale a dire che i “controlimiti” sono ormai da considerare quodammodo “europeizzati”, il principio del primato del diritto dell’Unione considerandosi pertanto, dal punto di vista dell’Unione stessa, condizionato al rispetto dei principi di base dell’ordinamento di ciascun Stato membro. Ma, ci si consoli: per strano che possa, per più versi, apparire, la stessa Costituzione è una fonte sub condicione, potendo per sua stessa ammissione – ancora un richiamo ai principi di libertà ed eguaglianza – trovare applicazione unicamente laddove sia in grado di dimostrare di dare una più “intensa” tutela rispetto a quella offerta da altre Carte.
Ancora una volta, s’impone dunque una lettura a tutto campo dei principi che stanno a base dell’ordinamento dell’Unione, il principio del primato essendo obbligato a fare “sistema” col principio (nazionale ed “eurounitario” a un tempo) dell’integrale, incondizionato rispetto delle identità costituzionali degli Stati membri. Se ne ha che quello che Y. Bot vede come un male da fugare ad ogni costo, vale a dire la “creazione di un sistema a geometria variabile” (punto 103), può e deve, all’inverso, esser visto come un’autentica risorsa da preservare e trasmettere: perlomeno, laddove appunto riferita ai principi costitutivi dell’identità dei singoli Stati, non già ovviamente a norme che quell’identità non danno. Qui, sarebbe da fare un lungo ed articolato discorso a riguardo dei modi e delle sedi giuste in cui far luogo al riconoscimento dei principi in parola, in ispecie se esso esclusivamente competa ai soli organi nazionali (e, per questa ipotesi, a quali: solo ai tribunali costituzionali? Anche ai giudici comuni? Ora agli uni ed ora agli altri, a seconda dei casi?). Ma, di ciò nulla può ora dirsi.
Frutto di una riduttiva (e, forse, pure, a dirla tutta, distorta) visione dei rapporti tra le Carte (e gli ordinamenti in genere) è poi il rilievo secondo cui dar fiato ad un’interpretazione dell’art. 53 della Carta dell’Unione, quale quella sia pur problematicamente prospettata dal tribunale spagnolo, nel senso che in tale disposto sarebbe fissato unicamente uno standard minimo di tutela suscettibile d’innalzamento in ambito interno, per ciò solo comporterebbe un’incisione del principio della certezza del diritto (punto 104). Il richiamo alla certezza è, come si sa, per vero ricorrente, nell’ordine sovranazionale così come in quello interno, e non di rado caricato d’indebite valenze, che si fanno talvolta riportare ad un’idea mitica e quasi sacrale della certezza stessa, che pure – non si dubita – è valore fondamentale e però, al pari di ogni altro valore, soggetto a bilanciamento. Se n’è avuta, ancora non molto tempo addietro, palmare conferma ad opera della nostra giurisprudenza proprio sul terreno delle relazioni intersistemiche (e, segnatamente, delle relazioni tra diritto interno e diritto CEDU). Dichiarando esser possibile (ed anzi doveroso) il superamento del giudicato anticonvenzionale in presenza di pronunzie della Corte EDU che lo accertino, la Consulta sembra dare ad intendere di voler posporre la certezza del diritto, sottesa al giudicato stesso, alla certezza dei diritti (sent. n. 113 del 2011). In realtà, a mio modo di vedere, questa contrapposizione tra una certezza in senso oggettivo ed una in senso soggettivo è palesemente forzosa. La storia delle Costituzioni di tradizioni liberali sta tutta qui sotto i nostri occhi ad ammaestrarci che l’unico significato possibile della certezza del diritto è nella sua congenita vocazione a naturalmente convertirsi ed interamente risolversi in certezza dei diritti, vale a dire, a conti fatti, nella effettività della loro tutela: quella senza questa non è niente, con questa è tutto (si rammenti il magistrale, attualissimo insegnamento consegnatoci dai rivoluzionari francesi e lapidariamente espresso nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789).
Nel momento in cui una Carta costituzionale (in accezione materiale, siccome riferita ad ogni Carta, interna o esterna, che dia riconoscimento ai diritti) si piega davanti ad altra Carta, assumendo che in essa è la più “intensa” tutela, si dà a un tempo appagamento, il massimo consentito alle condizioni oggettive di contesto, alla certezza del diritto e alla certezza dei diritti ed anzi si assiste alla loro stessa immedesimazione. Solo così, come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi, la certezza del diritto realizza appieno se stessa, la propria incontenibile vocazione a salvaguardare libertà ed eguaglianza, nelle mutue, inscindibili implicazioni che tra di esse s’intrattengono: la coppia assiologica fondamentale che sta a base sia di un ordinamento autenticamente costituzionale e sia pure delle sue relazioni con altri ordinamenti parimenti costituzionali.
