La discrezionalità amministrativa nel “riconoscere” la cittadinanza

Considerazioni a margine delle sentenze C.d.S., Sez. III, n. 2920/2013 e Tribunale di Lecce dell’11 marzo 2013.

 

Lo Stato, in un atto direttamente imputabile alla sua sovranità, decide quale soggetto può (e deve) essere considerato suo “cittadino”, individuando quali siano i pre-requisiti di legge da rispettare e le procedure idonee al rilascio del suddetto titolo. Questa espressione, per certi versi banale e didascalica, non è per nulla scontata dinanzi a peculiari controversie cui il giudice (di qualsiasi grado) deve porre rimedio. A ciò, si aggiunge l’annosa questione (non meno scontata) dell’interpretazione di talune norme, acuita da una frammentaria e spesso tardiva legislazione in materia di immigrazione e di cittadinanza. In un periodo, infatti, in cui si dibatte su quale sia la strada migliore per diventare un civis optimo iure e, soprattutto, ci si interroga se la “nascita” sia sufficiente a dimostrare l’appartenenza al territorio nazionale, lo spunto di riflessione ci deriva proprio da alcune pronunce che, attraverso un rinnovato spirito interpretativo dei testi vigenti, sembrano rivolgersi direttamente all’inerte legislatore. In entrambi i casi, in effetti, all’intenzionalità dello straniero e alla manifesta volontà di acquistare la cittadinanza italiana, corrisponde un’azione amministrativa (probabilmente) perfettibile e meritevole di modifica.

Nel primo caso, quello relativo alla sentenza n. 2920/2013, il Consiglio di Stato è stato adito per esprimersi su un diniego di acquisto della cittadinanza e, in particolare, sull’ampio margine discrezionale che ha caratterizzato il procedimento amministrativo. In base all’art. 7 della Legge 91/1992, «la cittadinanza italiana si acquista con decreto del Ministero dell’Interno, a istanza dell’interessato, presentata al sindaco […] o all’autorità consolare». Tali soggetti hanno l’obbligo di rivolgersi al Ministero dell’Interno (tramite l’Autorità prefettizia) al fine di ricevere un “responso” relativo al rigetto o all’accoglimento di tale istanza. I criteri valutativi su cui verte l’esame di questa richiesta sono stabiliti dall’art. 6 della Legge 91/1992: il primo comma,  in particolare, individua le cause ostative al rilascio (es. condanne penali o motivi di sicurezza) che, in qualche modo, investono l’autorità amministrativa del delicato compito di verificare (ad esclusione degli evidenti provvedimenti di condanna) i limiti che possono determinarne il diniego. Il procedimento si concretizza attraverso un atto cd. di «alta amministrazione», a cui corrisponde «altissima discrezionalità, sia nell’accertamento, sia soprattutto nella valutazione dei fatti acquisiti al procedimento»1.

Proprio in questi particolari casi, il giudice può solo operare un controllo di «natura estrinseca e formale», considerando che si tratta di decisioni politico-amministrative che non consentono di entrare nel merito delle questioni, presumendo che siano le «migliori possibili scelte, per l’attuazione dell’interesse pubblico»2. In ottemperanza a quanto sancito dal suddetto art. 6, la P.A. svolge un esame (più o meno accurato) delle caratteristiche personali del soggetto che possono riguardare aspetti relativi l’integrazione, «l’assimilazione all’ambiente nazionale, l’autosufficienza economica ed il concorso alla realizzazione delle finalità istituzionali e solidaristiche della comunità nazionale»3; tali criteri, con ogni probabilità, risentono di eventuali “sensibilità” da parte di colui che compie la valutazione. A ciò, si aggiunga la peculiarità di taluni decreti, i quali sono spesso resi in forma segreta (si pensi, tra tutti, a quelli relativi alla sicurezza nazionale), non consultabili dal ricorrente, nonostante si sia ribadito più volte quanto sia necessaria una «chiara indicazione, pur in termini ridotti all’essenziale, dei fatti o sospetti determinanti il diniego, in modo da consentire all’interessato la loro confutazione»4.

In tal senso, interviene il Consiglio di Stato accogliendo il ricorso di un soggetto straniero (in Italia da più di 22 anni) al quale era stata negata la cittadinanza in seguito ad una condanna (per altro, estinta) per guida in stato di ebbrezza. Nel caso di specie, l’organo supremo è entrato (con cautela) nel merito di quella “intangibile” decisione politico-amministrativa, stabilendo che «la valutazione discrezionale sull’integrazione dello straniero nel tessuto sociale della Repubblica […] non può legittimamente prescindere da un giudizio globale sulla personalità», considerando «le implicazioni e gli effetti sulla posizione complessiva dell’appellante», attraverso «seri profili d’adeguatezza e proporzionalità», così da elaborare «un giudizio sì discrezionale, ma anche completo e preciso». Da qui, il conseguente obbligo per il Ministero a pronunciarsi nuovamente sul caso di specie.

