La Corte divisa: difesa delle prerogative statali e tendenze progressiste nel caso Hollingsworth v. Perry
Non è insolito che le Corti costituzionali, alle prese con la soluzione di questioni giuridiche particolarmente complesse, ripieghino sulla discussione di profili procedurali, dotati magari di estremo tecnicismo, al fine di sciogliere nella dissertazione dotta le insidie che si annidano nella soluzione sostanziale (su questi aspetti, ma con specifico riferimento alla realtà italiana, devono essere richiamate almeno le riflessioni di S. Rodotà, La Corte, la politica, l’organizzazione sociale, in Politica del diritto, 1982, 171, spec. 185). Può sorprendere forse che questa strada sia stata scelta dalla Corte suprema statunitense proprio in relazione al tema su cui si è pronunciata nel medesimo giorno, con la sentenza che dichiara incostituzionale il Defense of Marriage Act. Eppure, nella pronuncia Hollingsworth v. Perry (No. 12-144, 570 U.S.__ (2013)) il Collegio si ferma all’esame di un profilo procedurale e dichiara inammissibile il ricorso, presentato dal comitato promotore del referendum, avverso la sentenza della Corte distrettuale con cui era stata dichiarata incostituzionale la cosiddetta Proposition 8, ovvero l’emendamento costituzionale con approvazione referendaria che sanciva il carattere eterosessuale del matrimonio. Con una maggioranza di cinque giudici, la Corte stabilisce che il comitato promotore della consultazione popolare non gode dello standing to sue, non essendo legittimato a rappresentare l’interesse dello Stato nell’ambito del contenzioso federale. In particolare, la legittimazione a stare in giudizio è esclusa non dall’affermazione del principio di diritto per cui il comitato promotore del referendum non possa ricorrere avverso il provvedimento giudiziale che annulla l’emendamento per contrarietà ai principi costituzionali, ma per la più circoscritta motivazione, legata al caso di specie, per cui i pubblici ufficiali incaricati dell’applicazione della legge sul matrimonio hanno rinunciato a ricorrere in giudizio e optato per la disapplicazione della normativa statale che non riconosce il matrimonio delle same-sex couples.
Il Chief Justice Roberts, che redige la sentenza, consegna ai lettori una sorta di compendio di diritto processuale costituzionale, in cui il tema della legittimazione a stare in giudizio è affrontato con abbondanti riferimenti giurisprudenziali e un’inedita prospettiva di diritto statale comparato. Il presidente della Corte riesce a coagulare una maggioranza di cinque, assolutamente trasversale, nella quale convergono praticamente tutti i giudici di orientamento progressista, con l’eccezione di Justice Sotomayor, che aderisce alla dissenting opinion di Kennedy.
Il disegno seguito dal Collegio sembrerebbe tutto sommato coerente: per un verso, chiarisce che la Federazione non può imporre agli Stati di concepire il matrimonio come necessariamente eterosessuale (con la sentenza US v. Windsor, su cui v. il commento di M. Winkler pubblicato qui), per l’altro, decide sostanzialmente di non interferire con le decisioni assunte dal livello decentrato di governo. Eppure, tra le due sentenze, gli equilibri della Corte sono talmente diversi che c’è da dubitare che essa abbia avuto a cuore, in primo luogo, la conservazione di una sorta di “federalismo matrimoniale” (sul quale sia consentito il rinvio a G. Romeo, The recognition of same-sex couples’ rights in the United States between counter-majoritarian principle and ideological approaches: a State level perspective, in D. Gallo, L. Paladini, P. Pustorino (eds.), Same-Sex Couples before National, Supranational and International Jurisdictions, Berlin, Springer, forthcoming 2013).
La questione sollevata dai ricorrenti verteva sulla conformità dell’emendamento costituzionale che definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna alla clausola dell’equal protection of law. La decisione non avrebbe soltanto avuto implicazioni in termini di rapporti Stato-Federazione, ma avrebbe anche suscitato una pronuncia su un tema, l’equal protection, che questa Corte appare, in via generale, piuttosto restia a trattare (soprattutto nel term in cui sono state decise Shelby County v. Holder e Fisher v. University of Texas at Austin). La stessa ricostruzione del thema decidendum avrebbe creato non pochi problemi al Collegio, riaprendo almeno la questione delle classi sospette e della scelta del livello di scrutinio. Avrebbe imposto, poi, di affrontare il nodo della fondamentalità, anche nel senso di escluderla, del right to marry e, non da ultimo, avrebbe provocato un effetto domino su tutte le Costituzioni statali in cui sono stati introdotti, per via legislativa o referendaria, emendamenti ad hoc per estromettere le persone dello stesso sesso dall’istituto matrimoniale (in dettaglio: Alabama (Am. 774(d)); Alaska (Art. 1, sec. 25); Arizona (Art. XXX); Colorado (Art. II, sec. 31); Florida (Art. I, sec. 27); Georgia (Art. I, sec. IV); Idaho (Art. III, sec. 28); South Carolina (Art. XVII, sec. 15); South Dakota (Art. XXI, sec. 9); Kansas (Art. XV, sec. 16); Kentucky (sec. 233 A); Louisiana (Art. XII, sec. 15); Michigan (Art. I, sec. 25); Mississippi (Art. XIV, sec. 263A); Missouri (Art. I, sec. 33); Montana (Art. XIII, sec. 7); Nebraska (Art. 1, sec. 29); North Carolina (Art. XIV, sec. 6); North Dakota (Art. XI, sec. 28); Ohio (Art. XV, sec. 11); Oklahoma (Art. II, sec. 35); Tennessee (Art. XI, sec. 18); Texas (Art. I, sec. 32); Utah (Art. I, sec. 29); Virginia (Art. I, sec. 5-A)). I giudici costituzionali hanno forse voluto evitare questo banco di prova oppure, più probabilmente, hanno voluto scongiurare, come pure sembra svelare Il Chief Justice nelle battute iniziali della pronuncia, la “portata contro-maggioritaria” di una sentenza in cui il processo di decisione giudiziale si salda inevitabilmente con il processo politico-costituzionale, per di più al livello statale.
