I civil rights al tempo del secondo mandato presidenziale di Barack Obama
Il discorso offerto dal Presidente Obama in occasione dell’inaugurazione del secondo mandato rappresenta una sintesi efficace delle tensioni che l’America si prepara ad affrontare nel prossimo futuro sul piano dell’ordinamento giuridico. Nelle pagine di cui è stata autorizzata la pubblicazione (reperibili all’indirizzo internet: www.whitehouse.gov/the-press-office/2013/01/21/inaugural-address-president-barack-obama) vi è un po’ di tutto: dalla tenuta della riforma sanitaria, all’ideologia del libero mercato sostenibile e socialmente sensibile, dalle affermative actions ai diritti delle coppie omosessuali, dal diritto a portare le armi alla tematica dell’immigrazione. In ognuno di questi temi è manifesta una sorta di chiamata alla corresponsabilità rivolta alla Corte Suprema. E, in effetti, su molti di questi temi, i giudici costituzionali hanno avuto modo di esprimersi nel corso degli ultimi anni, in direzioni qualche volta contrastanti rispetto agli indirizzi politici dell’attuale Presidente. L’esempio più significativo è forse rappresentato da Mc Donald v. Chicago, la decisione con cui la Corte ha dichiarato fondamentale il right to bear arms, protetto dal secondo emendamento. La sentenza ha inserito il diritto a portare armi nell’honor role of superior rights (secondo l’espressione di Justice Benjamin Cardozo) che trascende il catalogo dei diritti federali per imporsi anche nei confronti degli Stati. In tal modo, la Corte ha spazzato via tutte le legislazioni statali che limitavano l’acquisto e il possesso delle armi per scopi di legittima difesa. Dopo la strage nella scuola elementare del Connecticut, Obama ha chiarito che intende proporre una legge che circoscriva le ipotesi in cui è consentita la detenzione di armi. Si tratta, nella sostanza, di un’iniziativa che si pone in contrasto rispetto ad un indirizzo giurisprudenziale di natura del tutto particolare. L’operazione ermeneutica con cui il Collegio, attraverso la clausola del XIV emendamento, procede alla cosiddetta incorporation di un diritto soggettivo nell’insieme delle posizioni giuridiche che, benché federali “per nascita e destinazione”, possono essere fatte valere anche nei confronti degli Stati è riservata ai soli diritti fondamentali. Le parole impiegate dal Presidente, da ultimo nel discorso di inaugurazione del secondo mandato, richiamano alla mente le vigorose dissenting opinions dei Justices Breyer e Stevens nella sentenza Mc Donald, i quali non rintracciavano alcun nesso tra il diritto a portare le armi e il concept of ordered liberty che dovrebbe guidare l’individuazione del criterio della fondamentalità. Su quel tema si è consumata un’aspra battaglia presso la Corte (v. C. Bryant, What McDonald Means for Unenumerated Rights, in 45 Ga. L. Rev. 1073 (2011); il richiamo di Obama, dunque, non è privo di implicazioni per i giudici costituzionali.
Il Presidente democratico non è comunque nuovo a questo genere di cenni: il monito lanciato ai membri del Collegio in occasione del discorso sullo stato dell’Unione nel 2010 a proposito della sentenza Citizens United v. Federal Election Commission (FEC) in tema di finanziamento delle campagne elettorali è stato interpretato come esempio di irrituale interventismo negli indirizzi giurisprudenziali di una Corte indipendente, sebbene caratterizzata da orientamenti ideologici noti al punto da essere studiati con precisione statistica dalla dottrina statunitense (basti pensare allo studio che annualmente svolge la Harvard Law Review sui tassi di allineamento del voto tra i giudici costituzionali di medesimo orientamento ovvero sugli indirizzi del loro voto rispetto all’orientamento presunto: v. ad esempio v. The Supreme Court, 2009-2010 Term, 124 Harv. L. Rev. (2009-2010), Statistics, Table I (BI), 413.). La decisione ha costituito un momento di evidente frattura tra il Presidente e i giudici costituzionali, nell’ambito di un rapporto segnato da alcuni segnali di tensione, così come da prove di equilibrismo. Come l’ordinanza con cui il Collegio dichiarò inammissibile la questione relativa alla conformità a Costituzione della cosiddetta don’t ask, don’t tell rule che imponeva ai membri dell’esercito di tenere segreto il loro orientamento sessuale (Pietrangelo v. Gates). Justice Kagan, nominata da Obama, dichiarò la propria astensione per aver in precedenza ricoperto la carica di Solicitor general nell’ambito della medesima controversia. La Corte decise di non decidere, ma permise così al Congresso di abrogare la legge e al Presidente di dichiarare raggiunto un obiettivo importante per il proprio programma di governo.