La certezza del diritto, insomma, non è preservata con la chiusura, che – mi si consenta di dire con franchezza – giudico sterile e persino insensata, di un sistema di norme relativo ai diritti rispetto ad altro sistema. Proprio l’idea di “sistema” verrebbe, infatti, senza riparo pregiudicata nel momento in cui dovessero sbarrarsi le porte al servizio che può esser dato ab extra a presidio dei diritti. Nella presente congiuntura, caratterizzata da una integrazione sovranazionale ormai avanzata, il sistema è perciò – se così può dirsi –, per sua natura, “intersistematico”, al pari della Costituzione che o è una “intercostituzione” oppure semplicemente non è.
Su ciò, se ci si fa caso, converge il punto di vista sia delle Carte europee che della Carta costituzionale. V’è di più. Le une Carte non soltanto si fanno – come si rammentava poc’anzi – esplicito rimando a vicenda ma fanno altresì rimando alla tutela apprestata ai diritti dalle Costituzioni nazionali. Queste ultime, poi, non sempre menzionano in modo esplicito le Carte europee; ciononostante, il riferimento ad esse può con sicurezza desumersi dai principi di libertà ed eguaglianza (e, risalendo, dignità), nel loro fare “sistema” col principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale. Così, è appunto da noi; e a darcene sicura conferma è una risalente (e però non datata) giurisprudenza, che in un suo felicissimo e noto passo segnala che la Costituzione e le Carte internazionali dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione”. Una giurisprudenza alla quale invero non è stato, a mia opinione, dato da parte della giurisprudenza successivamente venuta a maturazione quel lineare svolgimento che avrebbe richiesto, ponendosi tuttavia egualmente quale sicuro punto di riferimento al piano delle relazioni interordinamentali, specie nella presente congiuntura caratterizzata dall’infittirsi dei vincoli di solidarietà alla cui osservanza gli Stati sono chiamati dall’Unione e dalla Comunità internazionale.
Ora, questo discorso può apparire duro da digerire – ne convengo – a quanti seguitano a guardare con malcelato “nazionalismo” o “patriottismo” costituzionale alla Carta dei diritti dell’ordinamento di appartenenza, nel suo porsi davanti (o sopra…) ogni altra Carta: sia esso l’ordinamento interno e sia pure, appunto, quello “eurounitario” o quello convenzionale. Si tratta però di un atteggiamento mentale a mio modo di vedere contestabile in radice, al piano metodico ancor prima che a quello teorico-ricostruttivo, che risente – mi si consenta di esprimermi con franchezza – di una sorta di trasporto emotivo incontrollabile: un atteggiamento, cioè, comprensibile alla luce di una tradizione culturale fortemente radicata ed invero ancora oggi non poco diffusa, e tuttavia – come qui pure si è venuti dicendo – in alcun caso o modo ormai più giustificabile. E ciò, ove si convenga – come devesi – che del DNA dell’ordinamento di volta considerato fa parte integrante il principio fondamentale dell’apertura, in via “sussidiaria”, agli altri che, a motivo del riconoscimento in essi ugualmente dato ai diritti, entrano pertanto a comporre la struttura stessa dell’ordinamento richiamante, senza per ciò veder rinnegata la propria origine ovvero smarrita o, come che sia, incisa la propria identità, che, all’inverso, ne risulta vieppiù valorizzata, siccome idonea a fecondare beneficamente pratiche ed esperienze di diritto formatesi in luoghi diversi da quello di provenienza.
È un discorso, poi, che si rivela essere ancora più duro da digerire con riguardo a talune vicende processuali, quale quella che ha dato lo spunto a queste sparse e disorganiche notazioni, nelle quali si fa questione di apprestare tutela a beni della vita nel tessuto sociale profondamente avvertiti.
Quando però si ragiona attorno al modo migliore, a quello giusto, con cui Costituzione e Carte dei diritti si pongono l’una davanti alle altre e tutte assieme fanno “sistema”, non possono farsi sconti teorici, patrocinandosi soluzioni ricostruttive preorientate in forza di occasionali convenienze, pur se meritevoli della massima considerazione. Il rischio, infatti, come si avvertiva dianzi, è quello della eterogenesi del fine, vale a dire che, imboccata la strada sbagliata, questa possa poi rivelarsi senza uscita e senza neppure possibilità di ritorno, in relazione ai casi in cui si faccia questione della salvaguardia di diritti o beni della vita diversi da quello con riguardo al quale si è formato (o, meglio, potrebbe formarsi) un indirizzo preclusivo di quel “dialogo” interordinamentale che invece è la linfa vitale che dà modo sia alla Costituzione che alle Carte dei diritti (e perciò, in buona sostanza, alle rispettive Corti) di alimentarsi e rigenerarsi senza sosta, offrendosi al servizio dei bisogni elementari e più intensamente avvertiti dell’uomo.
* Il riferimento è alle Conclusioni relative alla causa C-399/11 (in materia di mandato di arresto europeo), presentate il 2 ottobre 2012, alla cui data questo commento è aggiornato.
