Le “trasformazioni” del potere di veto del Presidente degli Stati Uniti, tra diritto costituzionale e politica del diritto.
A proposito del volume di A. Buratti, “Veti presidenziali. Presidenti e maggioranze nell’esperienza costituzionale statunitense”, Roma, Carocci, 2012
Il libro di Andrea Buratti riesce nella non facile impresa di combinare un’accurata analisi empirica dei veti presidenziali negli USA, poggiata su un solido apparato teorico, di filosofia politica e di storia del diritto, con la redazione di un volume snello e di assai piacevole lettura. Come si evince dal testo e dalle note, l’autore ha infatti esaminato centinaia di messaggi di veto presidenziali, da Washington a Obama, con ciò muovendo dallo studio dell’istituto nel diritto positivo alle prassi istituzionali che si sono sviluppate in oltre duecento anni di esperienza costituzionale statunitense.
Dopo un’attenta ricostruzione della classificazione del potere di veto o, meglio, dei poteri interdittivi riconosciuti nelle democrazie costituzionali ai Capi di Stato nell’ambito della determinazione degli indirizzi legislativi (veto assoluto, veto qualificato, veto sospensivo, veto traslativo e rinvio: cfr. pp. 15-16), l’autore inquadra l’istituto in relazione alle forme di governo e in prospettiva diacronica – da notare, infatti, i riferimenti all’Instrument of Government inglese del 1653 (p. 31), alla Costituzione francese del 1848 (p. 23) e alla Costituzione imperiale guglielmina del 1871 (p. 26) – e quindi giustifica la scelta del caso di studio: gli Stati Uniti d’America come “esperienza paradigmatica”. In questo ordinamento, non solo per la prima volta il potere di veto è stato regolato (in Costituzione, peraltro), ha contraddistinto l’assetto di governo e ha rappresentato poi il modello di ispirazione per la disciplina dell’istituto nell’intero continente, ma esso “ha condizionato (…) tutta la storia politica e giuridica della nazione” (p. 27).
Alle origini dell’istituto negli Stati Uniti, secondo l’autore, vi sarebbe non solo la nota influenza delle teorie di Locke e di Montesquieu sulla separazione – statica – dei poteri. Piuttosto, tra le fonti intellettuali del potere di veto presidenziale, forse la principale, va senz’altro collocata la tradizione del repubblicanesimo, spesso a torto trascurata negli studi sulla fase costituente negli Stati Uniti. Difatti, le opere di Polibio e di Cicerone sulla repubblica romana, quindi “Il principe” di Machiavelli e poi “La Repubblica di Oceana” di Harrington, fino ad Adams – tra gli artefici della Costituzione del Massachusetts del 1780 –, Bolingbroke e il radicalismo whig dell’Inghilterra ottocentesca, sono da considerarsi dei fondamentali per lo sviluppo della teoria dei checks and balances da parte dei padri costituenti della federazione.
