Riforma costituzionale ed autonomia regionale, dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali (profili problematici)*
Sommario: 1. Quale il fine e quale il criterio alla cui luce può essere vagliata la progettazione in corso delle riforme della Costituzione? Il valore di unità-autonomia, nel suo fare “sistema” coi valori fondamentali restanti, quale parametro delle proposte di riforma e la verifica della rispondenza delle seconde al primo col metro della ragionevolezza. – 2. La doppia “anima” della progettazione in cantiere, l’una volta al riaccentramento di materie e funzioni e l’altra alla pur parziale promozione dell’autonomia. – 2.1.Le (non rosee) prospettive che si prefigurano per la specialità e la (inopinata) rimozione del modulo di “specializzazione” dell’autonomia previsto dall’art. 116, ult. c., con la conseguente, negativa incidenza che potrebbe aversene a carico dei diritti fondamentali. – 2.2. L’endemico disordine delle fonti, con specifico riguardo ai rapporti tra le leggi di Stato e Regione, oscillanti tra il modello della separazione e quello della integrazione delle competenze, e il bisogno di fare finalmente chiarezza nella Carta novellata per ciò che attiene alla operatività dei criteri che presiedono alla composizione delle fonti in sistema. – 2.3. Il bisogno di taluni corposi aggiustamenti nei meccanismi di garanzia, segnatamente per ciò che attiene ai controlli sulle leggi di Stato e Regione, all’insegna del principio della “parità delle armi”, e i riflessi che potrebbero aversene nei riguardi del sistema di sindacato in via incidentale (e, perciò, sui diritti fondamentali). – 2.4. La mancata ricerca di soluzioni organizzative originali in ambito regionale, in vista di un adeguato servizio da apprestare ai diritti fondamentali. – 3. Il ritorno al centro di alcune materie, dapprima demandate alla disciplina regionale, e la previsione, in termini sommamente ambigui e preoccupanti, della clausola di supremazia, che potrebbe dar modo di attrarre, in buona sostanza, all’area di competenza dello Stato tutto quanto attiene alla cura dei diritti fondamentali. – 4. Le novità riguardanti la seconda Camera, tanto per ciò che concerne la sua struttura quanto in merito alle funzioni ad essa spettanti ed alla sua relazione (non… fiduciaria) col Governo, e la possibile ricaduta che può aversene al piano della salvaguardia dei diritti fondamentali. – 5. I (mancati) rapporti delle Regioni con l’Unione europea ed in seno alla Comunità internazionale e il bisogno, di cruciale rilievo, di far luogo ad una loro nuova e temporis ratione aggiornata disciplina nella Carta costituzionale, al servizio dei diritti fondamentali.
1. Quale il fine e quale il criterio alla cui luce può essere vagliata la progettazione in corso delle riforme della Costituzione? Il valore di unità-autonomia, nel suo fare “sistema” coi valori fondamentali restanti, quale parametro delle proposte di riforma e la verifica della rispondenza delle seconde al primo col metro della ragionevolezza
È diffuso il convincimento che sia urgente riformare il Titolo V e, più in genere, la seconda parte della Carta costituzionale, tant’è che – come si sa – all’indomani della formazione del Governo Letta si è fatto luogo ad un’anomala (e fortemente discussa) procedura che dovrebbe concludersi col complessivo rifacimento della parte suddetta.
Ci si deve tuttavia chiedere per quale ragione i fautori della riforma se ne facciano a spada tratta difensori. Quale ne è, cioè, lo scopo? Ridare alle istituzioni della Repubblica quella funzionalità che hanno in gran parte smarrito? È solo questo l’obiettivo, o quanto meno il vero e principale obiettivo, dell’auspicata riscrittura della Carta?
Sono domande alle quali non ci si può sottrarre e che andrebbero poste per ciascuna delle porzioni del tessuto costituzionale interessato dal processo riformatore, per ciò che qui specificamente interessa: per il Titolo V e, ulteriormente specificando, per le sue disposizioni più direttamente riguardanti l’autonomia regionale.
È chiaro che le domande suddette rimandano ad un parametro o ad un criterio alla cui luce i progetti di riforma possono essere in modo congruo vagliati: se non è infatti chiaro il fine non può neppure apprezzarsi il mezzo.
Ora, la scelta del parametro o del criterio rimanda pur sempre, a conti fatti, all’idea di Costituzione ed al metodo nello studio delle questioni di diritto costituzionale.
Muovo qui da un’idea che non posso in questa sede nuovamente discutere ma che so essere largamente condivisa; ed è quella che vede l’essenza della Costituzione quale composta da un fascio di valori fondamentali positivizzati, al servizio dei quali si dispone l’intera trama del tessuto costituzionale e, discendendo, l’ordinamento giuridico sulla Costituzione stessa fondato.
I valori specificamente evocati in campo quando si ragiona dell’autonomia regionale (e, più largamente, delle autonomie territoriali) sono quelli di unità-indivisibilità dell’ordinamento e di autonomia, di cui all’art. 5. In realtà, come si è tentato di mostrare in altri luoghi di riflessione scientifica, lungi dal porsi quali valori distinti e, anzi, potenzialmente confliggenti, unità ed autonomia sono i due profili di un solo, internamente composito, valore, che è quello di unità attraverso la promozione – la massima possibile alle condizioni oggettive di contesto – dell’autonomia, ovverosia – se si preferisce rovesciare i termini della relazione lasciando immutato l’esito della loro mutua composizione – il valore è quello dell’autonomia nella unità. L’autonomia, d’altronde, presuppone l’unità, la sua piena ed integra salvaguardia, non già ammette il suo superamento, nel qual ultimo caso l’ente autonomo non sarebbe più tale bensì si porrebbe come sovrano, rivendicando il riconoscimento di siffatta sua qualità da parte degli enti restanti (segnatamente, in seno alla Comunità internazionale).
L’unità, di contro, potrebbe astrattamente immaginarsi senza l’autonomia, secondo quanto – come si sa – si è storicamente realizzato anche nel nostro ordinamento, al tempo in cui l’autonomia regionale non aveva avuto modo di affermarsi. A stare però all’ordine costituzionale fondato dalla Carta repubblicana, una unità orfana dell’autonomia non sarebbe concepibile.
Si tratta – è appena il caso qui di rammentare – non già di un dato bensì di un processo e di una tendenza: non di qualcosa di bell’e fatto, che richiede unicamente di essere custodito e trasmesso anche alle generazioni che verranno, non di un essere ma di un divenire, di un quid che è in continua evoluzione e che tende appunto alla sua realizzazione, in forme continuamente rinnovate ed adeguate alle pretese crescenti della loro affermazione, siccome coessenziali all’idea stessa di “valore” costituzionalmente riconosciuto.
Si vedrà meglio più avanti che il valore – possiamo ora dire – di unità-autonomia esprime anche il verso della propria ottimale realizzazione o, meglio, riceve dai valori restanti, coi quali fa “sistema”, l’indicazione del verso stesso, specie dai valori di libertà ed eguaglianza, nelle loro mutue ed inscindibili implicazioni: la coppia assiologica fondamentale che dà un senso all’intero ordine positivo venuto ad esistenza con l’avvento della Repubblica e, per ciò pure, ai restanti valori fondamentali enunciati nella Carta.
Il principio di cui all’art. 5, insomma, si capisce ed apprezza nella sua stessa essenza solo attraverso il suo riporto ai principi di cui agli artt. 2 e 3, al punto che ciascun principio resta incomprensibile, siccome privo di reale autonomia concettuale ed operativa, se atomisticamente considerato. L’integrazione, non già la separazione, è, insomma, la “logica” dei principi, ciò che ne fa la ratio immanente e che ne governa le movenze e i complessivi svolgimenti storico-concreti.
La Repubblica, dunque, è (e resta) “una ed indivisibile” non già per il mero fatto della integrità del territorio nazionale e della sovranità che in esso si esercita bensì anche (e soprattutto) per il fatto che il patrimonio dei diritti fondamentali e dei doveri inderogabili dei cittadini che compongono la Repubblica stessa si presenta identico a sé ovunque questi abbiano deciso di stabilirsi e di vivere le loro umane esperienze e non vengano pertanto discriminati in relazione alle opportunità loro offerte di godimento del patrimonio stesso.