La vicenda Melloni, come ha chiaramente messo in evidenza il prof. Ruggeri, fa venire drammaticamente al pettine i molteplici nodi che emergono dall’interpretazione dell’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Proprio in ragione di questo suo valore paradigmatico, destinato probabilmente a segnare il dibattito a venire, difficilmente può stupire il marcato vigore con cui l’avv gen. Bot ha difeso le esigenze sottese all’uniforme applicazione del diritto dell’Unione rispetto allo spazio di autonomia degli Stati membri. Salvo quello che in futuro dirà la Corte sul punto, le conclusioni mi sembrano infatti in perfetta coerenza con l’approccio tradizionale della giurisprudenza comunitaria, volto a elevare (da Hauer in poi) a principio cardine dei bilanciamenti che vedono coinvolti diritti quell’esigenza di continuità delle scelte interpretative rispetto all'”interesse generale comunitario”. A dispetto di questo, mi sembrano da sottolineare con particolare evidenza alcuni passaggi delle conclusioni che sollevano perplessità anche ulteriori rispetto a quelle già prese in esame puntualmente dal prof. Ruggeri. In primo luogo, stupisce che nel ragionamento seguito dall’avv. gen. non compaia un richiamo all’art. 52(2) della Carta, ai sensi del quale, come si sa, “I diritti riconosciuti dalla presente Carta per cui i Trattati prevedono disposizioni si esercitano alle condizioni e nei limiti dagli stessi definiti”. È certo inutile tornare sul senso di questa disposizione e sulle modifiche che essa ha dovuto subire nel passaggio dal Trattato costituzionale al Trattato di Lisbona, ma resta indubbio che in essa si sono voluti condensare i termini essenziali del rapporto tra diritti riconosciuti dalla Carta e il complesso dei vincoli sistematici che i Trattati nel loro insieme pongono all’interpretazione dei diritti. Ora, nel caso di specie, il ragionamento dell’avv. gen. Bot appare piuttosto rivolto a far dipendere il contenuto delle garanzie processuali di cui agli artt. 47 e 48 (2) della Carta non tanto dal quadro dei principi del diritto primario da cui possono essere fatte derivare le regole processuali contenute nella direttiva quadro 2002/584/JHA così come modificate nel 2009, ma direttamente da queste ultime, come se, in questo modo, si predicasse una facoltà per il diritto secondario di operare come limite alla portata delle clausole della Carta. Il che, tuttavia, appare come detto in contrasto non solo con quanto prevede la Carta stessa, ma anche col significato proprio da attribuire al vincolo che deve intercorrere tra diritti e politiche, che altrimenti vedrebbe i primi sistematicamente sacrificati sull’altare degli infiniti vincoli di compatibilita’ che promanano dal diritto dell’Unione nel suo insieme. Un secondo aspetto, strettamente connesso al primo, riguarda invece la corretta interpretazione da dare all’art. 53 della Carta. In particolare, non possono che condividersi le perplessita’ avanzate da Ruggeri intorno alla lettura del punto 84. delle conclusioni, laddove si legge che la Corte di Giustizia non può richiamare le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri al fine di garantire un livello piu’ elevato di protezione di un diritto fondamentale. La portata di questa affermazione, di per sé altamente criticabile, diventa forse appena piu’ chiara non appena la si ricollega a quell’esigenza di uniforme applicazione del diritto dell’Unione che l’avvocato generale chiaramente adduce quale elemento di giustificazione per una simile lettura (tra l’altro, con maggiore evidenza, al punto 112.). Piu’ chiara, si diceva, ma non per questo meno criticabile. Le esigenze poste a presidio dell’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, infatti, non possono non tenere conto del fatto che la Carta ha posto a fondamento delle c.d. clausole trasversali un complesso meccanismo di interazione sistemica, che guarda in modo diversificato al contributo che puo’ provenire dalle Costituzioni degli stati membri. Mentre l’art. 52(4), infatti, richiede che i diritti della Carta vadano interpretati, tra l’altro, in linea di continuità con quanto emerge dalle tradizioni costituzionali comuni (oltre che, con tutta evidenza, con la CEDU, menzionata dal par. precedente), l’art. 53 – la cui interpretazione resta il principale nodo in discussione in questa complessa vicenda – assegna alle singole costituzioni degli stati membri (e non, quindi, alle piu’ difficilmente afferrabili “tradizioni costituzionali comuni”), il compito di consentire un innalzamento dello standard di tutela apprestato dalla Carta, fermo ovviamente restando, a seconda dei casi, la sussistenza del pertinente ambito di applicazione. Rispetto a questo quadro, l’eventualità che, in nome di una tutela più elevata di un certo diritto, un singolo ordinamento nazionale provveda a derogare ad una norma del diritto secondario dell’UE non dovrebbe apparire più un’aberrazione, quanto piuttosto un esito che, una volta chiariti i termini in cui si articolano i diversi ambiti di applicazione, risulta inerente a quel pluralismo costituzionale che ispira le clausole orizzontali della Carta. In ragione di ciò, sembra davvero doversi auspicare, in vista della decisione della Corte di Giustizia, una maggiore presa di coscienza della complessità delle interazioni esistenti tra livelli di protezione dei diritti fondamentali, che richiedono anche da parte dei giudici di Lussemburgo un’attenuazione dell’autoreferenzialità finora assegnata all'”interesse generale comunitario” quale vincolo idoneo a frenare una lettura espansiva delle garanzie apprestate dall’Unione.