Questa decisione (sommessa ma molto incisiva), non sembra troppo distante dal secondo caso che esamineremo e che riguarda quella parte della Legge 91/1992 (art.4, c. 2) che stabilisce una sorta di “cittadinanza per nascita” nel nostro ordinamento, su cui tanto si discute nell’attualità. Anche in questa occasione, l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune interessato aveva negato lo status civitatis a un soggetto (per così dire) straniero, che aveva regolarmente compiuto la maggiore età sul territorio e, quindi, legittimato a richiedere il titolo in questione. La motivazione addotta riguardava proprio il momento della nascita poiché, a quella data, «nessuno dei suoi genitori era residente sul territorio della Repubblica». Prescindendo dall’analisi delle vicissitudini inerenti il caso concreto, il ricorrente (nato nel 19935) era già in possesso di un regolare documento di identità italiano, era cresciuto in un contesto familiare italiano, e (per giunta) era stato dichiarato dalla madre naturale al momento della sua regolarizzazione6. Il Tribunale, quindi, accogliendo la domanda proposta, ordina le iscrizioni, trascrizioni e comunicazioni nei Registri comunali.

La sentenza del Tribunale di Lecce, in questo caso, ci aiuta a comprendere alcuni aspetti assai critici della normativa vigente: se da un lato, il principio della “cittadinanza per nascita” in Italia non può prescindere dal fatto che sussista una volontà del soggetto all’acquisizione, dall’altro lato è obbligatorio (soprattutto per la P.A.) individuare procedimenti «volti a garantire la positiva conclusione del percorso di inserimento per i bambini stranieri nati nel nostro territorio»7. Sempre in merito alla discrezionalità nel procedimento, l’Amministrazione dovrebbe «adeguare l’interpretazione e l’applicazione della norma alla realtà, consentendo al giovane straniero di completare l’integrazione nel Paese in cui è nato, di cui parla la lingua e del quale ha acquisito la cultura e gli stili di vita»8.

Le pronunce esaminate, diverse per alcuni aspetti ma simili nei tratti conclusivi, ci forniscono due esempi assai esplicativi di come le norme debbano essere interpretate considerando tutte le caratteristiche concorrenti alla “situazione attuale” di un dato soggetto. Questo vale, ancor di più, quando si tratta di istanze concernenti lo status civitatis. Del resto, anche la Corte di Giustizia dell’Ue, quasi come custode di quell’originario “diritto ad avere una cittadinanza9”, ha tracciato un solco ben delineato su questi temi, rafforzando la protezione di determinate posizioni. Risulta, infatti, come assimilato nel diritto europeo che un soggetto non possa essere privato della cittadinanza (dell’Unione)10 e che detto istituto, seppur subordinato al possesso di una figura “omologa” e di stampo nazionale, sia talmente forte da poter essere invocato come “agente di tutela” dinanzi alle autorità di un altro Stato membro (causa C-200/02, Zhu e Chen). Del resto, sono ormai evidenti le ricadute nell’ambito relativo al diritto di soggiorno e libera circolazione (cause C-34/09, Ruiz Zambrano; C-256/11, Dereci), che investono le autorità nazionali anche del difficile compito di saper bilanciare tra le necessità imposte dalla sicurezza dello Stato e il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva del richiedente (causa C-300/11, ZZ)11.

In definitiva, quindi, la discrezionalità amministrativa (seppur importante) e i provvedimenti che da essa derivano, devono evolversi verso una semplificazione che sia lontana da quell’obsoleto atteggiamento “concessorio”, proveniente da una normativa spesso datata e immobile, per perseguire i profili “inclusivi” della cittadinanza. Quest’ultima, infatti, va declinata in senso biunivoco: non solo come insieme di criteri (o doveri) da ottemperare per richiederne l’acquisto, bensì come patrimonio di libertà che lo Stato (con la sua Amministrazione) deve saper “riconoscere”.

 

Note

 

1 Cfr. Sentenza C.d.S., sez. VI, n. 4862/2010

2 Cfr. Sentenza C.d.S., sez. VI, n. 5913/2011

3 Cfr. Sentenza T.A.R. Piemonte, sez. II, n. 1336/2012

4 Cfr. Sentenza T.A.R. Lazio, sez. II Quater, n. 2298/2012

5 Su questa base, il collegio sancisce che la “residenza legale” debba intendersi solamente alla luce dell’art. 43 cod. civ.

6 La Sentenza n. 1486/2012 della Corte d’Appello di Napoli già stabiliva che «non possono imputarsi al minore, ai fini del riconoscimento della cittadinanza di cui al comma 2, art 4, legge 91/92, gli inadempimenti dei genitori circa l’iscrizione anagrafica»

7 Come precisato nella Circolare ministeriale n. 22 del 7/11/2007

8 Così, l’apertura parziale effettuata dalla Circolare ministeriale n. 60 del 5/1/2007

9 Art. 15 UDHR e, in un certo senso, anche EXCOM Conclusion N. 78 (XLVI)

10 Cfr. la nota Sentenza Micheletti (Causa C-369/90) che fu pronunciata, per giunta, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht.

11 Con questa pronuncia, la CGUE ha sancito che «la sostanza della motivazione sulla quale è fondata una decisione di diniego di ingresso dev’essere comunicata all’interessato, dato che la pur necessaria tutela della sicurezza dello Stato non può avere l’effetto di privare detto soggetto del suo diritto di esporre la propria difesa e, pertanto, di vanificare il suo diritto alla tutela giurisdizionale».