Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale
(“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012)
Con la decisione fatta qui oggetto di talune scarne notazioni “a prima lettura” la Corte costituzionale, a mo’ di novella Penelope, mostra di voler tessere e sfilare, secondo occasionali convenienze, la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU; e lo fa attraverso un articolato ragionamento che contiene spunti plurimi di largo interesse, meritevoli di essere riguardati da angoli visuali parimenti plurimi ed a varie finalità ricostruttive. Riduttiva sarebbe tuttavia una conclusione che veda il quid proprium della pronunzia in esame circoscritta al solo piano delle relazioni tra le due Corti (o, se si preferisce, tra CEDU e diritto interno). In realtà, il ragionamento in parola va ben oltre ed affronta – riprendendo, con non secondarie precisazioni, schemi teorici collaudati (e però, temo, almeno in parte invecchiati) – questioni riguardanti la struttura stessa dell’ordinamento, le sue dinamiche interne, gli equilibri che si intrattengono e senza sosta rinnovano tra le istituzioni che lo compongono.
Segnalo solo i profili a mia opinione di maggior interesse emergenti dalla fitta trama argomentativa esibita dalla decisione in commento, riservandomi di farne oggetto in altra sede di più adeguata considerazione.
Il primo è dato dalla distinzione che la Corte fa in modo netto tra il “diritto legislativo” (o, come preferisce chiamarlo altra dottrina, “politico”) e il “diritto giurisprudenziale”, solo il primo a differenza del secondo costituendo il verum ius, siccome idoneo – dice la Corte – a produrre ius novum. Si tratta, nondimeno, di un’affermazione che va contestualizzata: vale, insomma, per il nostro ordinamento e non possiede di certo valenza generale, in particolare non vale, sia pure per ragioni diverse, per la giurisprudenza delle Corti europee: né per quella della Corte dell’Unione, le cui decisioni costituiscono fonti del diritto a tutti gli effetti (addirittura dotate di forza “paracostituzionale”) né per quella della Corte EDU, alla quale pure si riconosce l’attitudine ad esprimere vincoli in qualche modo assimilabili a quelli tipicamente discendenti dagli atti e fatti produttivi di norme (si rammenti il riconoscimento al riguardo datane in Corte cost. nn. 113 del 2011 e 150 del 2012, specie in quest’ultima, nella quale significativamente si qualifica il mutamento di giurisprudenza della Corte EDU quale “un novum che influisce direttamente sulla questione di legittimità costituzionale così come proposta”).
Per la verità, la Corte non dice in cosa il “diritto giurisprudenziale” propriamente consista; dice solo che esso non è “diritto legislativo”, non avendo di quest’ultimo le proprietà, gli effetti.
L’affermazione, specificamente rilevante al piano della teoria delle fonti, ha la sua immediata ricaduta al piano dei rapporti istituzionali. E così la Corte si fa premura di rammentare ai giudici che le pronunzie della Cassazione non vanno prese per oro colato e che la loro forza è pur sempre meramente “persuasiva”, non autenticamente “prescrittiva”, rimettendosi in tal modo a punto gli equilibri istituzionali: sia quelli di ordine generale, avuto cioè riguardo ai rapporti tra giudici ed altri poteri dello Stato (fugace, ma significativo, il richiamo al principio della separazione dei poteri) e sia quelli interni all’ordine giudiziario, segnatamente fra giudici di merito e giudice della legittimità. Di particolare interesse, a quest’ultimo riguardo, il passaggio argomentativo in cui si rileva la singolare situazione in cui verserebbero, rispettivamente, il giudice dell’esecuzione e quello della cognizione, ove si facesse luogo alla pronunzia additiva richiesta dall’autorità remittente: venendosi in tal caso ad instaurare un rapporto di gerarchia tra Sezioni unite e giudici dell’esecuzione, invece insussistente nei riguardi degli organi della cognizione.
