L’adozione in seno ad una coppia omosessuale registra il primo successo davanti alla Corte di Strasburgo: “due padri” o “due madri” non possono essere ritenuti inidonei a crescere un figlio
Con la sentenza che ha deciso il caso X. e altri contro Austria (GC, n° 19010/07, 19 febbraio 2013), la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo fissa un nuovo e saldo principio nella disciplina convenzionale europea delle coppie di persone dello stesso sesso, in relazione alla spinosa questione dell’adozione.
Nella pronuncia in commento, infatti, la Grande Camera ha stabilito, con una maggioranza di dieci voti su diciassette, che l’Austria ha violato, nei confronti dei ricorrenti, l’art. 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione, a causa della propria legislazione che esclude a priori le sole coppie omosessuali dall’accesso all’adozione, ammettendovi invece le coppie eterosessuali, ancorché non sposate. In assenza «di argomenti puntuali, di studi scientifici o di altri elementi di prova in grado di dimostrare che le famiglie omoparentali non possono in alcun caso occuparsi di un figlio», ha osservato la Corte, la supposta inidoneità delle coppie omosessuali a crescere un figlio non può essere legittimamente addotta come giustificazione ad una disparità di trattamento tra coppie eterosessuali e omosessuali nell’accesso all’adozione.
La questione traeva origine dal ricorso presentato nel 2007 da tre cittadini austriaci, due donne unite da una relazione di fatto e il figlio allora dodicenne di una delle due, avverso il rifiuto delle autorità del loro Paese di consentire l’adozione cosiddetta “coparentale” del figlio minore di una delle donne da parte della sua compagna, così da poter ottenere l’esercizio della potestà genitoriale congiunta, a tutela del diritto alla vita familiare di tutti e tre i ricorrenti.
Il rifiuto delle giurisdizioni austriache, dapprima di omologare l’adozione e in seguito di accogliere il ricorso avverso la decisione che dichiarava l’adozione nulla, era fondato sulla legislazione austriaca che consente l’adozione “coparentale” (del figlio del genitore biologico da parte del partner di questo) alle sole coppie eterosessuali.
Tale disciplina sarebbe conseguenza, da una parte, dell’esplicita previsione dell’adozione da parte di un coniuge del figlio biologico dell’altro (art. 179 del Codice civile austriaco) e, dall’altra, delle disposizioni sugli effetti delle adozioni, che prevedono la cessazione dei legami giuridici familiari rispettivamente col padre biologico, in caso di adozione da parte di un padre adottivo, o con la madre biologica, nel caso in cui l’adozione sia compiuta da una madre adottiva (art. 182 § 2). Da quest’ultima disposizione, che palesa l’intenzione del legislatore austriaco di evitare ipotesi di doppia paternità o doppia maternità, la giurisprudenza aveva dedotto l’impossibilità dell’adozione del figlio del partner da parte del convivente omosessuale, nonostante, sempre in via giurisprudenziale, la possibilità di accesso all’adozione coparentale fosse stata estesa alle coppie eterosessuali non sposate. In seguito, al momento dell’introduzione nell’ordinamento austriaco delle unioni civili registrate per le sole coppie omosessuali, il divieto di adozione congiunta e coparentale è espressamente codificato nella legge (art. 8 § 4 della legge sulle unioni registrate).
La Corte, nell’esaminare il ricorso sotto il profilo della violazione del divieto di discriminazione nella garanzia del diritto alla vita privata e familiare, è dunque chiamata ad esaminare non solo se vi sia una disparità di trattamento rispetto alla situazione in questione e quella di una coppia sposata all’interno della quale un coniuge adotti il figlio biologico dell’altro, bensì soprattutto rispetto all’analoga situazione in seno ad una coppia eterosessuale non sposata.
Già nei presupposti del ricorso emerge perciò l’elemento di distinzione rispetto all’unico precedente in tema di adozione in seno ad una coppia omosessuale deciso dalla Corte, ovvero il caso Gas e Dubois c. Francia.
