Vendicatore del Nuovo Mondo
Brevi osservazioni su Django Unchained di Quentin Tarantino (2012)
Quando nel 1771 apparve a Parigi L’an deux milles quatre cent quarante, Rêve s’il en fut jamais, la schiavitù nelle colonie viveva il suo momento di massimo sviluppo, che sarebbe continuato per un altro secolo. L’autore, Louis-Sébastien Mercier, immaginava l’arrivo di uno schiavo che avrebbe spezzato le catene che ancora opprimevano quasi un milione di esseri umani nei territori d’oltremare francesi. Nel capitolo XXII, Singulier Monument, di questo primo esempio di romanzo di finzione, emblema dello spirito illuministico, l’autore catapultato nelle Parigi del XXV secolo giunge in una piazza dove era stata costruita una statua di un uomo nero con inciso: Au vengeur du nouveau monde. Essa rappresentava l’omaggio a una vittoriosa e (sanguinosa) rivolta di schiavi nelle colonie d’America che, dopo il massacro dei bianchi, ne aveva proclamato l’indipendenza. Una libertà non concessa dall’alto dal riformismo europeo (come avrebbe continuato a sostenere per due secoli la cultura dominante occidentale) ma frutto di una lotta di liberazione violenta da parte degli schiavi, attraverso un uomo eroico, mitico, immortale, uno “Spartaco nero”. E questo «ange exterminateur» apparve sul palcoscenico della storia non nel 2440 ma solo venti anni dopo l’opera di Mercier, nel 1791, quando lo schiavo affrancato, “uno su diecimila”, Toussaint Louverture, il giacobino nero, guidò la rivolta che riuscì a portare alla liberazione degli schiavi e all’indipendenza di Haiti.
“Uno su diecimila” è quanto ascoltiamo dalle parole del proprietario di pinatagioni e di schiavi, Calvin Candie il quale evoca, nella sua lucida e agghiacciante concezione coloniale non uno Spartaco nero, bensì un Ercole nero che possa ulteriormente esaltare la sua passione per la lotta tra “mandingo” (questa è l’espressione animalesca che viene attribuita ai neri, novelli gladiatori per il circo coloniale o attrazioni dello zoo umano, Candyland nel film).
La fitta trama si dipana negli Stati del Sud negli anni immediatamente precedenti alla guerra civile, che avrebbe comportato la fine della “peculiare istituzione” (per dirla con John Calhoun) in tutto il territorio nazionale. Nella narrazione del film emergono almeno tre tematiche: la legalità, il confine e la vendetta. La prima è la chiave di lettura istituzionale per seguire la cavalcata nell’America schiavista di Django e del suo “liberatore”, il cacciatore di taglie di origine tedesca, dott. King Schultz, che incarna lo spirito illuministico e tollerante europeo. Il documento del magistrato in possesso del dott. Schultz, che gli permette di uccidere dei pericolosi assassini per riscuotere la taglia che pende sulle loro teste, segna il limite tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Allo stesso modo l’atto di affrancamento consegnato a Django segnava nell’America dell’epoca, così come in tutte le realtà schiaviste, il discrimine tra libertà e servitù. Discrimine legale in quanto nel “profondo” Sud, così lontano dagli Stati del Nord (dove la tratta era stata formalmente abilita nel 1804) che renderebbe esotico per il proprietario sudista Candie passare due settimane a Boston, gli atti di affrancamento sono dei pezzi di carta senza alcun valore cogente. Del resto una legge della Virginia del 1805 vietò l’emancipazione dei “negri” a meno che non lasciassero lo Stato, in quanto i neri liberi erano considerati come una minaccia per la pace della comunità.
In questo senso emerge l’altra tematica dominante del film, il confine: il confine tra gli Stati, che indica il limite tra emancipazione e asservimento, e quello tra gli uomini, che traccia la “linea del colore” (secondo l’espressione di Du Bois) che divide non solo i bianchi dai neri, i liberi dagli schiavi, ma che è incrinata dalle numerose condizioni giuridiche e sociali intermedie. Vi è lo status degli affrancati, che continuano ad essere discriminati indipendentemente dagli atti legali di liberazione (“un negro a cavallo”, è l’esclamazione ricorrente e indignata al passaggio dell’ormai ex schiavo Django), la servitù “volonaria” di alcuni neri che affiancano i coloni nell’esercizio del loro potere, la condizione degenere di alcuni bianchi, che echeggiano l’antica condizione degli schiavitù per debiti (il gruppo di tedeschi incaricati di recuperare gli schiavi fuggitivi in una caccia all’uomo di bestiale ferocia).