Così stando le cose, la riforma costituzionale si giustifica unicamente al ricorrere di una duplice condizione: che risulti ormai provata l’inadeguatezza delle disposizioni organizzative del Titolo V (e di altri Titoli ancora) a servire al meglio, per effetto di sopravvenute condizioni di contesto non più confrontabili con quelle presenti al tempo della vicenda costituente, il valore di unità-autonomia, nel suo fare “sistema” coi valori fondamentali restanti, e che, allo stesso tempo, si dimostri (o, meglio, vi sia la fondata aspettativa) che le nuove disposizioni proposte possano offrire un ancòra più adeguato servizio al valore stesso. Cautela infatti impone che si discorra di un’aspettativa di miglior servizio, per il fatto che gli enunciati costituzionali, a motivo della loro naturale stringatezza ed (ora maggiore ora minore) ambiguità concettuale, si aprono a forme plurime e non di rado imprevedibili di svolgimento positivo e radicamento nell’esperienza, dimostrandosi non di rado inidonei ad opporre un’adeguata resistenza alle loro manipolazioni e complessive torsioni nell’esperienza stessa. Le quali, poi, possono aversi praticamente per mano di tutti: dei decisori politico-istituzionali così come degli stessi massimi garanti della legalità costituzionale (e, segnatamente, della Corte costituzionale) che – secondo un diffuso rilievo – si trovano alle volte costretti a “riscrivere” il dettato della Carta (un’esperienza, questa, di cui si sono avute ripetute e lampanti testimonianze proprio con riguardo al Titolo V), nel tentativo di porre riparo almeno ad alcune delle sue più vistose carenze e contraddizioni.
Non basta, dunque, che appaia non più adeguata l’originaria formulazione della legge fondamentale della Repubblica; di più, occorre che sembrino ancora meglio fatte le disposizioni volte a prendere il posto delle vecchie. Insomma, ha sempre da farsi una ponderazione tra vecchio e nuovo e vedere dove maggiormente pende la bilancia. Ciò che è assai più complicato e problematico di quanto a tutta prima non sembri, ove si convenga – come, a mia opinione, devesi convenire – a riguardo della vistosa esiguità di idee costituzionali ovvero della imperante confusione esistente circa il modo con cui armonicamente legare in un quadro organico le varie soluzioni organizzative proposte per questo o quel punto della trama costituzionale.
Se ne ha che il parametro alla cui luce può essere apprezzat
a la bontà dei progetti di riforma è duplice, normativo e fattuale assieme: un parametro che discende dall’alto (dai valori fondamentali) e ascende dal basso (dall’esperienza, per come fin qui maturata e consente di misurare il “tasso” d’inveramento dei valori stessi). O, per dir meglio, il parametro è pur sempre uno: per ciò che qui specificamente importa, è dato dal principio di unità-autonomia (in rapporto ai principi restanti coi quali fa “sistema”), nella cui struttura costitutiva tuttavia s’immettono elementi attinti dall’esperienza, nelle sue più salienti espressioni.
Un parametro, dunque, bisognoso di essere riguardato col metro della ragionevolezza: la tecnica o lo strumento che dà modo di filtrare i progetti di riforma, nell’intento di stabilire se (e fino a che punto) essi effettivamente si volgano verso il fine costituzionale (il valore di unità-autonomia), in considerazione del contesto entro cui sono destinati ad operare.
Ora, ciò che subito balza agli occhi, riconsiderando dall’angolo visuale qui adottato le proposte di riforma in circolazione (e, tra queste, da ultimo e principalmente la relazione della Commissione per le riforme costituzionali ed elettorali licenziata nel settembre scorso), è che non sembra che si sia fatto appieno tesoro del complessivo andamento della vicenda regionale, al fine di porre rimedio almeno ad alcuni tra i più vistosi e pressoché universalmente riconosciuti guasti nel corso del suo svolgimento riscontratisi.
La domanda cruciale che ci si deve porre è la seguente: quale è la cifra identificante che connota le proposte in parola, in vista del complessivo riequilibrio interno ad unità ed autonomia? Il che vale come dire: sono davvero adeguate tali proposte allo scopo che ne giustifica l’adozione?
2. La doppia “anima” della progettazione in cantiere, l’una volta al riaccentramento di materie e funzioni e l’altra alla pur parziale promozione dell’autonomia
Una doppia “anima” sembra esservi nella progettazione in corso, avuto specifico riguardo agli esiti del lavoro svolto dalla Commissione dei “saggi” istituita dal Governo Letta: l’una vorrebbe orientata la vicenda regionale, nei suoi prossimi e più salienti sviluppi, verso un marcato riaccentramento di materie e funzioni in capo allo Stato; l’altra, invece, promossa l’autonomia, specie in alcune delle sue manifestazioni riportabili al c.d. “regionalismo cooperativo”, come usa (sia pure con una certa approssimazione ed ambiguità) chiamarlo. Una promozione, tuttavia, come si vedrà, solo parziale, bisognosa di essere comunque opportunamente precisata e corretta in talune delle sue forme maggiormente espressive.
Tendenza al riaccentramento e tendenza alla valorizzazione dell’autonomia non necessariamente si escludono o entrano in reciproca contraddizione. Nulla infatti esclude in partenza che, per segmenti diversi del nuovo articolato costituzionale, possa aversi bisogno sia dell’una che dell’altra cosa, se realizzate nel modo ed al posto giusto.
Ciò che, a mio modo di vedere, più colpisce, ad una prima lettura della relazione licenziata dalla Commissione suddetta, non è tanto ciò che c’è di nuovo, quanto ciò che non c’è e che invece avrebbe dovuto esservi.
Elenco con la massima rapidità le più rilevanti di siffatte mancanze.
2.1. Le (non rosee) prospettive che si prefigurano per la specialità e la (inopinata) rimozione del modulo di “specializzazione” dell’autonomia previsto dall’art. 116, ult. c., con la conseguente, negativa incidenza che potrebbe aversene a carico dei diritti fondamentali
Innanzi tutto, è da chiedersi se abbia senso mantenere così com’è l’articolazione dell’autonomia nelle due specie della specialità e della ordinarietà.
Volgendo lo sguardo verso l’esperienza, balza subito agli occhi la divaricazione esistente tra quest’ultima e il modello costituzionale, a motivo delle numerose ed inequivoche testimonianze da essa offerte a riguardo dell’appiattimento tra le specie suddette e persino del capovolgimento del modello su se stesso, le Regioni ad autonomia differenziata essendosi – come si sa – trovate obbligate a rincorrere le Regioni di diritto comune nell’intento di acquisire per sé, in applicazione della clausola di maggior favore di cui all’art. 10 della legge costituzionale di riforma del 2001, le più favorevoli condizioni di autonomia riconosciute dal Titolo V novellato. Un esito, questo della omologazione tra le due specie di autonomia, alla cui affermazione ha – come si sa – dato un fattivo concorso la giurisprudenza costituzionale: quasi che – verrebbe da dire – l’articolazione dell’autonomia nelle specie stesse fosse ab initio “sbagliata” (o, comunque, lo sia divenuta col tempo), siccome inadeguata a realizzare la sintesi ottimale, alle condizioni oggettive di contesto, tra le istanze di unità e quelle di autonomia, sì da essere appunto bisognosa di essere fin dove possibile “corretta”.
Qui è il cuore della questione. Occorre infatti chiedersi se abbia senso (e, se sì, in che misura) tener fermo il regime duale e, ancora, nel caso che esso si reputi bisognoso di correttivi, se meriti di essere revisionato, a mezzo di una nuova e più adeguata razionalizzazione costituzionale, il dettato positivo ovvero se non si debbano piuttosto raddrizzare le pratiche (normative e giurisprudenziali) da esso discoste.