Anche in quel caso le ricorrenti lamentavano l’impossibilità di adozione da parte di una di loro dei figli naturali della compagna (nell’ambito peraltro, a differenza della fattispecie in esame, di un’unione registrata, ai sensi della disciplina francese del PACS), ma, diversamente da quanto lamentato dalle ricorrenti austriache, ciò era dovuto alla negazione da parte del diritto francese di qualunque ipotesi di adozione coparentale al di fuori del quadro matrimoniale. Nella decisione Gas e Dubois sopra richiamata, pertanto, la quinta camera della Corte aveva rilevato l’insussistenza della violazione del divieto di non discriminazione e non aveva perciò avuto modo di addentrarsi nella questione della legittimità del divieto di adozione da parte di coppie omosessuali.
In passato invece, com’è noto, la Corte si era pronunciata più volte sulla questione dell’adozione da parte di un omosessuale (Fretté c. Francia e E.B. c. Francia [GC]), denotando un’evoluzione nel proprio orientamento giurisprudenziale e giungendo ad affermare che laddove sia prevista l’adozione da parte delle persone sole, questa non può essere preclusa ad alcuno sulla base del suo orientamento sessuale (E.B. c. Francia [GC]).
Dal momento che il caso Gas e Dubois concerneva, secondo la Corte, un diniego di adozione non fondato sull’orientamento sessuale delle ricorrenti, mai fino ad ora la Corte si era pronunciata espressamente sul diniego di adozione in seno a coppie omosessuali, trattando così la questione dei “due padri” o delle “due madri”. Il presente caso ha dunque rappresentato l’occasione per tracciare il quadro della situazione sull’omoparentalità.
La Corte osserva, innanzitutto, come vi siano, nel panorama comparato, tre diverse vie che, in maniera differente, possono consentire l’adozione da parte di persone omosessuali (par. 100 e, per un’analisi più dettagliata delle legislazioni europee, si vedano i parr. 55-56 all’interno della parte in fatto).
La prima è quella dell’adozione da parte di persone sole, per effetto della quale, essendo vietata ogni discriminazione nell’accesso all’adozione fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale, anche le persone omosessuali possono adottare un figlio. La seconda è quella appunto dell’adozione cosiddetta coparentale, mediante la quale ad un individuo è concesso di adottare il figlio biologico del proprio partner (nell’ambito di un’unione di fatto, registrata o coniugale), affiancando la propria potestà genitoriale così acquisita a quella del partner e pervenendo così ad un esercizio congiunto della stessa, con il figlio che godrà dunque di due legami genitoriali legalmente riconosciuti. La terza, infine, è ovviamente la via dell’adozione congiunta, per la quale una coppia omosessuale può adottare un bambino.
È dopo aver chiarito che il caso in questione rientra evidentemente nella seconda ipotesi che la Corte richiama il proprio precedente sul punto, il caso Gas e Dubois sopra ricordato, osservando le ragioni su cui fonda il distinguishing (par. 104). In quel caso infatti era riscontrabile, a detta della Corte, solo una disparità di trattamento rispetto alle coppie sposate, da ritenersi ammissibile per la costante giurisprudenza che ritiene rientri nel margine di apprezzamento statale la possibilità di regolare i presupposti per l’accesso al matrimonio, nonché di ricondurre allo stesso prerogative escluse ad altri tipi di unioni. Vi sarebbe stata poi una discriminazione soltanto indiretta tra coppie omosessuali registrate e coppie eterosessuali versanti nella stessa situazione, per la possibilità di queste ultime di accedere all’istituto matrimoniale, ove l’avessero desiderato; ma tale ineguaglianza è riconducibile anch’essa alla libertà degli Stati di disciplinare presupposti e contenuti del matrimonio, in particolare escludendo le coppie di persone dello stesso sesso (Schalk e Kopf c. Austria).
Il caso in questione merita invece di essere esaminato sotto il profilo della violazione del divieto di discriminazione (in combinato disposto con la violazione della tutela della vita familiare) per la disparità di trattamento operata tra coppie di fatto eterosessuali e omosessuali (parr. 111 ss.).