Che però le pronunzie della Cassazione non siano sempre e solo provviste di una forza “persuasiva” è riconosciuto dalla stessa pronunzia qui annotata, specificamente laddove rammenta che oggetto dei giudizi di costituzionalità è il “diritto vivente”, quale viene a formazione attraverso un orientamento giurisprudenziale stabile o – si aggiunge ora, non senza un significativo temperamento – “comunque ampiamente condiviso”, orientamento al quale dà il suo fattivo concorso appunto il giudice della legittimità (e, per la sua parte, la stessa Corte costituzionale…).
È vero che il “diritto vivente” è, non di rado, messo da canto nel corso delle esperienze della giustizia costituzionale in nome dell’interpretazione conforme, a riprova della fluidità delle esperienze stesse e della varia capacità di vincolo che va assegnata ai verdetti della giurisprudenza, riguardati sia uti singuli che nel loro comporsi in “indirizzi”.
Tutto ciò posto, una riflessione nondimeno s’impone a riguardo del fatto che un mutamento di giurisprudenza, una volta consolidatosi, possa porsi a base dei giudizi di costituzionalità, orientandone il verso e sostanzialmente determinandone l’esito, al punto che, in caso di annullamento dell’atto sub iudice, il mutamento stesso venga a conti fatti a commutarsi, per il tramite della pronunzia della Corte costituzionale, in verum ius, restando invece privo della forza che è di quest’ultimo propria in mancanza del suo riscontro (diciamo pure, della sua “conferma”) da parte della Corte stessa. Ma, a riguardo di ciò deve farsi rimando ad altra sede, in cui la questione possa costituire oggetto di studio ad essa specificamente dedicato.
Il secondo aspetto, peraltro al primo strettamente legato e da esso quodammodo discendente, che mi parrebbe degno di nota è dato dallo scudo protettivo che la Consulta mette in piedi davanti al giudicato. È un punto meritevole della massima considerazione, sol che si pensi che, all’indomani della pronunzia, sopra già richiamata, dello scorso anno riguardante le sorti del giudicato “anticonvenzionale”, da più parti si era innalzato il grido di dolore per la ferita profonda che la Consulta stessa avrebbe inferto all’istituto per tabulas, in forma eminente, espressivo e garante della certezza del diritto.
La Corte tiene ora a precisare che il giudicato resta un punto fermo, un’autentica pietra d’angolo dell’edificio processuale e dell’intera costruzione ordinamentale. Significativo appare al riguardo essere il richiamo alla giurisprudenza europea, specificamente laddove si fa riferimento al momento in cui viene in luce la legge penale più favorevole, a seconda cioè che essa si abbia prima della pronuncia definitiva ovvero dopo di essa. D’altro canto, precisa la Corte, anche dalla prospettiva del giudice europeo, il diritto di difesa può risultare inciso da contrasti giurisprudenziali di tipo “sincronico”, in corso di processo, non già da contrasti “diacronici”, a processo ormai concluso. E non è inutile rammentare che, al di fuori della materia penale, lo stesso avvicendarsi delle leggi nel tempo, con la diversa disciplina da esse data di situazioni identiche, è foriero di trattamenti discriminanti (e, perciò, di diseguaglianza), che nondimeno devono essere tollerati e restano pertanto assorbiti dall’ordinamento in nome dell’irrefrenabile bisogno da quest’ultimo avvertito di trasmettersi, rinnovato nei suoi contenuti contingenti, nel tempo.
Qui, il passaggio più delicato del ragionamento fatto alla Consulta concerne l’eventualità che il punto di diritto enunciato dalle Sezioni unite possa considerarsi come sostanzialmente coincidente con l’indirizzo giurisprudenziale di cui è portatrice la Corte di Strasburgo. In tal caso, infatti, il giudicato sarebbe stato a rischio, il mutamento giurisprudenziale registratosi presso la Cassazione facendo da specchio ad un analogo (e vincolante) orientamento manifestato dal giudice europeo (naturalmente, è da prendere in considerazione altresì il caso che l’ordine cronologico sia invertito; il prodotto, però, non cambia, dal verdetto del giudice europeo attivandosi oneri di varia natura ed intensità a carico delle autorità di diritto interno, segnatamente giudici e legislatore, di ripristino dell’armonia del diritto nazionale rispetto al diritto convenzionale).