Da questo punto di vista, come sottolinea accuratamente l’autore, le Costituzioni statali adottate dopo la proclamazione dell’indipendenza non hanno rappresentato un punto di riferimento per la successiva disciplina costituzionale del potere di veto a livello federale. Sulla scorta della retorica di Paine, tali Costituzioni hanno fatto propria una concezione radicale della democrazia che aveva il suo punto fermo nel rafforzamento della centralità del potere legislativo, anche in reazione al precedente abuso del veto da parte dei Governatori regi contro la legislazione delle assemblee coloniali (pp. 43-44). Le uniche due eccezioni sono rappresentate dalle Costituzioni del Massachusetts e di New York: tuttavia, mentre la prima conteneva una disciplina del veto assai simile a quella che sarà poi adottata nell’art. 1, sez. 7 della Costituzione federale, con un potere di veto qualificato contro le deliberazioni parlamentari nelle mani di un esecutivo forte; la seconda Costituzione istituiva invece una sorta di controllo preventivo sulle leggi, con possibilità di un veto qualificato, opponibile da parte di un organo a composizione mista (council of revision), tra esecutivo e giudiziario. Si sono delineati così in nuce due modelli di veto sulle leggi, su cui si animerà successivamente il dibattito nella Convenzione di Filadelfia. Nonostante siano state assai variegate le posizioni dei Framers (vi era persino chi, come Madison e Wilson, era favorevole all’attribuzione di un potere di veto del Congresso federale sulle leggi statali), un punto di sintesi è stato poi trovato nella configurazione del veto presidenziale come strumento di garanzia dell’equilibrio tra poteri (p. 53), mentre, seppur non formalizzato in Costituzione, si è raggiunto una sorta di “comune sentire” sull’esercizio della review sulla legislazione ad opera del giudiziario, come già avveniva efficacemente in alcuni stati. Sebbene un compromesso sia stato raggiunto allora, non sono mancate però occasioni nel corso della storia costituzionale statunitense in cui il veto presidenziale è stato utilizzato, forzando la mano, come strumento di sindacato politico sulla legittimità costituzionale delle delibere legislative.
Il libro di Andrea Buratti mette magistralmente in evidenza tutte le contraddizioni e la “duttilità” del veto presidenziale, che è stato utilizzato con le modalità e per gli scopi più variegati negli ultimi due secoli; a tal punto da potersi ritenere forse tra gli istituti più emblematici per lo studio della democrazia statunitense, offrendo un angolo visuale privilegiato tanto per lo studio della forma di governo quanto della forma di stato.
Anzitutto, il potere di veto presidenziale è istituto polimorfo. Si riscontrano messaggi presidenziali di rinvio – che corredano sempre il veto – assai laconici, impersonali e dallo stile argomentativo prevalentemente tecnico, accanto ad altri decisamente enfatici e prolissi, talvolta anche nell’ambito della stessa presidenza. In secondo luogo, esso è un istituto polifunzionale. Può essere impiegato come strumento di constitutional review of legislation (più correttamente dei disegni di legge approvati dalle Camere) per sanzionare preventivamente la violazione della Costituzione e, soprattutto all’inizio, la tendenza del Congresso federale all’ipertrofia legislativa a danno delle competenze statali (si vedano i numerosi veti opposti in presidenze diverse al rifinanziamento della banca federale); come strumento di indirizzo e di politica della legislazione, in particolare quando il veto è preannunciato e minacciato dal Presidente per condizionare l’iter legis (v. il caso della presidenza “imperiale” di Nixon costretto a fronteggiare anche un Congresso avverso: p. 124 e A. M. Schlesinger Jr., The Imperial Presidency, Boston, Houghton Mifflin,1973) e opponendosi al merito dei contenuti; come mezzo di comunicazione istituzionale, attraverso il quale il Presidente “parla” alla nazione, cerca una sua legittimazione (e l’uso del veto è stato determinate anche per l’esito delle elezioni presidenziali, per esempio nel 1832, come strumento in grado di orientare l’andamento della campagna elettorale), esercita un potere tribunizio di guida e di (ipotetica) rappresentanza del volere dell’opinione pubblica (p. 99, v. lo stile argomentativo di impronta populista dei messaggi di veto di F.D. Roosevelt).
A tal riguardo, la presidenza di Jackson (1829-1837) è stata forse quella che ha usato nel modo più estensivo le tre funzioni del veto presidenziale. Basti pensare alla posizione assunta da Jackson in alcuni messaggi di veto contro la stessa giurisprudenza della Corte suprema a partire da McCulloch v. Maryland o il tentativo di sostituirsi alla Corte stessa attraverso l’elaborazione di un test di costituzionalità alla luce del quale vagliare le leggi che prevedevano internal improvements (v. successivamente anche il test of fairness di Truman). Allo stesso tempo Jackson ha usato il veto in modo funzionale ad alimentare continuamente il rapporto con l’elettorato, presentandosi come depositario del “will of the people”. Infine, le intromissioni di Jackson nell’esercizio della funzione legislativa sono state tanto pervasive che dopo la sua rielezione sono stati persino presentati emendamenti alla Costituzione per abbassare il quorum (di due terzi dei voti) per il superamento del veto presidenziale e, come sottolinea efficacemente Andrea Buratti, egli fu oggetto di una inedita “mozione di censura” del Senato “per avere agito contro la Costituzione” (pp. 65-66).