La Corte, avendo riscontrato nei fatti oggetto del ricorso una disparità di trattamento sulla base dell’orientamento sessuale a causa dell’impianto legislativo austriaco, mette in atto il proprio test per valutarne la legittimità ai sensi della Convenzione, verificando cioè il perseguimento di uno scopo legittimo, la necessità della misura e la proporzionalità della stessa.
Ora, se è vero che l’obiettivo di salvaguardare la “famiglia tradizionale”, in funzione dell’interesse del minore, impedendo che «questi abbia due padri o due madri dal punto di vista giuridico» (osservazioni del governo, riportate al par. 76) «costituisce in principio un motivo importante e legittimo idoneo a giustificare una differenza di trattamento», bisogna tener conto dell’evoluzione del concetto di famiglia, alla luce dell’interpretazione evolutiva datagli dalla Corte (par. 138-139). Perciò, poiché esistono altri modelli di famiglia che vanno riconosciuti e tutelati, la protezione della famiglia tradizionale dovrà essere perseguita nei limiti della necessarietà e proporzionalità, senza andare a discapito della garanzia minima di tutela di “altri tipi” di famiglia.
La Corte ricorda quindi che, poiché il margine di apprezzamento in materia di disparità di trattamento nel godimento di diritti fondamentali è particolarmente stretto, grava sullo Stato l’onere di provare la necessarietà della misura discriminatoria. Nel caso in questione, viene osservato che, dal momento che il governo non ha addotto «elementi di prova in grado di dimostrare che le famiglie omoparentali non possono in alcun caso occuparsi di un figlio», la supposta inidoneità delle coppie omosessuali a crescere un figlio non può essere legittimamente avanzata come giustificazione della disparità di trattamento tra coppie eterosessuali e omosessuali nell’accesso all’adozione, in nome della tutela della famiglia tradizionale e dell’interesse del minore (par. 142 e 146). Ad abundantiam, la Corte sottolinea poi l’incoerenza del legislatore austriaco che, in caso di adozione da parte di persona sola che conviva con un partner cui è legata da un’unione registrata, impone come requisito necessario per l’adozione il consenso del partner, ammettendo dunque implicitamente che un figlio possa crescere all’interno di un nucleo familiare omoparentale, ancorché non legalmente riconosciuto come tale (par. 144).
Questo è il nodo fondamentale della decisione, perché la Corte si lascia andare ad un’affermazione netta, che segna una svolta importante nella giurisprudenza in tema di omoparentalità: le coppie omosessuali, salvo prova contraria, devono essere riconosciute idonee a crescere un figlio. Si tratta di un’evoluzione giurisprudenziale che risponde fedelmente alla dottrina della Convenzione come “strumento vivo” e che tiene perciò conto dei mutamenti sociali in corso, in particolare nella concezione di “famiglia”.
Com’è spesso avvenuto nell’impervio cammino verso il riconoscimento dei diritti degli omosessuali e transessuali e di altri diritti ad essi correlati (come, in questo caso, il diritto di un bambino al riconoscimento legale di due genitori), la Corte perviene a quest’evoluzione incastonandola all’interno di un ragionamento che combina diversi principi già di per loro consolidati, arrivando così a trarne un corollario che ha tanto di nuovo, ma che entra in punta di piedi nella giurisprudenza della Corte. La motivazione della Grande Camera, infatti, da un lato ribadisce la giurisprudenza secondo cui la tutela della famiglia tradizionale è un obiettivo legittimo; dall’altro, tuttavia, con un astuto espediente argomentativo, cela tra le pieghe di una pretesa affermazione non innovativa un obiter dictum che ha il vago sapore di overruling: non è legittimo tutelare la famiglia tradizionale a discapito di “altre famiglie”, riconosciute e tutelate dall’art. 8 della Convenzione secondo la sua interpretazione evolutiva.
Lo sforzo di equilibrismo tra innovazione e continuità emerge anche nell’abile (e volutamente ambiguo) uso dell’argomento del margine di apprezzamento e, in particolare, del calcolo del consenso.
