La Corte Suprema americana, il Defense of Marriage Act e le ricette dell’uguaglianza
Quando un giudice deve pronunciarsi su temi considerati delicati o comunque definiti «sensibili» non è sufficiente accumulare argomentazioni a favore della soluzione prescelta: occorre che esse siano anche buone. E la loro bontà si misura in base alla credibilità che tale soluzione determina in capo al giudice che l’ha determinata. Nel caso del matrimonio tra persone dello stesso sesso (same-sex marriage), buone argomentazioni e credibilità sono gli ingredienti fondamentali di una ricetta che deve essere «digerita» dalla società civile senza generare eccessive contrapposizioni o conflitti. È il caso della sentenza del 26 giugno 2013 della Corte Suprema americana nel caso United States v. Windsor (2013 U.S. LEXIS 4921).
Oggetto del contendere è una legge, il Defense of Marriage Act del 1996 (DOMA, Pub. L. No. 104-199, 1 USC § 7), voluta dal Congresso federale per impedire il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Essa trae origine da una vicenda giudiziaria portata dinanzi alla Corte Suprema delle Hawaii nel 1993, nella quale era stato messo in dubbio che l’esclusione delle coppie gay e lesbiche dal matrimonio potesse considerarsi compatibile con il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione dello Stato (Baehr v. Lewin, 74 Haw. 530). Nelle more del giudizio — che poi si tradusse in una pronuncia di rigetto, essendo il legislatore hawaiiano nel frattempo intervenuto con una legge costituzionale (Baehr v. Miike, 92 Haw. 634) — il deputato Robert Barr propone alla Camera dei Rappresentanti un progetto di legge federale «a difesa del matrimonio». Dichiaratamente volto semplicemente a confermare una definizione secolare, dai lavori preparatori del DOMA traspare l’intenzione di impedire che, «in a more pragmatic sense, homosexual couples would presumably become eligible to receive a range of government marital benefits» (H.R. 104-664, 1-18, 2 (1996)). L’iter legislativo, che si svolge in tempi record, partorisce una Section 3 la quale prevede che per il diritto federale i termini «spouse» e «marriage» possano riferirsi solo all’unione tra uomo e donna.
Il 1996, però, è anche l’anno di Romer v. Evans [517 U.S. 620 (1996)]. In Romer la Corte Suprema aveva dichiarato incostituzionale l’Amendment 2 della Costituzione del Colorado, che vietava qualsiasi disposizione statale di contrasto alla discriminazione per orientamento sessuale. Secondo la Corte l’Amendment 2 è dettato unicamente dall’ostilità nei confronti delle persone omosessuali e dalla volontà di renderle «unequal to everyone else». Il messaggio è chiaro: «for the first time in history, the US Supreme Court had acknowledged the prejudice behind an antigay law and had rejected it [and] recognized that gay people are more than sex acts and telegraphed the message that “homosexuals” are people and that they are entitled to full constitutional rights» (Keen, Goldberg, Strangers to the Law. Gay People on Trial, 2000, 235).
Sin dalle sue origini il DOMA si pone dunque in contrasto con questo principio, ma i dubbi di incostituzionalità rimangono molteplici. In DOMA vuole anzitutto impedire a gay e lesbiche di sposarsi a ogni livello, non permettendo che un’unione affettiva solida, duratura e caratterizzata da una comunione materiale e spirituale sia in ogni caso definibile come «matrimonio» secondo il diritto federale. Vi è dunque una violazione frontale dell’Equal Protection Clause, contenuta nel XIV Emendamento della Costituzione federale. Nello specifico, il DOMA prende di mira una classe di cittadini, distinti per il loro orientamento sessuale, e li rende «unequal to everyone else». Come ha prospettato l’Attorney General nel 2011 nel suggerire proprio l’incostituzionalità del DOMA, quest’ultimo tratta in modo meno favorevole le coppie gay e lesbiche sposate in rapporto a quelle di sesso opposto, anch’esse sposate nello stesso Stato, con conseguente violazione del principio di uguaglianza.
Nel caso Windsor la Corte Suprema non fa proprie queste argomentazioni legate al principio di uguaglianza, ma analizza il DOMA da un’angolatura diversa, tutta incentrata sull’equilibrio tra potere statale e potere federale. Esso viene esaminato sotto due aspetti: una per così dire «verticale», riguardante la sovranità dei singoli Stati oggetto di precise scelte politiche, e una «orizzontale», inerente alla dignità delle coppie same-sex, meritevole di attenzione da parte della Corte.
La Corte rileva anzitutto, in un contesto nel quale 11 sister states riconoscono espressamente il same-sex marriage, una frattura rispetto alla tradizionale divisione di competenze che caratterizza la struttura federale dell’ordinamento statunitense. Sotto questo aspetto, «the State’s decision to give [gays and lesbians] the right to marry conferred upon them a dignity and status of immense import[, whereas DOMA] departs from this history and tradition of reliance on state law to define marriage».
In secondo luogo, il DOMA crea «two contradictory regimes within the same state, [forcing] same-sex couples to live as married for the purpose of state law but unmarried for the purpose of federal law, thus diminishing the stability and predictability of basic personal relations the State has found it proper to acknowledge and protect». Non solo. Esso «demeans the couple, whose moral and sexual choices the Constitution protects and whose relationship the State has sought to dignify», e «humiliates tens of thousands of children now being raised by same-sex couples». In breve, il DOMA «impose[s] inequality», impattando concretamente la vita di milioni di coppie.
L’Equal Protection Clause resta in qualche modo sullo sfondo, ma non viene in alcun modo menzionata dalla Corte a sostegno del risultato. Non che una simile base teorica non fosse disponibile, come abbiamo visto. Il punto è che, usando l’Equal Protection Clause contro il DOMA, la Corte avrebbe messo a disposizione del contenzioso esistente e di quello futuro una formula utilizzabile contro i mini-DOMA — le disposizioni statali che, ancora oggi in vigore nella stragrande maggioranza degli Stati, vietano il matrimonio tra persone dello stesso sesso — e generato in tal modo un corto circuito giudiziario tra competenze statali e potere federale. Piuttosto, evitando di addentrarsi nelle pieghe spigolose delle formule di «suspect class» o di «suspect classification» che costituiscono l’autentica ragione di divisione tra i giudici e tra le parti, ci pare che la Corte conservi intatta la propria credibilità quale «giudice dei diritti» e difensore della dignità violata delle persone e delle coppie omosessuali già riconosciuta in buona parte a livello statale.
Quanto infine all’accusa, rivolta alla Corte soprattutto nel dissent di Justice Scalia, di «invasione di campo» rispetto al Congresso, essa non sembra in alcun modo fondata. Infatti, la discussione continuerà a svolgersi nei diversi Stati, che pure negli ultimi anni hanno dato prova di un fervente dibattito sul piano democratico, fatto di prassi amministrative, iniziative giudiziarie e referendum popolari. Scalia scrive, criticando l’opinion della maggioranza, che «the most expert care in preparation cannot redeem a bad receipt». Forse ha ragione. Ma è altresì vero, e il caso Windsor lo dimostra, che è possibile individuare gli ingredienti cattivi della ricetta, ottenendo così che essa avveleni i commensali, escludendo taluni di loro da quello che appare come una continua, florida ed interessante discussione su diritti fondamentali, uguaglianza e dignità della persona.