In terzo luogo, il ricorso al veto è sempre teleologicamente orientato (v. L. Fisher, Constitutional Conflicts between Congress and the President, 5a ed., Lawrence-Kansas, The Univ. of Kansas Press, 2007). Tutte le prime presidenze fino a quella di Madison, che per primo ha usato il pocket veto nel 1812, hanno mostrato una notevole deferenza verso il Congresso, facendo un uso estremamente parco del veto. Successivamente, invece, seppur con una tendenza decisamente ondivaga (il picco massimo nel numero di veti, anche in ragione del numero di mandati, si è riscontrato durante la presidenza di F.D. Roosevelt con ben 635 veti: p. 94), i presidenti hanno abbandonato la tradizionale prassi di self-restraint e hanno iniziato ad impiegare il veto, a seconda dei casi, per imporsi al “congressional government”, soprattutto per limitare le autorizzazioni di spesa, oppure come mezzo per ampliare più o meno surrettiziamente i loro poteri di intervento o ancora per imporre una certa concezione della presidenza (v. l’uso del veto da parte di Reagan e di Bush (Sr.) strumentale all’affermazione della teoria dell’esecutivo unitario, relativamente al rapporto con l’amministrazione: pp. 141-150). E di conseguenza il Congresso ha cominciato a reagire: il primo override di un veto presidenziale si è riscontrato nel 1845 durante la presidenza di Tyler.
Inoltre, il veto può essere utilizzato in funzione collaborativa con il Congresso, per esempio per indurre a deliberazioni congressuali più ponderate, oppure come strumento di conflitto col legislativo; ciò indipendentemente dall’esistenza di un governo unitario o diviso. Per esempio, Johnson poco dopo la sua ascesa è entrato in conflitto con il suo stesso partito e non ha esitato ad abusare del potere di veto al punto da essere sottoposto al giudizio di impeachment, dal quale, seppur ormai totalmente delegittimato, riuscì a scampare per un solo voto. Al contrario, Bush (Jr.) e Obama, pur in presenza di governi divisi, hanno fatto un ricorso modesto al veto, se si conta il numero assoluto di veti presidenziali.
Tuttavia, come l’autore del volume acutamente osserva, il numero di veti durante la presidenza non può essere l’unico parametro per valutare l’effettivo impiego dell’istituto. Così, ad esempio, è accaduto che il frequente ricorso al veto abbia riguardato private bills – per esempio durante la presidenza di Eisenhower – o comunque disegni di legge di modesto rilievo politico, mentre viceversa in altre presidenze l’uso del veto è stato quantitativamente più contenuto, ma ha avuto ad oggetto questioni altamente controverse (come i diritti civili durante la presidenza di Johnson). Inoltre, l’impiego del veto, in particolare da Nixon in poi, è diventato sempre più “sofisticato”, nel senso che da allora i presidenti– seppur con alcuni distinguo – hanno interpretato in modo creativo le previsioni costituzionali sul veto per legittimare l’invenzione di nuovi strumenti di controllo sull’attività legislativa del Congresso (signing statements, impoundment, line-item veto, protective return pocket veto). Pertanto, sebbene il numero di veti “ordinari” si sia tendenzialmente ridotto, l’incidenza sul legislativo di tali strumenti derivati dal potere costituzionale di veto presidenziale non è meno incisiva (anzi, per più versi, è maggiormente limitante per il Congresso, ma meno facilmente sanzionabile: p. 157).