Nella stessa settimana dell’inauguration, un noto osservatore della giurisprudenza costituzionale, Jeffrey Toobin, commentava sulle pagine del New Yorker (The people’s choice, The New Yorker, Jan. 28, 2013, p. 20) che mai come in questo periodo è chiaro ed evidente il complesso legame che intercorre tra il processo politico e il riconoscimento giurisdizionale dei diritti (soprattutto dei “nuovi diritti”). In altri termini, sembra esserci, almeno in qualche momento della storia costituzionale americana, una connessione immediata tra l’agenda politica di un leader e le decisioni giurisprudenziali della Corte Suprema. Del resto, non è necessario tornare indietro sino al 1937 e alla storica decisione West Coast Hotel v. Parrish in cui un Collegio apertamente ostile alla riforma del welfare sostenuta dal Presidente Roosevelt muta improvvisamente atteggiamento, per ricordare come la Corte Suprema si sia mostrata spesso sensibile rispetto a taluni indirizzi politici presidenziali e segnatamente quelli su cui si concentrano di più gli sforzi dell’Esecutivo.
Ebbene, dopo la rielezione di Obama, seguita a una campagna presidenziale carica di riferimenti al tema dei diritti civili, gli equilibri tra la Corte e il Presidente paiono destinati a ricostruirsi. La mappa delle questioni (e delle decisioni) dal potenziale impatto politico è molto complessa. Si può provare a ricostruirne solo qualche tappa essenziale, senza indulgere neppure per un momento in divinazioni di indirizzi giurisprudenziali.
La prima tappa sarà la sentenza, attesa per giugno, sulle censure di incostituzionalità mosse nei confronti della Proposition 8 dello Stato della California che vieta il riconoscimento del matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso. La questione è decisiva anche per una causa parallela che coinvolge il Defense of Marriage Act (DOMA), la legge che definisce il matrimonio come l’unione di un uomo e di una donna e sbarra la strada al riconoscimento, agli effetti della legge federale, dei same-sex marriages. Molti Stati hanno approvato emendamenti costituzionali (ventinove, mentre otto hanno optato per l’approvazione di atti di legislazione ordinaria) che espressamente sanciscono il carattere eterosessuale del matrimonio, soltanto dieci accordano il diritto a sposare il proprio partner senza alcuna restrizione sulla base del sesso. In molti Stati, l’introduzione per via giudiziale del diritto al same sex marriage è stata seguita da iniziative referendarie, presentazione di disegni di legge e di revisione costituzionale finalizzati a cancellare nel processo politico l’attivismo giudiziale. Con qualche successo e molti orientamenti favorevoli alle Corti (le vicende sono puntualmente ricostruite da M.J. Klarman, From the Closet to the Altar: Courts, Backlash and the Struggle for Same-Sex Marriages, Oxford University Press, 2013). L’attuale Presidente ha chiarito che l’estensione del right to marriage alle coppie omosessuali è uno dei temi su cui intende battersi nel corso del suo secondo mandato. L’esito della pronuncia è naturalmente imponderabile: non è soltanto uno scontro tra liberal e conservatori, nell’ambito del quale Justice Kennedy potrebbe rappresentare l’ago della bilancia, come accaduto in altre occasioni. La decisione solleva, infatti, il tema dei poteri degli Stati e del governo federale, posto che l’eventuale riconoscimento del matrimonio omosessuale si riverbererà necessariamente sulla legge statale, spazzando via ogni resistenza sociologico-culturale al tema. Il confronto, dunque, ha nella sostanza un terreno più ampio, coincidente con le posizioni dei fautori dell’estensione dei poteri federali da un lato e gli states’ rights supporters dall’altro. L’escamotage procedurale rimane una risorsa e, del resto, il difficile equilibrio raggiunto dal Chief Justice Roberts nel caso National Federation of Independent Business et Al. v. Sebelius, sulla riforma sanitaria che pure insisteva ugualmente (anche) sul tema federale, è difficilmente replicabile.