Il governo austriaco, in sintonia con le giurisdizioni nazionali che si erano espresse in tal senso, aveva invocato un ampio margine di apprezzamento in materia di unioni omosessuali e adozioni, in ragione dell’assenza di un consenso europeo.
La Corte respinge tale tesi con due argomenti. Innanzitutto, essa ricorda la duttilità dello strumento del margine di apprezzamento, la cui ampiezza è legata a molteplici fattori, di cui il consenso è solo uno, ma non l’unico né il principale; in particolare, il margine è da considerarsi ristretto «quando un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o dell’identità di un individuo si trova in gioco» (par. 148). Inoltre, valutando nel merito l’obiezione fondata sulla mancanza di un consenso, la Corte osserva come esso vada ricercato non sulla questione generale dell’ammissione dell’adozione da parte di coppie omosessuali nella totalità degli Stati del Consiglio d’Europa, ma sull’ipotesi analoga a quella del caso in esame, ovvero la disparità di trattamento tra coppie omosessuali e eterosessuali nell’accesso all’adozione coparentale. Siffatto consenso, dunque, non può che essere ricercato, nell’opinione della Corte, all’interno di quei dieci Paesi che ammettono l’adozione coparentale in seno a coppie non sposate: di questi, sei equiparano coppie omosessuali e eterosessuali, mentre altre tre, oltre all’Austria, escludono le coppie omosessuali dall’adozione. Una seppur esigua maggioranza, dunque, depone in favore della posizione opposta a quella sostenuta dal governo austriaco; eppure, osserva la Corte, si tratta di un campione troppo ristretto per essere significativo. Il consenso europeo non può dunque venire in aiuto nella determinazione del margine, secondo la Corte, che si lascia perciò guidare dai soli criteri dell’importanza del diritto in questione e della presenza di una discriminazione per trarre la conseguenza che lo Stato debba godere di un margine di apprezzamento ristretto, con le conseguenze sopra prospettate in termini di onere della prova della necessarietà e proporzionalità della misura.
È appena il caso di osservare come emerga ancora una volta, in questa sentenza, che il margine di apprezzamento e il consenso europeo sono invero tecniche argomentative più che strumenti interpretativi. A ben guardare, essi non costituiscono mai i criteri che fondano, in maniera autonoma e sufficiente, la ratio decidendi, ma fungono piuttosto da argomenti impiegati dalla Corte per giustificare una propria interpretazione diversamente costruita, alternando di volta in volta approccio attivista e self-restraint.
Esaurita, per quel che ci pare più rilevante, l’analisi della motivazione, veniamo ora al non detto della decisione o, melius, a ciò che è detto tra le righe e suscettibile di essere valorizzato nella giurisprudenza successiva.
È evidente, innanzitutto, che la sentenza è destinata a spiegare i suoi effetti non solo nell’ordinamento del Paese direttamente condannato, l’Austria, ma anche in quelli che presentino una legislazione analoga e che dovranno perciò adeguarsi alla presente giurisprudenza per porsi al riparo da un’eventuale condanna. Ma ci sembra che gli echi della decisione possano arrivare ben oltre, per quanto la Corte si sforzi di limitare gli effetti della decisione, invocandone il carattere di concretezza e sottolineando che perciò «la Corte non è chiamata a pronunciarsi sulla questione dell’adozione coparentale di per sé, e tanto meno su quella dell’adozione da parte delle coppie omosessuali in generale» (par. 134).
La Corte continua a sostenere la giurisprudenza secondo cui al matrimonio si possono legittimamente ricondurre effetti diversi da quelli previsti per altri tipi di unioni, in particolare per quel che riguarda i diritti e doveri connessi con la filiazione, l’adozione e la procreazione medicalmente assistita. È peraltro ricordato che le questioni attinenti al rapporto di genitorialità sono sempre improntate al principio dell’interesse superiore del minore, il quale deve orientare sia le misure legislative generali e astratte che le applicazioni concrete della disciplina. L’accesso all’adozione, dunque, non è concepito come un diritto, né delle coppie sposate né di quelle non sposate, eterosessuali o omosessuali che siano.