Grazie all’approfondito studio dell’istituto da parte di Andrea Buratti è possibile cogliere alcune significative tendenze circa la portata e le trasformazioni del potere di veto nel sistema costituzionale statunitense; tendenze che forse non risultano immediatamente evidenti ad una lettura poco attenta del volume per via della ricchezza e della varietà delle informazioni fornite e della trattazione articolata secondo un ordine cronologico basato sulla successione delle presidenze anziché per configurazioni progressive dell’istituto (spesso connotato da veri e proprio “corsi e ricorsi” storici tra una presidenza e l’altra).
In primo luogo, l’uso del veto, soprattutto dalla presidenza di F.D. Roosevelt in poi è stato scandito da un dialogo a tre voci, tra Presidente, Congresso e Corte Suprema, talvolta apertamente; talaltra più velatamente, per contraddire attraverso messaggi di veto presidenziali dei precedenti della Corte Suprema o per deviare dai principi in essi fissati (v. la posizione di Bush (Sr.) sul National Voter Registration Act of 1992, p. 148, e la recente invenzione del protective return pocket veto, dopo i rigidi vincoli fissati dalla Corte all’impiego del pocket veto). E la Corte, originariamente improntata ad una certa deferenza verso le scelte di politica legislativa del Congresso e del Presidente – quest’ultimo, come ricorda l’autore, significativamente qualificato da Wilson come “the third branch of the legislature” – a partire dagli anni ’30 ha iniziato a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’uso abusivo e soprattutto elusivo del disposto costituzionale e in particolare del pocket veto (Wright v. United States) e dell’impoundment (Train v. City of New York e poi Kendall v. United States) nonché l’invenzione del line-item veto (Clinton v. City of New York). Lo stesso dicasi per l’atteggiamento della Corte nei confronti del Congresso: infatti, ad un uso “aggressivo” del veto da parte delle presidenze le due Camere avevano già cominciato a reagire da qualche tempo. Nel periodo tra F.D. Roosevelt e Carter il numero di override di veti presidenziali è cresciuto esponenzialmente così come sono aumentati i casi di ri-approvazione congressuale di leggi respinte con veto con modifiche almeno in parte divergenti dall’indirizzo presidenziale. Tuttavia, dopo lo scandalo del Watergate, approfittando della temporanea debolezza della presidenza, le degenerazioni del veto non sono tardate a venire, di conseguenza, anche da parte congressuale: la Corte Suprema è ugualmente intervenuta dichiarando incostituzionale una certa configurazione del legislative veto (v. INS v. Chadha). Dunque, all’affinamento delle tecniche di veto e di aggiramento delle previsioni costituzionali in proposito ha fatto seguito una giurisdizionalizzazione dell’uso del veto, contro l’applicazione ultra vires che ne è stata data dall’esecutivo e dal legislativo. In altri termini, la Corte suprema è stata chiamata ad un’opera di riconduzione dell’istituto entro l’alveo costituzionale.
Una seconda tendenza è rappresentata dall’istituzionalizzazione di alcune prassi relative al veto. Ad esempio, i signing statement, cioè le dichiarazioni presidenziali formulate all’atto della firma di una legge, non sono certo una novità nel panorama costituzionale degli Stati Uniti, il primo di essi essendosi registrato durante la presidenza di Monroe (1817-1825). Cionondimeno, soltanto nel 1986, il presidente Reagan è riuscito nell’obiettivo di conferire loro piena dignità istituzionale, per quando discutibile sia tale prassi (B. Ackerman, The Decline and Fall of American Republic, Harvard, Harvard Univ. Press, 2010): in quella data infatti per la prima volta un signing statement è stato pubblicato nelle United States Code Congressional and Administrative News, sezione “Legislative History”, acquisendo quindi un rango ufficiale al pari degli atti parlamentari e delle dichiarazioni rese dai membri del Congresso (p. 149).