Ora, senza escludere che a tutt’oggi perdurino peculiari esigenze che giustificano un parimenti peculiare trattamento positivo (e mi riferisco, in particolare, alle Regioni bilingui di confine e ad alcuni aspetti della loro autonomia), è assai arduo argomentare la tesi che la specialità così com’è seguiti a costituire la risposta giusta (se mai l’ha costituita…) in relazione a taluni bisogni emergenti da un contesto oggi assai diverso da quello esistente ai tempi della Costituente. Forse, le maggiori novità al riguardo si registrano proprio nella Regione nella quale sono nato ed opero, la Sicilia, nella quale la spinta separatista, cui – come si sa – si è dovuta la nascita dello statuto, si è praticamente esaurita, mentre – come si sa – ha preso piede, in forme peraltro alquanto confuse ed improvvisate, in alcune Regioni del Nord del Paese (e, segnatamente, in Lombardia e Veneto), soggette al regime comune.
Ciò che maggiormente importa è che, nelle sue componenti di ordine economico-sociale, il contesto non autorizza di certo a distinguere in modo netto le cinque Regioni (e le due Province autonome) da tutte le Regioni restanti. Regioni confinanti (ad es., la Sicilia e la Calabria, unite nella c.d. “area dello Stretto”) dalle omogenee condizioni di sviluppo economico-sociale sono, di contro, irragionevolmente, tenute distinte (e distanti) siccome soggette, l’una, ad un regime speciale (ed anzi specialissimo…), e, l’altra, al regime di cui al Titolo V della Carta. Allo stesso modo, all’uguale regime da quest’ultimo previsto vanno soggette Regioni assai diverse per il sostrato economico-sociale sul quale poggia (o, meglio, dovrebbe poggiare) la loro autonomia (fin troppo facile, persino banale, al riguardo l’esempio delle Regioni meridionali e di quelle settentrionali).
Insomma, c’è una complessiva irragionevolezza del “sistema” (se così vogliamo, con molta generosità e improprietà, chiamarlo), assimilandosi il trattamento di ciò che piuttosto richiederebbe una differenziazione e distinguendosi quello di ciò che meriterebbe una disciplina uniforme.
Qui, il discorso dovrebbe allungarsi fino a comprendere la stessa revisione dei confini territoriali delle Regioni (e del loro numero, verosimilmente nel segno della riduzione); non ne dirò, tuttavia, per senso pratico, siccome persuaso del fatto che non si danno oggi, così come non v’erano in passato, le condizioni per realizzare un sì ambizioso disegno. Mi limito, dunque, solo a rinnovare qui pure il mio convincimento, da tempo già manifestato, per un modello di specialità diffusa, quale il più adeguato all’appagamento dei peculiari bisogni emergenti nei vari territori di cui si compone la Repubblica.
Si può tuttavia obiettare che il discorso che si va ora facendo pecca di evidente astrattismo, non dandosi nel nostro ordinamento le condizioni per la realizzazione del modello al quale va la mia convinta preferenza. Non a caso, la sua pallida e parzialissima rappresentazione risultante dall’ultimo comma dell’art. 116 non ha avuto alcun riscontro nell’esperienza, dal momento che solo poche Regioni hanno pensato di avvalersi dello strumento previsto dal disposto costituzionale suddetto, abbandonando tuttavia ben presto l’iniziativa al riguardo adottata, non ricevendo una congrua ed appagante risposta da parte dello Stato. Sta di fatto che non è stata sfruttata l’opportunità offerta dal dettato costituzionale, così come novellato nel 2001, al fine di far crescere l’autonomia, portandola oltre la soglia fissata in Costituzione in modo eguale per tutte le Regioni di diritto comune. La qual cosa induce ad una seria e disincantata riflessione circa la condizione complessiva dell’autonomia stessa e le sue concrete prospettive di affermazione, al servizio dei bisogni più diffusamente avvertiti (e, dunque, dei diritti fondamentali).
Qual è la reazione dei “saggi” davanti a questo stato di cose? Non già quella di predisporre le soluzioni più congrue allo scopo di recuperare il senso genuino dell’art. 116 ovvero di correggerne il dettato in vista della crescita dell’autonomia bensì l’altra, opposta, di cancellarlo puramente e semplicemente dalla lavagna costituzionale, assecondando in tal modo la tendenza ormai radicata nel segno di un incolore, inespressivo ed infecondo appiattimento dell’autonomia.
Non ha pregio alcuno, a mio modo di vedere, la soluzione alternativa proposta a compenso di siffatta perdita e volta alla previsione di un potere di delega da parte dello Stato alle Regioni (a tutte ovvero solo ad alcune) dell’esercizio della funzione legislativa nelle materie di spettanza dello Stato stesso.
In disparte ogni riserva che dovesse aversi a riguardo della possibilità del ricorso alla delega unicamente a beneficio di alcune Regioni (specie per l’aspetto della eguaglianza del trattamento, una eguaglianza tuttavia che non si esclude possa talvolta richiedere proprio siffatto carattere particolare della delega), ciò che giova qui mettere in chiaro è che la delega non comporta la traslazione della titolarità della disciplina, mentre la “specializzazione”, nelle forme previste dal vigente art. 116, si traduce in una deroga al quadro costituzionale delle competenze, vale a dire in una “regionalizzazione” optimo iure delle (troppo poche) materie che ne sono oggetto.
La perdita secca per i diritti fondamentali – per ciò che ora maggiormente importa, dall’angolo visuale dal quale qui si riguarda alla vicenda regionale ed alle riforme che dovrebbero diversamente orientarne i prossimi sviluppi all’insegna del valore di unità-autonomia – che ci si attende, già per il sol fatto della rimozione dello strumento previsto dall’art. 116, mi parrebbe innegabile. Appiattire l’autonomia, nelle sue possibili, più salienti manifestazioni, equivale – come si viene dicendo – a spegnerne le
aspettative in vista dell’ottimale, differenziato appagamento dei peculiari bisogni emergenti dai territori di cui si compone la Repubblica. Appiattire l’autonomia, insomma, equivale a farne contrarre gli spazi e, per ciò stesso, a svilirne le capacità di espressione.
2.2. L’endemico disordine delle fonti, con specifico riguardo ai rapporti tra le leggi di Stato e Regione, oscillanti tra il modello della separazione e quello della integrazione delle competenze, e il bisogno di fare finalmente chiarezza nella Carta novellata per ciò che attiene alla operatività dei criteri che presiedono alla composizione delle fonti in sistema
Numerose e vistose carenze si registrano poi nella progettazione in corso a riguardo del modo cui le fonti si compongono in sistema, a tutti i livelli istituzionali in cui prende corpo la produzione giuridica e in ciascuna delle sue forme espressive.
Particolarmente grave appare essere questo stato di cose al piano dei rapporti con l’Unione europea e la Comunità internazionale; ma di ciò preferisco dire in conclusione di questa riflessione, dove saranno meglio chiare le ragioni che consigliano siffatta posposizione.
Stupisce che non si sia pensato, dopo le infinite discussioni avutesi tra gli studiosi e le numerose e tuttora parimenti non finite oscillazioni esibite dalla giurisprudenza, di stabilire una buona volta nella Carta novellata quale sia la natura dei rapporti tra le fonti di Stato e Regione, per un verso, e tra le fonti regionali e quelle di autonomia infraregionale, per un altro verso. Una questione che – come si sa – si è posta con particolare gravità con riguardo alle leggi dei due enti, i cui rapporti non si è mai ben capito se vadano spiegati alla luce del criterio di separazione ovvero di quello d’integrazione (e, perciò, se possa tra di esse aversi, e se sì a quali condizioni ed entro quali limiti, abrogazione). Ho già più volte fatto notare come davanti a questo stato di cose, che è motivo di sensibile disorientamento e di non poca preoccupazione, mi parrebbe opportuno che si faccia finalmente chiarezza; e il luogo giusto per farlo è proprio la Carta opportunamente novellata, ricongiungendosi così la forma alla materia costituzionale per effetto di una disciplina della seconda a mezzo di atti adottati con le procedure stabilite nell’art. 138, in linea peraltro con una preziosa indicazione di una recente giurisprudenza, tuttavia ad oggi rimasta senza seguito.