La seconda tappa sarà rappresentata dal tema delle affermative actions e, in particolare, delle disposizioni di legge che stabiliscono misure a sostegno di taluni gruppi identificati come deboli (l’esempio più significativo è rappresentato dalle quote a favore delle minoranze o delle donne). Il più classico degli ambiti della civil rights litigation (v. R. Kaczorowski, The Supreme Court and Congress’s Power to Enforce Constitutional Rights: An Overlooked Moral Anomaly, in 73 Fordham L. Rev. 153 (2004), nel quale la dottrina dell’equal protection e degli standard di giudizio “abbinati” alle classificazioni introdotte dal legislatore è stata elaborata, è da qualche tempo assente nel docket della Corte, complice la precisione geometrica con cui sono stati affinati gli strumenti tipici del giudizio di ragionevolezza delle leggi. Infatti, quand’anche la disposizione costituzionale contenuta nel XIV emendamento è invocata dai ricorrenti, i giudici tendono a decidere su una diversa base costituzionale, sebbene il metodo di scrutinio modellato sulla equal protection ricorra con una certa frequenza nel contenzioso di natura non direttamente costituzionale in materia di facially neutral statutes riferito alle violazioni del Civil Rights Act del 1964. La pronuncia, quindi, riaprirà un argomento carissimo al dibattito giuridico americano e, al contempo, rientrato prepotentemente nell’agenda e nella sensibilità politica del momento.
Il mosaico dei problemi è qui solo abbozzato e gli equilibri del Collegio potranno misurarsi solo a distanza di anni. Il fermento del processo politico, ad ogni modo, non risparmierà la Corte e, anzi, proprio con il rapporto tra discorso pubblico, processo democratico e attivismo giudiziale i giudici costituzionali dovranno, soprattutto in questo momento, giocoforza misurarsi.
Ho molto apprezzato il post di Graziella Romeo perché, oltre a prospettare lo scenario delle prossime pronunce della Corte Suprema, pone un problema di metodo fondamentale proprio per l’obiettivo del nostro blog: il rapporto tra orientamenti giurisprudenziali e contesti politici, sociali e culturali.
Nello studio della giurisprudenza americana, infatti, prevale usualmente un approccio ossificato alla ricostruzione degli orientamenti precedenti e dell’argomentazione giurisprudenziale. Ma non sempre queste argomentazioni sono state messe in correlazioni con le grandi pressioni politiche e la retorica politica dominante. E’, come è chiaro, il frutto della cultura giuridica di common law, nonché della dissociazione accademica tra studio della giurisprudenza e della politica costituzionale.
Al contrario, proprio secondo la prospettiva prescelta da Romeo, in alcuni miei recenti studi ho potuto verificare una sintonia costante tra decisioni giurisprudenziali e lotta politica, nonché tra argomenti giuridici e parole-chiave del discorso politico. Per esempio, nei quasi 1.500 messaggi di veto presidenziali della storia americana, trovate un dialogo costante con la giurisprudenza della Corte Suprema, talora nel senso dell’affinità talora nel senso del contrasto, ma sempre con un confronto serrato con gli argomenti e le interpretazioni costituzionali prevalse.
Ancora: dopo la morte di Marshall (1837), il presidente Jackson, suo acerrimo nemico, nomina alla presidenza il suo fedelissimo Attorney general, Taney, che sposta la maggioranza nella Corte “federalista” di Marshall e Story, e redige di proprio pugno sentenze fondamentali come Charles River Bridge o Bank of Augusta, in cui non solo la Corte ribalta le premesse federaliste e liberiste nell’intepretazione costituzionale, ma accoglie temi fondamentali della retorica presidenziale Jacksoniana, come la valorizzazione del “bene comune” e l’interesse del common man.
Succederà lo stesso, nel prosueguo, in numerosi altri passaggi, come nel caso ricordato da Romeo dello scontro con Roosvelt, anche qui sposando, dopo la svolta, non solo gli orientamenti sostanziali presidenziali, ma anche i temi del discorso politico dominante.
Non credo che questo metta in discussione il paradigma, complessivamente prevalente, della Corte countermajoritarian. Ma restituisce la Corte al suo contesto, in cui ancora oggi è costretta a calarsi, e la sottrae alla pretesa di un isolamento aristocratico dalla vita politica della Nazione, in cui spesso viene invece collocata.