Proprio sotto questo profilo la pronuncia in esame è rivoluzionaria, in quanto si sofferma sull’esigenza di tutelare la vita familiare non solo della coppia, ma anche e soprattutto del minore che con essa va a comporre il nucleo familiare, e il cui interesse non si può considerare leso a priori dal riconoscimento giuridico di due madri. La Corte smonta così quella “presunzione di inidoneità ad adottare” delle coppie omosessuali in funzione dell’interesse superiore del minore, che ha fondato e continua a fondare la maggior parte delle scelte legislative in materia di unioni omosessuali e possibilità di avere dei figli.
Da ciò deriva, ci sembra, che ogni discriminazione legislativa fondata esclusivamente sull’assunto dell’inammissibilità della coesistenza di “due padri” o “due madri” debba ritenersi illegittima, si tratti di adozione o di procreazione assistita. .
E ancora, altri e più ampi interrogativi si aprono: in particolare, come conciliare la legittimità della differenziazione del regime matrimoniale con il divieto di discriminazione delle coppie omosessuali nell’accesso all’adozione davanti ad istituti che si propongano come la declinazione “senza figli” del matrimonio, riservata alle sole coppie omosessuali?
Ci sembra allora che tale decisione possa avere conseguenze interessanti anche per quanto riguarda quegli ordinamenti (come la Germania o la stessa Austria, in seguito all’adozione, nelle more del presente ricorso, della legge sulle unioni civili riservate alle coppie omosessuali), che hanno istituito un istituto analogo al matrimonio per le sole coppie omosessuali, con l’unica differenza sostanziale nel regime della filiazione, dell’adozione e della procreazione assistita. Premesso che la disparità di trattamento vietata dalla Convenzione sussiste solo tra situazioni analoghe, non sono forse da ritenere “analoghe” le situazioni in cui versano coppie legate da istituti analoghi in tutto fuorché sotto l’aspetto della possibilità di avere figli legalmente riconosciuti (e del nomen “matrimonio”)? È legittima la scelta del legislatore di escludere le coppie omosessuali dal matrimonio con il solo obiettivo di non consentire la crescita di un figlio con due padri o due madri, dopo che la Corte ha stabilito che le coppie omosessuali non possono essere ritenute inidonee e che pertanto la loro supposta inidoneità a crescere dei figli non può costituire un legittimo motivo di discriminazione? Ed è legittima, nell’interesse superiore del minore, la scelta di escludere le coppie registrate dall’accesso all’adozione, specialmente laddove l’adozione da parte dei single sia invece ammessa, preferendo così riconoscere al minore un solo genitore piuttosto che due genitori dello stesso sesso?
Tali interrogativi rischiano di diventare ben presto meri esercizi intellettuali, davanti alle evoluzioni che, in quegli Stati che hanno iniziato anni addietro ad aprire al riconoscimento delle coppie omosessuali, ne stanno modificando lo statuto, eliminando gradualmente le differenze tra queste e le coppie eterosessuali sposate, così che a breve la varietà dei regimi giuridici in materia sarà ridotta a due: quelli che riconoscono le famiglie fondate su coppie omosessuali e quelli che, come ad oggi l’Italia, non le riconoscono, se non in qualche sentenza lasciata lettera morta.
Ma è indubbiamente verso il riconoscimento che muove la tendenza europea, nonostante i numeri mostrino ancora lontana la formazione di un consenso. Intendendo letteralmente per tendenza «la direzione in cui evolve un fenomeno», è innegabile che dai primi anni Duemila si assista ad una graduale evoluzione dello statuto delle coppie omosessuali che, seppur con percorsi lenti e variegati, non ha mai subito battute d’arresto, e non sembra destinata a subirne soprattutto ora che, in un momento di crisi, i governi europei stanno riscoprendo i diritti civili grazie alla loro natura di “diritti che non costano”.