Il sistema delle fonti – si è da tempo fatto notare – ha assai poco di… sistematico e richiede urgenti e corposi interventi, praticamente in ogni sua parte. Limitatamente al campo di esperienza ai nostri fini rilevante, quella dei rapporti tra le leggi non è la sola questione bisognosa di chiarificazione, pur essendo con ogni probabilità la più rilevante. Si tratta altresì di stabilire quale sia la vera natura delle relazioni tra statuto regionale e leggi, sia statali che regionali (ed è appena il caso qui di rammentare quanto rilevante sia il significato che la messa a punto dei rapporti in parola riveste al fine della salvaguardia dell’autonomia nelle sue proiezioni al piano organizzativo, segnatamente della definizione della forma di governo e della stessa “forma di Regione”, siccome riferita ai rapporti tra comunità governata ed apparato governante); e poi ancora è da decidere come si vuole che si atteggino le relazioni tra le leggi (statali e regionali) e i regolamenti, se sia, o no, opportuno far luogo alla “invenzione” di nuovi tipi di fonti (ad es., di atti regionali con forza di legge), e via dicendo.
Al fondo, si tratta – come sempre – di stabilire quale idea si abbia della Costituzione e quale “uso” dunque se ne voglia fare. E, invero, forse non si è riflettuto abbastanza a riguardo del fatto che rimettere la definizione dei criteri ordinatori (specie nella loro operatività al piano primario della scala delle fonti) a mutevoli, continuamente cangianti, operazioni di ordine ricostruttivo, in buona sostanza, si traduce nel primato della politica sul diritto costituzionale, non già – come invece dovrebbe essere – del secondo sulla prima, restituendosi alla Costituzione la sua vera e genuina funzione di limite al potere, al servizio dei valori fondamentali dell’ordinamento, a partire da quello che vuole riconosciuti, e perciò effettivamente salvaguardati, i diritti inviolabili dell’uomo.
Non dà consolazione alcuna il sapere che siffatta definizione è, in ultima istanza, rimessa al massimo garante della legalità costituzionale, quale “arbitro” dei conflitti legislativi (e non) tra Stato e Regioni (e, in via di principio, tra Regioni). Non consola, dal momento che, una volta che la Carta costituzionale sia, a conti fatti, vista come “muta” o, come che sia, scarsamente espressiva, per il solo fatto che le relazioni internormative si considerano governate ora dal canone della separazione ed ora da quello della integrazione, il rischio che quotidianamente si corre è che alla decisione politico-normativa oggetto di sindacato si sovrapponga un’altra decisione, essa pure politica, frutto d’insindacabile scelta del giudice costituzionale. Ecco perché dietro lo squilibrio tra le leggi di Stato e Regione, ad oggi bisognoso di una corposa opera di correzione, va visto l’ancòra più grave e generale squilibrio esistente al piano dei rapporti tra politica e Costituzione. È chiaro che gli interventi volti a porre riparo a questo stato di cose hanno da essere plurimi ed incisivi e riguardare tanto il piano della politica (delle sue dinamiche e dei canoni che ne governano lo svolgimento) quanto quello delle garanzie; prima di ogni cosa, però, come si è venuti dicendo, è urgente far luogo all’opportuno rinvigorimento del dettato costituzionale, ad oggi afflitto da timidezza espressiva, se non pure da vera e propria reticenza: un rinvigorimento che richiede un pur contenuto (conformemente al carattere proprio della trama costituzionale) riempimento del quadro disegnato sulla Carta.
Historia magistra vitae. L’esperienza insegna che il silenzio serbato dalla Costituzione a riguardo del modo con cui le leggi di Stato e Regione si compongono in sistema si è tradotto in una forte penalizzazione dell’autonomia. Forse, quest’esito si sarebbe avuto in ogni caso, anche cioè in presenza di un linguaggio costituzionale maggiormente esplicito, dal momento che davanti alla vigorosa pressione esercitata da un indirizzo politico fermamente orientato nel senso dello schiacciamento dell’autonomia è assai problematico far valere gli strumenti di garanzia, tanto più se l’indirizzo stesso è incoraggiato da sollecitazioni che vengono dall’Unione europea e da impegni di natura internazionale, alle quali non resta per vero insensibile lo stesso giudice delle leggi (e ciò, perlomeno da un certo punto di vista e fino ad un certo punto, si capisce).
Come vado dicendo da tempo, in relazione alle più varie questioni ed esperienze di rilievo costituzionale, la malizia del potere si combatte (anche) con la malizia della Costituzione. Seguito infatti ad essere convinto che almeno alcuni dei guasti diffusamente registratisi nella pratica giuridica, che hanno avuto modo di proiettare la loro immagine anche in seno alla Consulta lasciando un segno non effimero in non poca giurisprudenza, avrebbero potuto essere riparati per il caso che la Carta costituzionale si fosse dotata di una maggiore chiarezza di disposti: se non altro, le forze politico-istituzionali sarebbero state messe con le spalle al muro ed obbligate pertanto ad uscire allo scoperto, volendo puntare all’obiettivo di schiacciare l’autonomia e di contenerne vistosamente gli spazi di espressione.
2.3. Il bisogno di taluni corposi aggiustamenti nei meccanismi di garanzia, segnatamente per ciò che attiene ai controlli sulle leggi di Stato e Regione, all’insegna del principio della “parità delle armi”, e i riflessi che potrebbero aversene nei riguardi del sistema di sindacato in via incidentale (e, perciò, sui diritti fondamentali)
Singolare è poi il silenzio tenuto dalla Commissione per le riforme per ciò che attiene alle garanzie processuali, con specifico riguardo alle impugnazioni delle leggi di Stato e Regione. Nulla infatti si dice in merito al nuovo art. 127; ciò che può far pensare che lo si voglia lasciare così com’è. Con ogni probabilità, non si è voluto metter piede nel campo su cui la Corte costituzionale esercita le competenze ad essa spettanti, campo espressamente sottratto alla cognizione dei “saggi”. Eppure, l’art. in parola fa – come si sa – parte del Titolo V e, dunque, avrebbe potuto costituire oggetto di attenzione da parte dei commissari, così come potrebbe essere riguardato dal processo riformatore.
Ora, l’art. 127, quale uscito dalla revisione fatta nel 2001, pur esibendo alcune sostanziali novità rispetto al dettato originario della Carta maggiormente attente alle esigenze dell’autonomia, si presenta in termini tali da non portare ad un apprezzabile riequilibrio della posizione processuale di Stato e Regione, specificamente per ciò che attiene ai vizi denunziabili, ponendo in tal modo le basi per quella effettiva “parità delle armi” – come l’ha definita una sensibile dottrina – che è finora sostanzialmente mancata. Sennonché, malgrado le nuove formule potessero ugualmente agevolare quest’esito rispettoso dell’autonomia, l’orientamento della giurisprudenza – come pure è noto – è stato di altro segno.
Così stando le cose, non rimane altro da fare, se si ha davvero a cuore di far luogo al riequilibrio in parola, che mettere nero su bianco che nessun discriminato trattamento può aversi tra gli atti legislativi di Stato e Regione per l’aspetto ora considerato. Poi, si può discutere se il livellamento lo si vuole all’alto, abilitandosi le Regioni ad impugnare le leggi statali anche al di fuori del caso che ne sia incisa la sfera di competenze (e già, invero, si ha qualche timido segno in questa direzione, segnatamente per ciò che concerne i ricorsi regionali a tutela dell’autonomia infraregionale), ovvero al basso, dandosi modo allo Stato di adire la Corte unicamente a presidio della propria sfera di competenze invasa dalle leggi regionali.
La prima soluzione parrebbe essere ancora più “garantista” e, dunque, maggiormente idonea a mettere i diritti fondamentali al riparo da loro eventuali incisioni; la seconda soluzione, di contro, sembra consigliata anche alla luce del bisogno di allargare gli spazi, fattisi col tempo sempre più ridotti e praticamente asfittici, entro cui può spiegarsi il sindacato sulle leggi in via incidentale. D’altro canto, seppure non sia da escludere in partenza che i diritti possano essere (perlomeno in talune circostanze ed in relazione ad alcune specie di leggi) ancora meglio preservati da ricorsi in via diretta, a ridosso dell’adozione degli atti legislativi ed allo scopo di prevenire la produzione ed il radicamento di effetti incostituzionali da essi discendenti, è ugualmente da tener ferma l’idea per cui è solo in occasione dell’applicazione delle leggi ai casi (e, perciò, alla luce delle esigenze che in essi si manifestano in modi continuamente cangianti ed assai di frequente imprevedibili al momento della confezione delle leggi) che può adeguatamente valutarsi l’impatto degli atti di normazione sui diritti fondamentali (e, in genere, sulle posizioni soggettive).