La Corte si trova pertanto obbligata a far luogo ad un’oculata ricostruzione del pensiero della Corte EDU a riguardo della lex mitior e dei suoi effetti; e nel fare ciò – è qui un ulteriore profilo degno di nota – non trascura di mettere in evidenza i tratti peculiari del sistema delle garanzie proprio del diritto interno e di quello invece proprio del diritto convenzionale. Non si trattiene dal rilevare che la giurisprudenza europea ha, in una certa misura, forzato la lettera della Convenzione, che si limita (o, dobbiamo ormai dire, limitava…) ad enunciare il principio del divieto di applicazione retroattiva della norma penale sfavorevole, ad esso significativamente aggiungendo altresì quello della retroattività della lex mitior (una sottolineatura ininfluente dello scostamento della giurisprudenza dalla Convenzione, dal momento che non scalfisce minimamente l’auctoritas della prima). Fa, quindi, richiamo al pensiero del giudice a quo, specificamente nella parte in cui precisa che la nozione di “diritto” (“law”) fatta propria dalla CEDU ha carattere “sostanziale” (e non “formale”), siccome riferita tanto al diritto di produzione legislativa quanto a quello di produzione giurisprudenziale, una nozione che – si ammette – è stata giudicata a Strasburgo valevole anche per gli ordinamenti di civil law.
Viene così a galla, in tutta la sua corposa consistenza, il divergente punto di vista, dalle profonde radici, tra le Corti: diversa è, infatti, la concezione dei “modelli” giuridici, degli ordinamenti. A Strasburgo si riduce fortemente, fino in qualche caso ad azzerare del tutto, lo scarto tra civil e common law, perlomeno per come tradizionalmente intesi; a Roma, di contro, lo stacco è mantenuto, per quanto – come si sa – la più avvertita dottrina abbia, da noi come altrove, da tempo e con varietà di argomenti rilevato la improponibilità di taluni schemi qualificatori ormai vetusti a fronte di una esperienza assai fluida ed internamente composita, che offre ripetute ed eloquenti testimonianze di una giurisprudenza quodammodo “normativa” (si pensi solo ai casi di applicazione diretta della Costituzione, alle stesse pratiche d’interpretazione conforme, perlomeno in alcune loro incisive realizzazioni, e via dicendo).
La Corte si spende molto a dimostrare la perdurante vigenza ed attualità in ambito interno dell’istituto della riserva di legge, con specifico riguardo alla materia penale, che mostra d’intendere in particolarmente ristretta accezione. Significativa la sottolineatura del valore della rappresentanza politica, quale prende corpo nella sede parlamentare, così come il riferimento alla procedura deliberativa che nella sede stessa si realizza attraverso il libero confronto tra le forze politiche (e di esse con la pubblica opinione). Con ogni probabilità, sarebbe eccessivo prendere alla lettera siffatte affermazioni, escludendo in radice che d’ora innanzi i diritti fondamentali (e, segnatamente, la libertà personale) possano essere fatti oggetto di disciplina a mezzo di strumenti normativi diversi dalla legge, così come – è noto – molte volte si è avuto e seguita ad aversi (la stessa Corte, d’altronde, ha – come si sa – ammesso esser fatta salva la riserva con riguardo ai casi di disciplina da parte dell’Unione, anche dunque a mezzo di atti che di certo non sono riportabili all’istituto della rappresentanza e che, anzi, parrebbero da esso sensibilmente discostarsi). Ad ogni buon conto, anche questa sembra essere una delle molte sfaccettature esibite dalla composita decisione in commento che giova tenere sott’occhio verificando quale seguito possa esser dato, se vi si darà, alle affermazioni suddette nelle pratiche di normazione poste in essere in ambito interno.