Emerge chiaramene come la realtà coloniale fosse caratterizzata dall’arbitrio assoluto dei padroni sui propri schiavi mentre l’applicazione di disposizioni favorevoli agli schiavi era rara: esisteva un abisso tra la regola e la sua applicazione. L’uccisione di uno schiavo che aveva resistito a una punizione, secondo la legislazione vigente in Virginia, per esempio, non era considerato un reato; secondo il Codice della Carolina del Sud del 1712, invece, la punizione per aver colpito una persona bianca consisteva nella frusta la prima volta e nel marchio la seconda, mentre se il bianco rimaneva ferito o mutilato, la pena era la morte. Lo schiavo fuggitivo, infine, la prima volta veniva frustato, la seconda marchiato a fuoco, la terza gli venivano mozzate le orecche e la quarta sarebbe stato castrato (pena eseguita direttamente dal sorvegliante, alla quale Django sfugge per un caso fortuito).
E infine la vendetta, ovvero una forma estrema di giustizia privata, che rimanda alle pratiche dell’amministrazione della giustizia premoderne: se la storia del diritto penale può essere pensata come una “lunga fuoriuscita dalla vendetta”, la storia del cinema di Tarantino può essere letta come una sua riscoperta. La vendetta infatti è l’idea ricorrente nel suo cinema degli ultimi anni (e più in generale di quello statunitense post 11 settembre) che trova un terreno idoneo nell’america di metà Ottocento dove il ricorso a forme di giustizia privata era ricorrente. L’unico obiettivo di Django è liberare sua moglie Broomhilda, la quale incarna lo spirito di libertà e di resistenza di alcuni schiavi: fuggita ripetute volte dalle piantagioni, verrà frustata e marchiata sul volto con il simbolo dello schiavo fuggiasco, secondo una legislazione risalente al 1793 e che si distingueva per particolare ferocia, eguagliata, del resto, da tutte le legislazioni degli ordinamenti coloniali sciavisti. Il marronage (fuga dalle piantagioni) era il reato peggiore che uno schiavo potesse commettere e i colpevoli erano giudicati dal proprietario della piantagione che aveva un potere assoluto. Secondo Frederick Douglass – che nel 1837 fuggì dal suo padrone e divenne un leader abolizionista – la piantagione era «un piccolo Stato a sé, con la sua lingua, le sue leggi, regole e costumi. I problemi e le controversie che sorgevano lì non venivano risolte dai poteri civili dello Stato». Il sorvegliante, secondo la ricostruzione di Douglass, svolgeva le funzioni di accusa, giudice, giuria, avvocato e giustiziere. I sorveglianti del film in particolare si distinguono per ferocia e intolleranza (oltre che rozzezza intellettuale, al punto che lo stesso Django li definisce continuamente “bifolchi”) e, come i collaborazionisti di Bastardi senza gloria, finiranno vittime, insieme a Candie, della violenza vendicatrice (e liberatrice) in un crogiulo che illumina la notte senza luna del razzismo.
Django, tra le ultime battute del film, confessa di essere d’accordo con l’odiato schiavista solo su una cosa: lui è “uno su diecimila”, lo Spartaco nero, l’uomo eroico e immortale, l’angelo sterminatore, che porta a compimento la sua vendetta in un crescendo di violenza e azione (che rimanda, tuttavia, più alle scene di Scarface che a quelle oniriche di Kill Bill) e si riappropria della sua libertà e di quella della donna amata all’alba di quell’American Crucible che, dopo cinque anni di guerra civile con più di seicentomila morti, portò ad erigere, nel 1865, un nuovo monumento al Vendicatore del nuovo mondo, scolpito non nella pietra, ma nel XIII emendamento della Costituzione americana: «Né schiavitù, né servitù involontaria, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole sulla base di un regolare processo, potranno esistere negli Stati Uniti, o in altro luogo sottoposto alla loro giurisdizione».