Ciò che solo conta è che lo stato di cose ormai invalso non può essere ulteriormente tollerato; e la nuova razionalizzazione costituzionale non può, dunque, sgravarsi dell’onere di dare il suo contributo ad un esito volto a ridurre la forbice che tiene innaturalmente distante la parte organizzativa della Carta dai valori fondamentali (e, segnatamente, dal valore di cui all’art. 5).
2.4. La mancata ricerca di soluzioni organizzative originali in ambito regionale, in vista di un adeguato servizio da apprestare ai diritti fondamentali
Nessuna novità, poi, si prefigura al piano dell’organizzazione in ambito regionale, in particolare nulla si dice a riguardo della possibile riscrittura dell’art. 123, come pure degli altri enunciati relativi alla forma di governo regionale. Un solo, estremamente labile e palesemente insufficiente, cenno figura nella relazione dei “saggi” circa la possibilità di emendare il simul simul, temperandone talune asprezze attraverso la previsione secondo cui dovrebbero restare esclusi dalle cause di scioglimento automatico del Consiglio regionale la morte e l’impedimento permanente del Presidente della Giunta.
Tra i molti punti sui quali gioverebbe fermare l’attenzione, mi limito a segnalarne solo un paio, ai quali – come di consueto – riservo adesso unicamente alcune rapide notazioni.
Il primo rimanda ad una questione che si prenderà in esame a breve, con specifico riferimento alla ristrutturazione della seconda Camera. La mia preferenza, già in altri luoghi manifestata, è per una graduale integrazione tra i livelli istituzionali: alle sole Regioni dovrebbe infatti essere offerta l’opportunità d’immettersi nella struttura del Senato (con esclusione, dunque, della rappresentanza degli enti infraregionali e, segnatamente, dei Comuni), mentre ai Comuni ed agli altri enti territoriali minori dovrebbe esser dato di partecipare unicamente alla struttura delle assemblee legislative regionali, allo scopo trasformate in organi bicamerali.
Non è inopportuno osservare che, anche per il caso che nella seconda Camera dello Stato dovesse essere assicurata la rappresentanza delle minori autonomie territoriali (ciò che, ad ogni buon conto, non vedo di buon occhio, temendo che possano aversene spinte corporativistiche laceranti e pregiudizievoli per il fisiologico svolgimento delle attività parlamentari), la soluzione sopra patrocinata per il livello regionale non dovrebbe ad ogni buon conto considerarsi assorbita da quella prefigurata per il livello statale, trattandosi di piani istituzionali diversi, ai quali rilevano interessi parimenti diversi e, come tali, bisognosi di essere presi in cura da soggetti ancora diversi.
Il secondo punto è, forse, ancora più del primo meritevole di considerazione, specie dalla prospettiva dalla quale qui si prende in esame la progettazione delle future riforme.
Mi riferisco in ispecie alla “forma di Regione”, nell’accezione sopra succintamente richiamata che la vuole caratterizzata dai rapporti tra comunità governata ed apparato governante.
Ora, è fin troppo noto che, al di là delle altisonanti affermazioni contenute negli statuti (nei nuovi così come già nei vecchi) a riguardo della partecipazione della comunità regionale all’esercizio dei poteri di governo, assai esigue (e, in qualche caso, francamente sconfortanti) sono state le realizzazioni avutesi, con grave pregiudizio, a un tempo, per il valore democratico, in alcune delle sue più salienti espressioni, e per i diritti fondamentali in genere, specie in campo economico-sociale. Un pregiudizio che è comprovato dal fatto che i diritti stessi avrebbero potuto avere ben altro trattamento qualora gli atti adottati che li riguardano fossero venuti alla luce col fattivo concorso degli stessi soggetti che ne sono titolari, specie per il tramite delle organizzazioni sociali in cui essi si riuniscono, organizzazioni cui fin qui non è stata offerta, se non in assai ridotta misura, l’opportunità di raccordarsi con l’apparato, rappresentando in modo diretto le istanze di cui sono portatrici.
A mia opinione, la Carta opportunamente novellata può, ancora prima degli atti di autonomia (a partire dagli statuti), fare molto a questo scopo. Si tratta solo di stabilire se v’è una effettiva volontà in tal senso (della qual cosa invero è lecito dubitare, sol che si consideri la refrattarietà delle forze politiche – al di là dei buoni propositi dichiarati – a condividere poteri e responsabilità con altre formazioni sociali) e, ammesso che la volontà vi sia, se si ha sufficiente chiarezza di idee circa le soluzioni organizzative più acconce alla realizzazione dell’obiettivo.
Il discorso dovrebbe a questo punto distendersi sopra campi materiali in questa sede non coltivabili, prefigurandosi talune soluzioni che, oltre che nella Carta e negli statuti, richiedono di trovare posto in altri atti ancora (e, tra questi, principalmente i regolamenti consiliari); e dovrebbe aprirsi alla considerazione non soltanto dei profili strutturali, quale quello sopra accennato riguardante la composizione delle assemblee elettive, ma anche di quelli funzionali, con specifica attenzione ai procedimenti di produzione giuridica, bisognosi di essere complessivamente rimessi a punto. Si tratta, infatti, di pensare alle soluzioni organizzative più adeguate allo scopo di assicurare, per un verso, una fattiva, “leale” cooperazione tra gli organi di governo della Regione, rendendo ancora più intense ed equilibrate le relazioni che tra di essi s’intrattengono, nonché tra gli organi stessi e quelli esponenziali degli enti infraregionali (specie per il caso che dovesse restare senza seguito la proposta qui affacciata volta a fare delle assemblee regionali degli organi bicamerali). Per un altro (e, forse, ancora più importante) verso, si tratta di aprire i procedimenti di produzione giuridica alla società civile, colmando così il solco che tiene ad oggi innaturalmente distante la società stessa dall’apparato di governo della Regione, fra i quali non c’è ormai più (se mai v’è stata…) “comunicazione”, siccome parlanti lingue diverse.
Non si tratta – sia chiaro – di appesantire oltre misura procedimenti che già al presente appaiono fortemente inceppati, per cause nondimeno che si fanno più riportare al sistema politico che a carenze o torsioni dei meccanismi normativamente previsti. Va piuttosto assicurata, perlomeno in una certa misura, una “democratizzazione” degli ordinamenti regionali che, seppur pomposamente enunciata nelle carte statutarie, è tuttavia fin qui rimasta scarsamente tangibile (in realtà, la notazione possiede una generale valenza e può dunque, con le dovute precisazioni, estendersi ad ogni livello istituzionale, da quello statale a quelli infraregionali, senza che nondimeno se ne possa ora dire al di là del fugace cenno appena fatto). E così, per fare solo un esempio, potrebbe prevedersi che i disegni di legge d’iniziativa giuntale si trovino obbligati – perlomeno con riguardo a talune materie – a passare prima della loro presentazione da sedi idonee a dar voce ai soggetti esponenziali della comunità organizzata, quanto meno per una consultazione, la quale poi dovrebbe, ad ogni buon conto, essere assicurata anche presso le assemblee elettive (ma molte altre possono, com’è chiaro, essere le soluzioni allo scopo prefigurabili). In tal modo, potrebbero rendersi, in un sol colpo, più salde le relazioni sia tra gli organi della direzione politica che (e soprattutto) tra l’apparato in genere e la comunità organizzata.
Per l’aspetto ora considerato, la Carta novellata potrebbe – per dir così – mettere in mora i legislatori regionali (già per ciò che concerne la disciplina degli statuti e, quindi, la disciplina degli atti adottati in svolgimento di questi, a partire dai regolamenti consiliari), sollecitandoli ad uno sforzo di progettazione normativa idoneo alle pretese crescenti di una partecipazione rimasta sostanzialmente inappagata, quali che ne siano poi le forme e le sedi istituzionali nelle quali essa può aver modo di affermarsi.