La Corte ha tuttavia – come si diceva – necessità di dimostrare che i mutamenti di giurisprudenza registratisi in tale ambito non esprimano un vincolo giuridico insuperabile dal punto di vista della CEDU, vale a dire, a conti fatti, della giurisprudenza europea. E la sua conclusione, perentoria, è che mai la giurisprudenza stessa ha riferito “in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza”.
Il punto non sembra tuttavia esser fissato in modo del tutto fermo e chiaro, al di là del carattere estremamente risoluto dell’argomentazione.
Per un verso, infatti, si richiama il pensiero del giudice a quo, nella parte in cui, in via di principio, si riferisce a quella larga accezione di “law”, invalsa nella giurisprudenza convenzionale, cui si è poc’anzi fatto cenno; per un altro verso, con specifico riguardo alla vicenda processuale in esame, si tiene a precisare che di siffatta larga accezione non si ha esplicito riscontro (perlomeno, fino ad oggi…) in relazione al principio di retroattività della lex mitior. In ogni caso, quasi a voler mettere le mani avanti, la Corte si fa cura di rilevare che la diversa garanzia apprestata ai diritti, rispettivamente in ambito convenzionale ed in ambito nazionale, “preclude una meccanica trasposizione nell’ordinamento interno della postulata equiparazione tra legge scritta e diritto di produzione giurisprudenziale”.
Qui, si fa largo a forza il richiamo ai connotati peculiari, immediatamente caratterizzanti, dei due sistemi di garanzie, a ciò insomma che fa l’identità costituzionale del nostro ordinamento, della quale la Corte riafferma oggi di volersi fare rigoroso custode. Non è più – si faccia caso – in gioco la osservanza dell’indirizzo di cui si fa portatrice la Corte di Strasburgo, circoscritta – come si è molte volte detto e qui pure non si trascura di rilevare – alla sua sola “sostanza”; ciò che equivale a dire esser sufficiente che resti preservato il tronco dell’albero, senza che debba di necessità aversi cura di alcuni suoi rami, specie di quelli minori. Qui, si rimette in discussione proprio il tronco, la concezione stessa di com’è fatto, nella sua struttura, l’ordinamento, quali ne siano o possano esserne le fonti, idonee a rinnovarlo e però, con ciò stesso, a trasmetterlo integro e sempre identico a sé lungo il corso del tempo.
Su questo terreno, il “dialogo” tra le Corti rischia, dunque, di rivelarsi – come pure ad altro riguardo s’è detto – un “doppio monologo” tra parlanti lingue diverse. Perché – qui è il punto – se la struttura dei sistemi, di quello convenzionale e di quello nazionale, appare esser composta da materiali non coincidenti e riducibili ad unità, come immaginare che per il loro tramite si possa costruire una casa a due piani, omogenei per fattura e stabilmente saldati l’uno all’altro?
Cosa invece avrebbe potuto (e dovuto) fare la Corte volendo tessere (e non sfilare) la sua tela, dando perciò seguito al “dialogo” già con un certo profitto avviato e oggi – a quanto pare – bruscamente interrotto? L’irrigidimento delle posizioni non porta da nessuna parte; il loro ammorbidimento, di contro, agevola la ricerca di un punto d’incontro, pur nella legittimamente diversa connotazione delle prospettive e degli orientamenti. Certo, la Corte non era chiamata a dilungarsi in discorsi che l’avrebbero portata oltre l’hortus conclusus in cui si situava il caso; e, però, se avesse affermato che il giudicato non si atteggia allo stesso modo nei varî campi di esperienza in cui si afferma (oltre che nel processo penale, in quello amministrativo, tributario, in materia di lavoro, ecc.), in ciascuno di essi facendo da specchio ad esigenze diverse e, pertanto, dando luogo a movenze parimenti diverse, avrebbe potuto trarne la conseguenza che esso di norma resiste al mutamento giurisprudenziale ma, appunto, non sempre, per effetto di operazioni di bilanciamento assiologico tra i beni della vita costituzionalmente protetti. D’altro canto, anche in altri casi, in relazione ai quali lo stesso giudice delle leggi ha ammesso il carattere recessivo del giudicato (quale quello fatto oggetto della sent. n. 113 del 2011), l’esito rinviene giustificazione in una ponderazione di beni o interessi meritevoli di tutela che trae ispirazione dalla Costituzione come sistema di valori positivizzati.