Ho particolarmente apprezzato il commento al film ma devo sottolineare come il mio plauso vada al commentatore più che al regista. Mi pare infatti che l’autore del commento dimostri una profonda e colta conoscenza del fenomeno dello schiavismo, delle cui implicazioni morali, frutto delle riflessioni della modernità così come del pensiero colto dell’illuminismo europeo, sa offrire una visione assai interessante. Sono convinto però che tale riflessione escatologica, frutto della personale consapevolezza dell’autore sul tema dello schiavismo, così come degli altri grandi paradigmi della cultura americana presentati nella recensione, il confine e la vendetta (dopo l’11 settembre 2001), che pure emerge in vaste produzioni cinematografiche e letterarie contemporanee, sia stata intento del regista in maniera assolutamente minimale. Personalmente non riesco a leggere, nell’ultima opera di Tarantino, tutto quanto viene presentato. Il regista, infatti, a partire dal 2007 non fa a mio giudizio che proporre storie (rectius: la Storia) non così come avvenuta ma capovolgendola e presentando una curiosa ricostruzione fatta di “se” e “ma”; tale ricostruzione può divertire, stupire, indurre alla riflessione ma con ben poco merito (al di là della contingenza occasionale contenuta in ogni storia di fantasia)del regista americano. Così come aveva fatto già con il precedente “Bastardi senza gloria” e come sembre dovrà avvenire, almeno stando alle prime indicrezioni sulla sceneggiatura, per il futuro “Killer Crow”, Tarantino si limita ad elaborare i propri prodotti da regista/sceneggiatore grazie alla propria personale vasta conoscenza cinematografica (spesso riferita a B-movie relativamente poco conosciuti) e con l’ausilio, come nel film in oggetto, di una grandiosa colonna sonora e della (per certi versi facile) critica ad alcune delle idiosincrasie maggiormente ricorrenti in parte della cultura americana. Nulla di più. Manca infatti nel film qualunque riferimento (anche indiretto) alla pur vasta letteratura sul tema, che evidentemente non rientra nel substrato culturale del regista, e gli sfuggono quindi a mio avviso alcuni degli aspetti più controversi che il colto recensore riesce invece a cogliere. Anche in questo caso “Django unchained” appare quindi solo come una commistione (per quanto ben realizzata) tra film del passato, quali “Mandingo” del 1975 e “Django” del 1966, cui Tarantino applica la propria ricetta di spettacolarità emozionale, basata principalmente sul desiderio/piacere covato da molti di poter vedere accadere le cose come sarebbero dovute accadere e non per come andarono effettivamente. Rintracciare e proporre il problema del confine o della vendetta, compreso l’anelito alla vendetta contro le oppressioni razziali, almeno cinematograficamente sono stato certamente alcuni dei temi di gran parte del cinema di genere degli ultimi trent’anni. Da “Jungle fever” a “Raecher” a “The road”, numerosi autori si sono confrontati in maniera riflessiva e produttiva sui temi. Tra questi non annovero però Tarantino, cui riconosco volentieri il titolo di efficace spettacolarizzatore della violenza ma cui nego (almeno sino ad oggi) il riconoscimento di autore di un proprio orizzonte etico e poetico (che invece vedo, per rimanere nel tema della violenza e della vendetta, nel cinema giapponese degli ultimi vent’anni) riconoscendogli invece certamente di aver girato un film divertente e ben realizzato ma privo del diritto di vedersi tributare così grandi onori.
Io non saprei dire se Tarantino avesse consapevolezza dei temi sullo sfondo del suo film, delle citazioni colte nascoste all’interno di quelle meno colte che ha richiamato, dell’intersecarsi, nel suo film, di fili rossi della cinematografia e del discorso culturale americano degli ultimi anni. Probabilmente ha ragione il commentatore nello svelare una comprensione più circoscritta del regista, una sua storia personale più ossificata attorno ad un progetto di cinematografia più superficiale ed estetizzante che denso di riferimenti.
Però il film che ho visto io è lo stesso che ha visto Fioravanti. Spesso capita alle opere, di andare oltre le intenzioni del loro autore, di interpretare, perfino accidentalmente, qualcosa di più di quanto non fosse nelle intenzioni dell’autore, per il solo fatto di porsi in uno snodo cruciale, di cogliere il tempo, di commuovere tanto a fondo da risvegliare sentimenti e pensieri che, altrimenti, rimarrebbero velati.
Questo accade con Django, direi, più o meno consapevolmente per il suo autore.
Poi, che il nostro recensore sia più bravo di Tarantino, questo noi lo sappiamo bene!
Un’ottima recensione le cui affascinanti teorie interpretative, però, tendono forse ad oscurare lo spirito crudo e muscolare di un film in cui i pur gustosi riferimenti – quelli storici-giuridici-sociologici-letterari forse involontari; più consci invece quelli prettamente cinematografici- rimangono un contorno destinato al palato di pochi.
Allargando la visuale sulla produzione tarantiniana, trovo interessante la teoria, già altrove esplicata dal recensore, sull’ossesione del regista per la vendetta, maturata dopo il 9/11. Quest’ultima precisazione differenzia – e rende originale- la vocazione giustizialista di Tarantino rispetto a quella del Park Chan-wook della Trilogia della Vendetta; se nell’orientale, infatti, la vendetta è figlia di fatti strettamente privati, in Tarantino quelle stesse circostanze cominciano, dopo il celeberrimo Kill Bill, a risultare inquadrate in logiche sociali di maggior respiro quali il nazismo o il razzismo. Si rischia forse di prendere troppo sul serio quel burlone di Quentin, chiedendosi quando e se vorrà affrontare in un film il tema della vendetta contro il terrorismo? Nel dubbio, militarmente saluto.