3. Il ritorno al centro di alcune materie, dapprima demandate alla disciplina regionale, e la previsione, in termini sommamente ambigui e preoccupanti, della clausola di supremazia, che potrebbe dar modo di attrarre, in buona sostanza, all’area di competenza dello Stato tutto quanto attiene alla cura dei diritti fondamentali
Si diceva che nella progettazione in corso si hanno tanto proposte volte al riaccentramento quanto proposte nel segno della promozione dell’autonomia.
Una delle più visibili testimonianze della prima tendenza è data dal ritorno di alcune materie allo Stato dopo la loro (in qualche caso, a dire il vero, inopinata) devoluzione alle Regioni ad opera della legge di revisione del 2001 (note ed ampiamente segnalate alcune sviste commesse in sede di redazione degli elenchi contenuti nell’art. 117).
Ora, è fuor di dubbio che la scrittura costituzionale ha pur sempre un suo innegabile rilievo, che non merita di essere comunque sottovalutato; e, tuttavia, gli argini eretti dalle etichette sono – come si sa – assai bassi, agevolmente scavalcabili da parte tanto dei decisori politici quanto del garante ultimo della legalità costituzionale. Vi sono – è ormai acclarato – limiti intrinseci cui va soggetto il sistema del riparto per nomina, di cui l’esperienza ha dato sì numerose e convergenti testimonianze da non richiedersi che si faccia altra parola a conferma di quest’assunto. Il vero riparto – come pure è noto – è secondo la cangiante natura degli interessi, la loro mobile qualificazione sotto la spinta di vari fattori, tutti – quale più quale meno – riferibili al contesto. La qual cosa poi, a conti fatti, conduce ancora una volta all’esito per cui la politica (sia quella in senso stretto di cui si fanno portatori i partiti e le altre forze sociali organizzate e sia pure la “politica” di bonifica costituzionale, quale prende corpo per mano dei garanti) può trovare il modo per affermarsi a discapito del diritto costituzionale, tanto più laddove quest’ultimo esibisca vistose carenze di linguaggio, rese palesi dalla vaghezza concettuale degli enunciati iscritti nella Carta.
Tutto ciò posto, è ugualmente vero che del sistema delle etichette non si riesce – a quanto pare – a fare a meno: si sa che non è un buon sistema ma non si è riusciti ad inventarne uno diverso e migliore. Ed è appena il caso qui di segnalare di passaggio che rischia di peggiorare uno stato di cose già di per sé precario l’accoglimento di una proposta, che nondimeno non sembra goda da noi particolari favori, secondo cui la indicazione dei campi materiali rimessi alla coltivazione di questo o quell’ente (o congiuntamente di entrambi) dovrebbe aversi a mezzo di formule assai estese e minute, persino di estremo dettaglio, così come peraltro si ha (ma assai di rado) presso altri ordinamenti, allo scopo appunto di contenere fin dove possibile, se non pure di eliminare del tutto, quelle manipolazioni di dettato di cui – come si rammentava – si sono avute (e si hanno) continue testimonianze. È evidente infatti – così perlomeno a me pare – che se ne avrebbe un irrigidimento assai difficilmente tollerabile e conciliabile con quella mutevole natura degli interessi che – piaccia o no – costituisce il punto costante di riferimento sia della produzione normativa che dell’attività di controllo sulla stessa.
Ora, è risaputo che il riparto per etichette finisce il più delle volte col risolversi a vantaggio del soggetto forte del rapporto, lo Stato. La sofferenza della Costituzione e la sua scarsa capacità di resistere agli assalti di una politica smaliziata ed incalzante ha un indice privilegiato che ne attesta e – per dir così – ne misura la consistenza; ed è appunto quello che dà modo di vedere quante quote di potere siano, in un modo o nell’altro, riportate dalla periferia al centro. Per l’aspetto adesso considerato, dunque, la progettazione in corso non fa altro che mettere nero su bianco ciò che è già “diritto vivente”; anzi, forse presenta carattere riduttivo rispetto a quest’ultimo, nel senso che non ne dà una compiuta e in tutto fedele rappresentazione.
La riforma in cantiere non va, perciò, per l’aspetto in parola, oltre misura sovraccaricata di valenze ovvero drammatizzata. D’altronde, qualunque cosa nella futura legge di revisione dovesse sul punto dirsi, avrebbe pur sempre valore relativo e quodammodo condizionato, dal momento che – come si diceva – è al piano degli interessi che si gioca poi la partita, seppur col costo assai elevato di riscrivere secondo occasionali convenienze le stesse regole del gioco.
Ad aggravare, poi, questo già di per sé precario stato di cose è la circostanza per cui al previsto ritorno al centro di materie (o porzioni di materie) dapprima demandate alle Regioni si aggiunge l’ulteriore previsione della clausola di supremazia a beneficio dello Stato, in termini peraltro talmente laconici ed ambigui da far pensare che possa aversene un utilizzo di certo assai poco confortante per le aspettative dell’autonomia.
Secondo la proposta avanzata dai “saggi”, la clausola in parola potrebbe, infatti, essere attivata ogni qual volta “lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o economica, la realizzazione di programmi di interesse nazionale e le grandi riforme economico-sociali”. Non v’è chi non veda la somma vaghezza concettuale della formula in discorso, in seno alla quale è assai arduo e problematico stabilire in cosa effettivamente si distinguano tra di loro i fattori giustificativi dell’attivazione della clausola, uno dei quali presenta una evidente (in altro scritto, mi è venuto di dire: malinconica) assonanza con uno dei limiti della vecchia potestà legislativa primaria delle Regioni a regime differenziato. Una formula – per ciò che più da vicino riguarda questo studio – che fa poi correre il rischio concreto, ove dovesse aversene appunto un uso non vigilato, che tutto quanto attiene alla salvaguardia dei diritti fondamentali possa, in buona sostanza, essere ritagliato dalla sfera dell’autonomia ed attratto alla esclusiva ed omnipervasiva disciplina dello Stato (non più, dunque, come invece dovrebbe essere, circoscritta alla mera fissazione dei “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti). Tanto più che – ahimè – non è dato sapere a mezzo di quali procedure la clausola suddetta sarà attivata: un silenzio, questo, assordante e palesemente stonato – si è fatto notare da un’autorevole dottrina, in relazione ad analoga previsione presente nel disegno Monti – rispetto alla indicazione data da Corte cost. n. 303 del 2003 a riguardo delle condizioni e dei modi con cui possono essere esercitate, in spirito di “leale cooperazione”, la attività “sussidiarie” poste in essere dallo Stato.
Così stando le cose, è però da chiedersi cosa mai possa restare a dare significato all’autonomia stessa.
Qui è il cuore della questione oggi nuovamente discussa, sulla quale non mi stancherò di invitare a fermare l’attenzione. Perché – come si viene dicendo – o l’autonomia è messa in grado di farsi servizio nei riguardi di taluni dei più avvertiti bisogni elementari dell’uomo (e, perciò, dei diritti fondamentali che vi danno voce) oppure semplicemente non è.
È riduttivo (ed anzi fuorviante) guardare alle vicende dell’autonomia, ai rapporti tra le loro più salienti manifestazioni (al piano della normazione, della legislazione, della finanza) e le corrispondenti espressioni della sovranità dello Stato, esclusivamente dalla prospettiva dell’equilibrio di ordine istituzionale che può intrattenersi (ed effettivamente si intrattiene) tra lo Stato stesso e la Regione. Non si tratta solo di ricercare soluzioni mediane e complessivamente appaganti tra le due “anime” del valore riconosciuto nell’art. 5, quella di unità e quella di autonomia; si tratta di stabilire qual è il sostrato assiologico-sostanziale su cui esso si regge. Si tratta cioè di ve
rificare quale possa essere il modo migliore, alle condizioni oggettive di contesto, per appagare, attraverso l’equilibrio suddetto, i diritti fondamentali nel loro fare “sistema” coi valori fondamentali restanti.
Si coglie così quel rapporto di strumentalità necessaria che, come si diceva, viene a stabilirsi tra il principio enunciato nell’art. 5 e i principi che compongono la coppia assiologica fondamentale di cui agli artt. 2 e 3.
Questo è il punto primo al quale occorre far capo in sede di valutazione dei progetti di riforma, allo scopo di verificare qual è il loro senso complessivo, l’aspettativa che per il loro tramite si può nutrire circa l’innalzamento delle condizioni di salvaguardia dei bisogni più diffusamente ed intensamente avvertiti in seno alla comunità.