La soluzione privilegiata però non è appagante e, per certi aspetti, ancora più invasiva della sovranità statale. L’esclusione della legittimazione a stare in giudizio, infatti, si presenta come l’esito di un’interpretazione tendenzialmente autoreferenziale, che esclude espressamente la rilevanza della disciplina statale, così come ricostruita dalla Supreme Court dello Stato della California (in questa prospettiva v. peraltro la d.o. di Justice Kennedy, p. 3-4). La lettura fornita dalla corte statale riconosce, infatti, lo standing to sue al comitato promotore del referendum, non soltanto nelle fasi precedenti l’indizione della consultazione, ma anche a votazione conclusa. Il Collegio invece rivendica l’autonomia dell’interpretazione della legge statale ai fini dell’applicazione della disciplina federale relativa alla legittimazione a stare in giudizio. Kennedy scrive un’opinione dissenziente dai toni insolitamente polemici nei confronti della maggioranza, che senza mezzi termini accusa di miopia per aver deciso «to misconstrue principles of justiciability to avoid [the] subject».
L’affermazione è condivisibile, se non altro nella denuncia della precisa volontà della Corte di evitare la questione al centro della controversia. Tale volontà però potrebbe non dipendere tanto dal thema decidendum, quanto piuttosto dalla circostanza per cui esso sia al centro di una fitta dialettica tra corti, legislatori e opinione pubblica nella quale i giudici costituzionali intendono, per il momento, non entrare. L’iniziativa popolare che ha condotto all’adozione della Proposition 8, infatti, ha seguito a stretto giro la sentenza della Corte Suprema californiana con cui era stato riconosciuto il diritto delle persone dello stesso sesso a contrarre matrimonio (il noto In Re Marriage Case). In molti Stati, la giurisprudenza favorevole al same sex marriage ha suscitato reazioni contrarie da parte del legislatore oppure da parte dell’opinione pubblica (le vicende sono ricostruite puntualmente da M.J. Klarman, From the Closet to the Altar: Courts, Backlash, and the Struggle for Same-Sex Marriage, Oxford UP, Oxford, 2013), anche se la maggioranza degli americani sembra oramai propendere, peraltro cambiando orientamento nel breve volgere di un quinquennio, per il riconoscimento del right to marry alle persone dello stesso sesso (D. Cole, Getting Nearer and Nearer, in The New York Review of Books, Jan. 10th 2013, disponibile all’indirizzo www.nybooks.com/articles/archives/2013/jan/10/getting-nearer-and-nearer). La Corte, in altri termini, sembra voler rimanere spettatrice, ancora per qualche tempo, del discorso pubblico, suscitato dal confronto tra i diversi formanti del diritto costituzionale statale. La vocazione contro-maggioritaria della giurisprudenza costituzionale cede, dunque, il passo al dibattito democratico.
Ad ogni modo, la decisione rivela la fase di transizione degli equilibri del Collegio. Per un verso, esso si conferma ancora fortemente influenzato dalle sue anime conservatrici, restie al riconoscimento, soprattutto attraverso la clausola dell’equal protection, di nuovi diritti che non si presentino inequivocabilmente come l’espressione di esigenze di tutela diffuse e radicate nella società americana; per l’altro comincia ad avvertire le influenze della componente liberal che pur aderendo all’escamotage procedurale indicato dal Chief Justice, finisce per ottenere un risultato favorevole nella sostanza alla causa delle same sex couples.
Le due pronunce consegnano agli Stati la libertà di riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso e sesso, mentre la Federazione si impegna a riconoscere gli effetti dell’unione sul piano del diritto federale. Il risultato è ottenuto senza dedicare neppure una parola alle suspect classes, all’equal protection, ai fundamental rights. È una Corte con una modesta tendenza alla ricostruzione in chiave costituzionalistica delle controversie, con una certa ritrosia ad affrontare i nodi più spinosi del dibattito costituzionale americano, ma forse con un’invidiabile sensibilità per la soluzione pratica degli hard cases.