Una conclusione, questa, dai plurimi vantaggi.
In primo luogo, si sarebbe ugualmente salvaguardata la specificità dell’ordinamento interno rispetto a quello convenzionale, senza tuttavia far luogo alla loro sterile ed anzi controproducente contrapposizione.
In secondo luogo, non si sarebbe eretto un muro invalicabile tra civil e common law, che, da una parte e dall’altra, nessuno ormai vuole più e che – questo è ciò che maggiormente importa – frontalmente si oppone al modo strutturale di essere e di operare delle Corti europee, alla loro composizione, alla cultura quodammodo “mista”, dalle plurime ascendenze, di cui esse si fanno portatrici, alla loro vocazione a dar vita ad indirizzi concilianti, duttili appunto, sì da poter valere per contesti anche profondamente diversi l’uno dall’altro.
In terzo luogo, si sarebbe ugualmente preservata la distinzione tra “diritto legislativo” e “diritto giurisprudenziale”, evitando allo stesso tempo la sua degenerazione in una radicale contrapposizione, che fa torto sia all’uno che all’altro “diritto”, in ispecie al secondo, di cui si dà una rappresentazione riduttiva, stantia, inadeguata a coglierne la ricchezza, corposità, incisività della manifestazioni.
In quarto luogo, per ciò che qui più da presso importa, la porta del “dialogo” con la Corte di Strasburgo (ma, vorrei dire, con entrambe le Corti europee) sarebbe ugualmente rimasta aperta, tale da consentire il passaggio, da una parte e dall’altra, dei materiali giurisprudenziali più solidi ed adeguati a costruire la casa comune, nella quale possano trovare sicuro rifugio le aspettative di tutela maggiormente pressanti ed avvertite.
La Corte, forse, non si è avveduta dell’opportunità che le veniva offerta e che le avrebbe dato modo di rifare su basi nuove e più salde il ponte attraversando il quale le giurisprudenze, quelle di origine esterna e quelle nazionali, possono incontrarsi, confrontarsi, interagire a vicenda.
Il “dialogo”, quando è veramente tale, non è cioè meramente predicato ma praticato, è questo; ed è l’unico mezzo col quale far sì che la giurisprudenza nazionale, specie nelle sue più autorevoli e stabili espressioni, possa alla bisogna fecondare quella sovranazionale, venendo quindi da quest’ultima quodammodo “novata”, per poi per il suo tramite tornare in ambito interno e in esso mettere nuove e ancora più consistenti radici, farsi cioè verum ius. La qual cosa invero richiede che la giurisprudenza stessa possa attrezzarsi come si conviene al piano culturale, offrendosi in forme viepiù adeguate alle pretese crescenti di appagamento avanzate dai diritti, dai vecchi così come dai nuovi. E ciò può rendersi palese e farsi in particolare misura apprezzare nel momento in cui la giurisprudenza nazionale, in tutte le sue articolazioni (quale giurisprudenza di merito, di legittimità, costituzionale), si mostri attenta e sensibile nei riguardi della giurisprudenza delle Corti europee, dando fondo pertanto a tutte le risorse di cui dispone per rigenerarsi senza sosta e piegarsi davanti ai più diffusi ed avvertiti bisogni elementari dell’uomo.
Fuori dal circolo interpretativo, anche (e soprattutto) nella sua proiezione interordinamentale, fuori cioè dal “dialogo” (nella sua densa e pregnante accezione), non v’è né futuro per la giurisprudenza, per la sua vocazione a farsi “vero diritto”, né speranza per le aspettative di salvaguardia dei diritti nutrite da chi, fiducioso, si rivolge al giudice e ne invoca tutela. Dentro il circolo interpretativo, sorretto ed alimentato giorno dopo giorno con somma pazienza ed altrettanto coraggio, quel futuro e quella speranza possono avere pratico senso.