Detto più semplicemente, l’autonomia è effettivamente, in tangibile misura, promossa non per il mero fatto che assai estesi risultano essere gli ambiti materiali su cui essa è in grado di spiegarsi con le leggi e gli altri atti che vi danno voce, ma lo è se è messa davvero in grado di offrire il proprio fattivo concorso alla salvaguardia dei diritti fondamentali, portandosi oltre i “livelli essenziali” delle prestazioni cui si riferisce l’art. 117, II c., lett. m).
Il parametro alla cui luce l’autonomia si apprezza è, dunque, quello ex parte societatis, non l’altro ex parte Status; e ciò, in quanto, nella sua intima essenza e più genuina espressione, essa – non mi stancherò di ripetere – è servizio offerto ai bisogni elementari della gente, non già potere (o somma di poteri) che un apparato di governo stanziato su una porzione del territorio nazionale rivendica per la propria affermazione nei riguardi dell’apparato centrale dello Stato.
L’estensione degli ambiti materiali, certo, non è di poco conto ma da sola non basta: è al piano della qualità, non a quello della mera quantità, che si misura l’autonomia, nella sua capacità di distensione sul tessuto sociale e di radicamento nel terreno dal quale affiorano i bisogni più diffusamente avvertiti. Il piano è, dunque, quello dei limiti ai quali essa è obbligata a sottostare, specie per il modo con cui hanno preso corpo nella giurisprudenza costituzionale, in seno alla quale si è – come si sa – fatto un uso massiccio del criterio, oggettivamente ambiguo e potenzialmente foriero di imprevedibili effetti, della prevalenza (al fine di far attrarre una data disciplina alla sfera di competenze di questo o quell’ente), delle materie-“non materie” [e, segnatamente, di quella di cui alla lett. m)] e di quant’altro ha consentito il riporto di quote consistenti di potere dalla periferia al centro.
Ora, siffatta tendenza promette di essere viepiù agevolata dalla progettazione in cantiere, con esiti francamente non in tutto prevedibili ma che, anche in considerazione della crisi economico-finanziaria in corso, sembrano ad ogni buon conto penalizzanti per l’autonomia.
4. Le novità riguardanti la seconda Camera, tanto per ciò che concerne la sua struttura quanto in merito alle funzioni ad essa spettanti ed alla sua relazione (non… fiduciaria) col Governo, e la possibile ricaduta che può aversene al piano della salvaguardia dei diritti fondamentali
Dalla prospettiva qui adottata possono essere riviste sotto la giusta luce le proposte di riforma volte alla riconformazione della struttura e delle funzioni della seconda Camera.
Questo è comunemente considerato il “luogo” adatto per riedificare su basi nuove e più solide la costruzione dell’autonomia.
Dal mio canto, mi sono già da tempo espresso a riguardo del fatto che il modo migliore per rilanciare l’autonomia non è tanto quello di devolvere (o, meglio, di promettere – e poi non mantenere… – future devoluzioni di) crescenti funzioni e materie dal centro alla periferia, quanto quello di portare la periferia nel centro, di farla centro.
Si tratta però di sapere quali soluzioni organizzative meglio di altre si prestino a questo scopo.
Quanto ai profili strutturali, è opportuno – come si diceva – fare del Senato la sede rappresentativa delle sole Regioni, al fine di evitare che possano in esso aversi tensioni continue tra i soggetti portatori delle istanze di autonomia infraregionale e quelli chiamati a farsi carico delle istanze di autonomia regionale (le prime, d’altro canto, come pure si accennava, potrebbero risultare salvaguardate dalla ristrutturazione dei Consigli quali organi bicamerali). Tensioni che potrebbero pesare gravemente sulla funzionalità dell’organo e, perciò, incidere negativamente sul concorso che l’organo è chiamato a dare alla cura del pubblico interesse (e, per ciò che qui specificamente rileva, alla salvaguardia dei diritti fondamentali).
Altra questione, su cui non si può ora indugiare, è come vadano scelti i membri del nuovo Senato, se convenga che siano espressione degli esecutivi regionali (secondo il modello Bundesrat) ovvero se sia meglio farne dei portavoce dei Consigli (e, in tal caso, se vadano scelti esclusivamente all’interno di questi oppure se possano essere anche esterni). Chiaramente, nel caso che dovesse essere al riguardo valorizzato il ruolo delle assemblee, se ne avrebbero immediati riflessi sulla forma di governo regionale, per ciò stesso ridisegnata nei suoi tratti maggiormente espressivi ed identificanti.
Di ciò, non mi pare che invero si abbia la dovuta consapevolezza nella progettazione in cantiere. Si tratta infatti di stabilire se, per il caso che si demandi ai Consigli la scelta dei rappresentanti regionali in Senato, convenga apportare modifiche al dettato dell’art. 123 e, soprattutto, a quelli degli artt. 122 e 126. Se, ad es., dovesse lasciarsi così com’è il meccanismo del simul simul, che ne sarà dei rappresentanti regionali una volta che il Consiglio dovesse (auto)sciogliersi in conseguenza di un voto di sfiducia al Presidente della Regione eletto a suffragio diretto? È ragionevole che si abbia un tale effetto domino? E prima ancora: come va valutata questa operazione di riequilibrio della forma di governo regionale con la quale la centralità di ruolo del Presidente è compensata dal potere consiliare di scelta dei rappresentanti in Senato? È cosa buona o, di contro, è cosa sconveniente, proprio alla luce della posizione detenuta dal Presidente in seno alla trama istituzionale della Regione? E infine. In uno scenario, quale quello ora sommariamente delineato, siamo certi che giovi mantenere il simul simul in Costituzione? O, non piuttosto, sarebbe meglio demandarne l’eventuale adozione alla disciplina statutaria (e, dunque, all’autodeterminazione della Regione)?
A me pare che un supplemento di riflessione su tutte queste questioni sia assolutamente necessario, una volta che si ammetta – come devesi – che la funzionalità ed interna coerenza dei meccanismi istituzionali è condizione dell’appagamento dei bisogni più diffusi ed avvertiti in seno alla comunità.
Ciò che però, forse, ancora di più conta è cosa sarà chiamato a fare il nuovo Senato.
Al riguardo, largamente condivisa è, come si sa, l’idea della differenziazione delle funzioni delle due Camere, che dovrebbe tradursi in una vistosa contrazione del ruolo del Senato quale organo di legislazione, così come nella sua estromissione dal circuito della relazione fiduciaria.
Sul primo punto, le opinioni fin qui espresse non sono tutte tra di loro coincidenti; sul secondo, invece, non mi pare che vi siano voci fuori del coro.
Consiglierei però un approfondimento dello studio, preliminare alla messa a punto dell’articolato di riforma, su entrambe le questioni, alla luce del parametro dietro indicato che induce a ripensare all’equilibrio tra unità ed autonomia dal punto di vista del servizio che per effetto di esso può aversi nei riguardi dei valori di libertà ed eguaglianza, nel loro fare “sistema” coi valori fondamentali restanti.
Sviste e dimenticanze in merito al ruolo che la seconda Camera può esercitare al piano della legislazione possono avere, di tutta evidenza, la loro immediata, negativa ricaduta sull’autonomia e, per ciò pure, sui diritti fondamentali che ad essa si affidano in vista del loro ottimale appagamento.
Quanto poi alla estromissione del Senato dal circuito fiduciario, per un verso parrebbe essere la naturale conseguenza della nuova composizione dell’organo, specie per il caso che esso non dovesse essere più eletto a suffragio universale e diretto (una opzione, questa avversa alla elezione diretta, che a me parrebbe da tener ferma ma che vedo essere oggetto di animata discussione, anche tra i “saggi”). D’altro canto, è da mettere in conto l’incidenza negativa per la stabilità politica che potrebbe aversi per effetto dell’eventuale mantenimento della relazione fiduciaria tra il Governo ed entrambe le Camere.