La terza tendenza, infine, consiste nell’instaurazione di una vera e propria “burocrazia del veto” a supporto delle decisioni presidenziali (quando non responsabile delle decisioni medesime), ancora una volta a partire dalla presidenza di F.D. Roosevelt. A causa dell’aumento del numero delle leggi approvate, nonché della loro disomogeneità e tecnicità, è stato indispensabile creare un’amministrazione specializzata che ne vagliasse i contenuti e segnalasse l’opportunità di ricorrere al veto o ad altro istituto di sua derivazione, lavorando in raccordo con le amministrazioni di settore. Significativamente la “burocrazia del veto” è stata inizialmente identificata nel Bureau of Budget – segno della volontà presidenziale di mantenere un saldo controllo sulle leggi di spesa – appositamente trasferito dal Dipartimento del Tesoro all’Ufficio esecutivo del Presidente. L’analisi tecnica del Bureau è diventata a tal punto importante da conservare in capo al Presidente solo la decisione finale sull’effettiva opposizione del veto. Visto l’accresciuto peso dell’organo, anche da un punto di vista politico, esso è stato oggetto di successive ristrutturazioni organizzative. La più significativa di queste si deve probabilmente a Nixon, che ha assegnato le precedenti competenze del Bureau all’Office of Management and Budget. Quest’ultimo, a differenza del primo, è però diretto da personale politico e, di conseguenza, piuttosto che effettuare un vaglio tecnico sui bills approvati ne valuta la loro conformità al programma politico e all’agenda legislativa del presidente (p. 129).
In definitiva, il volume di Andrea Buratti contribuisce a colmare una significativa lacuna negli studi giuspubblicistici italiani, che o hanno quasi completamente trascurato la ricerca e l’analisi dell’istituto del veto presidenziale negli Stati Uniti, pur essendo esso soggetto a rilevanti “torsioni costituzionali” e modifiche nelle prassi applicative, oppure, specie negli ultimi anni, non hanno saputo coglierne le peculiarità, spesso riconducendone le trasformazioni alla generale e apparentemente onnicomprensiva tendenza alla presidenzializzazione degli esecutivi. Invece, come l’autore meritoriamente enfatizza sin dall’introduzione, il veto presidenziale è un elemento caratterizzante della democrazia costituzionale statunitense e della sua forma di governo, di cui ha scandito le molteplici “trasformazioni” (vale a dire “transformations”, nel senso in cui il termine è impiegato da Ackerman). Diversi momenti di svolta costituzionale nel Paese sono stati contrassegnati dall’uso del veto presidenziale o di strumenti ad esso affini, allontanandosi sempre più dalla concezione dell’istituto disegnata dai Framers (pp. 168-169). Da questa prospettiva, sembra opportuno rifuggire da possibili accostamenti tra l’esperienza costituzionale del veto negli Stati Uniti e certe “trasformazioni” del ruolo della presidenza della Repubblica nelle forme di governo parlamentari, come in Italia, dove negli ultimi due anni lo studio del ruolo del Capo dello Stato, in particolare dei rinvii delle leggi, dei messaggi alle Camere e delle sue esternazioni, ha vissuto una “seconda giovinezza”. Gli effetti del potere di veto, la retorica costituzionale dei messaggi dei Presidenti degli Stati Uniti e l’uso dell’istituto ai fini dell’esercizio di un potere tribunizio nei confronti della nazione rendono assai ardua la comparazione col caso italiano.
Infine – e lo si evince chiaramente dalle conclusioni del volume – un importante merito dell’autore, tra i molti, è quello di fornire un contributo alla ricerca sull’argomentazione giuridica, sovente schiacciata sull’analisi delle sentenze e del reasoning dei soli giudici. Invece, i messaggi presidenziali che accompagnano il veto (o la sua minaccia a fini deterrenti), specie per gli effetti che il veto può produrre, sono una miniera di informazioni sullo stile e sull’uso dell’argomentazione costituzionale e sul ruolo contro maggioritario svolto da alcuni presidenti, vero punto di equilibrio dei checks and balances della Costituzione USA ben aldilà della funzione svolta dal giudiziario.