Per un altro verso, però, la soluzione comunemente accolta mal si concilia, a mia opinione, col principio fondamentale secondo cui la Repubblica si costruisce e incessantemente rinnova – come suol dirsi – dal basso (artt. 5 e 114). Non si trascuri, peraltro, la circostanza per cui il nuovo Senato è pur sempre chiamato a concorrere, in varia misura, alla formazione delle leggi, molte delle quali d’iniziativa governativa; ed è chiaro che, nel momento stesso in cui esso dovesse ora bocciare i disegni del Governo ed ora invece approvarli (sia pure emendandoli), farebbe pur sempre luogo ad un vaglio politico dell’operato del Governo stesso che male, forse, si accorda con la opzione di fondo della esclusione dell’organo parlamentare dal circuito fiduciario.
In generale, è poi da chiedersi quanto possano effettivamente pesare i poteri di controllo del nuovo Senato, una volta che dal loro raggio d’azione dovesse restare escluso tutto quanto attiene alla relazione fiduciaria. È un punto questo – a me pare – non sufficientemente valutato da quanti (e, come si sa, sono davvero tanti) da tempo auspicano il deciso superamento del bicameralismo perfetto. D’accordo sul fare del Senato la sede privilegiata, se non pure la esclusiva, del controllo. Ma se quest’ultimo ha da essere, come dev’essere, politico (nella sua più densa e pregnante accezione), come escludere il Senato stesso dal circuito fiduciario?
5. I (mancati) rapporti delle Regioni con l’Unione europea ed in seno alla Comunità internazionale e il bisogno, di cruciale rilievo, di far luogo ad una loro nuova e temporis ratione aggiornata disciplina nella Carta costituzionale, al servizio dei diritti fondamentali
Rimane solo un punto ancora da toccare, sia pure con la rapidità imposta a questa riflessione, un punto che deliberatamente è stato lasciato in sospeso in sede di notazioni iniziali, proprio a motivo del suo particolare rilievo e della opportunità che fosse preso in esame unicamente a conclusione dell’analisi già condotta e in considerazione dei suoi più salienti svolgimenti. E, invero, gli esiti dapprima raggiunti, per ciò che attiene agli effetti che potrebbero discendere dalla progettazione in corso a beneficio ovvero (e – temo – soprattutto) a carico dell’autonomia, rischiano di essere fortemente condizionati dal modo con cui si atteggeranno i rapporti delle Regioni al piano delle relazioni interordinamentali (e, segnatamente, con l’Unione europea e in seno alla Comunità internazionale).
Forse, proprio qui sono le maggiori carenze della progettazione in cantiere. La relazione dei “saggi” nulla fa, a mia opinione, per nascondere un animus – vorrei dire – di scetticismo circa la possibilità di assicurare un apprezzabile livello di relazioni esterne delle Regioni. Non a caso, nulla in essa si dice a riguardo dei rapporti internazionali delle Regioni e quasi nulla quanto a quelli con l’Unione, al di fuori di un labile e palesemente insufficiente riferimento a talune possibili applicazioni dell’art. 6 del protocollo sui principi di sussidiarietà e proporzionalità.
È di tutta evidenza come, proprio nella presente congiuntura segnata da una crisi economico-finanziaria soffocante (alla quale, non casualmente, è fatto esplicito richiamo nella premessa della relazione suddetta), che ha portato ad ulteriormente sottolineare i vincoli di origine esterna gravanti sull’ordinamento della Repubblica in ciascuna delle sue articolazioni, il destino dell’autonomia largamente dipenda dal modo con cui dovesse essere offerta alle Regioni (ed agli enti territoriali in genere) l’opportunità di concorrere alla confezione degli atti sovranazionali ed internazionali, quanto meno nelle sedi di diritto interno in cui si mette a punto l’indirizzo che i rappresentanti del nostro Stato saranno chiamati a rappresentare ai partners europei ed agli organismi internazionali, se non pure direttamente in sedi istituzionali allocate fuori dei confini della Repubblica.
Ora, non è di qui mettere nuovamente in chiaro le non poche carenze denunziate dai meccanismi al riguardo previsti dalla legge La Loggia e da altre leggi; importa piuttosto rilevare che alcune essenziali indicazioni nella Carta novellata non possono fare ad ogni buon conto difetto, in attesa del loro opportuno svolgimento a mezzo di atti legislativi (ed altri atti ancora). Senza di che sarebbe un vero miraggio immaginare che le Regioni possano recuperare, almeno in parte, un’autonomia di cui sono già state largamente private e di poterla quindi spendere al servizio dei diritti fondamentali (e, in genere, degli interessi costituzionalmente protetti). Ed è singolare, francamente stupefacente, che si tardi a prendere consapevolezza di questo bisogno, dopo che è ormai provato il carattere penetrante della normativa “eurounitaria” – come a me piace chiamarla – e della stessa disciplina internazionale (si pensi, a quest’ultimo riguardo, solo al rilievo assunto dalla CEDU nella definizione delle controversie giudiziali di diritto interno).
D’altro canto, non si dimentichi che le norme dell’Unione (formula bisognosa di essere intesa in larga accezione, comprensiva delle pronunzie del giudice di Lussemburgo) sono in grado, al pari delle norme di diritto internazionale non scritto e dei Patti con la Chiesa, di esprimere una forza “paracostituzionale” (o costituzionale tout court), siccome abilitata a portare, se del caso, alla deroga dell’ordine costituzionale delle competenze, sempre che non ne risultino incisi i principi fondamentali di diritto interno (i c.d. “controlimiti”), che nondimeno hanno fin qui costituito una risorsa non sfruttata a presidio dell’identità costituzionale, laddove minacciata da atti sovranazionali che puntino a mancarvi di rispetto.
Così stando le cose, la Costituzione è, in buona sostanza (e piaccia o no), una fonte condizionata, e condizionato è l’intero ordinamento giuridico, idonei a valere fintantoché non facciano da intralcio alla realizzazione del programma d’azione dell’Unione. Ecco perché mi pare che sia assolutamente urgente predisporre un quadro per quanto possibile chiaro ed incisivo, le cui linee portanti richiedono di essere fissate nella Carta novellata, che dia modo alla Repubblica nella sua interezza, in ciascuna cioè delle sue articolazioni strutturali, di far sentire la propria voce nelle sedi in cui si adottano atti dalla formidabile capacità di penetrazione e di vincolo in ambito interno.
Sovranità ed autonomia rischiano di restare vecchie etichette, stancamente ripetute a mo’ di slogan ed appiccicate a ferri arrugginiti ed ormai inservibili o, se più piace, a contenitori ormai largamente svuotati (se non pure ancora del tutto vuoti), il cui contenuto sia cioè ormai travasato presso altri ed ancora più capienti contenitori dislocati fuori delle nostre mura domestiche. Possono di contro essere recuperate, ma dotandosi di inusuali significati non comprensibili alla luce degli antichi e tuttavia ormai obsoleti schemi teorici di qualificazione, solo se si produce uno sforzo poderoso e a questo scopo adeguato.
Noi, per ciò che è in nostro potere dentro i confini nazionali, siamo chiamati a fare fino in fondo la nostra parte per ridare senso a parole che ci richiamano alle radici della nostra vicenda storico-politica, alle non poche sofferenze patite da chi ci ha preceduto e si è battuto per la causa sia dell’indipendenza e dell’unità che dell’autonomia. E dobbiamo farlo se abbiamo a cuore la perdurante salvaguardia dei nostri diritti fondamentali e di quant’altro fa l’essenza della identità costituzionale della Repubblica.
Se ci si pensa, è proprio il dovere di fedeltà, nella sua più densa accezione che lo vuole riferito ai valori fondanti la Repubblica, ad essere chiamato a stare a base e ad illuminare il processo riformatore, ad indicargli il verso e la meta da raggiungere, a consentirne alfine il conseguimento e, con esso, l’appagamento dei bisogni più intensamente avvertiti dell’uomo.
* Testo rielaborato di una lezione tenuta all’Università Bocconi di Milano il 14 novembre 2013, alla cui data lo scritto è aggiornato. Sono molto grato ad O. Pollicino per l’invito affettuosamente rivoltomi, che rinnova una consuetudine a me particolarmente cara, e per avermi offerto l’opportunità di un confronto con i suoi studenti del corso di Diritto regionale grazie al quale ho avuto modo di tornare a riflettere su questioni ad oggi assai discusse e invero meritevoli di ulteriore ed approfondito ripensamento.