Ancora su visti e cittadinanze “in vendita”: una prospettiva interna

Con la veemenza sinodale che gli è tipica (salvo rare e tutt’altro che disinteressate eccezioni), il Parlamento europeo, nella seduta dello scorso 15 gennaio, ha effettivamente tuonato contro la pratica della compravendita di beni immateriali sottesa all’Investor Citizenship Scheme maltese, confermando le accuse di simonia che il provvedimento aveva saputo attirare già in ambito pubblicistico e nei primi commentari accademici (in tema già la nota di Pierdominici in questo blog: https://www.diritticomparati.it/2014/01/dibattiti-sulle-cittadinanze-in-vendita-nellunione-europea.html).

Al netto della diffusa indignazione tuttavia, è stato lo stesso Commissario europeo per la giustizia, Viviane Reding, a confessare la carenza di poteri d’intervento delle istituzioni comunitarie sul punto, paventando, al più, la violazione del principio internazionalistico che legittimerebbe il rilascio della cittadinanza ai soli soggetti in grado di dimostrare un legame autentico con il paese di cui trattasi (si veda http://euobserver.com/justice/122744). Poco più che una lavata di capo per gli eccentrici isolani, in buona sostanza, invitati ad allinearsi, quanto prima, a non meglio definiti “valori” dell’Unione.


Lo stesso commissario malcela, tuttavia, un certo disagio nel rammentare l’esistenza di un nutrito manipolo di Stati membri già promotori di iniziative affini, e nondimeno individua il particolare disvalore della proposta in oggetto nell’omessa prescrizione di un periodo obbligatorio di residenza sul territorio nazionale per gli aspiranti maltesi.

Come a dire che l’autentico nucleo problematico della questione, forzando un poco l’efficace raffronto con l’universo privatistico suggerito nel post precedente, non attiene alla causa, bensì al contenuto obbligatorio del contratto.
In altri termini, ciò che appare difficilmente digeribile ai rappresentanti comunitari non sembra tanto la riconduzione del potere di concedere diritti di cittadinanza (ovvero diritti di soggiorno strumentali ad un suo futuro conseguimento) – con tutto il potenziale evocativo di un’idea di sovranità ormai scemata, di scabini e prefetture esercenti una burocrazia in via d’estinzione – ad un rapporto sinallagmatico, quanto il loro brutale apprezzamento e la conseguente, incondizionata e subitanea commerciabilità.
In questo senso, il riferimento ricorrente e del tutto generico ad un presunto ethos comunitario sembra assai poco pertinente e rischia, paradossalmente, di interferire con l’unico obiettivo astrattamente ipotizzabile, pure auspicato nella seduta dello scorso mercoledì, ossia quello di addivenire, in un prossimo futuro, ad un’armonizzazione delle varie discipline nazionali in materia di cittadinanza. Ferma l’insufficienza dell’attuale paradigma normativo allo scopo.

Limitandoci ad un estemporaneo rinvio alla stampa estera per quanto riguarda le proposte avanzate da ulteriori Paesi membri (http://www.ft.com/intl/cms/s/2/b8a2adfa-6106-11e3-b7f1-00144feabdc0.html#axzz2n42MlN3e), vogliamo qui fare riferimento ad alcune recenti pratiche nazionali interne che appaiono passibili di rilievi critici analoghi a quelli recentemente avanzati nei confronti dell’esecutivo maltese, per quanto indiscutibilmente caratterizzate da una meno sfrontata provocatorietà.
In maniera più o meno sommessa infatti, anche il governo italiano si è dimostrato, negli ultimi tempi, sensibile alla prospettiva di rimpinguare le casse statali o, quantomeno, supportare l’agognata ripresa economica, facendo leva sulle proprie prerogative in materia di concessione dei diritti di ingresso e quindi, in maniera prospettica, di cittadinanza: in specie, del visto e  del conseguente permesso di soggiorno per residenza elettiva.

Certo, l’insopprimibile gusto barocco del legislatore nostrano e la sua ben nota propensione all’ambiguità non giovano troppo alla pubblicità dell’iniziativa che, rispetto alla basilare semplicità della “compravendita” maltese, costringe, ad esempio, il richiedente a ricercare l’assistenza di un professionista avvezzo alla frequentazione delle questure italiche e alle procedure che, con elevati tassi di discrezionalità, in esse si consumano (il che, peraltro, non fa che confermarne l’onerosità).
Fatto sta che, stando al disposto dell’art. 13, allegato A, d.m. 11 maggio 2011, n. 850, il visto per residenza elettiva consente “l’ingresso in Italia, ai fini del soggiorno, allo straniero che intenda stabilirsi nel nostro Paese e sia in grado di mantenersi autonomamente, senza esercitare alcuna attività lavorativa”. La concessione del permesso è subordinata quindi all’allegazione, da parte del richiedente, di documentazione idonea a comprovare “la disponibilità di un’abitazione da eleggere a residenza, e di ampie risorse economiche autonome, stabili e regolari, di cui si possa ragionevolmente supporre la continuità nel futuro. Tali risorse, comunque non inferiori al triplo dell’importo annuo previsto dalla tabella A allegata alla direttiva del Ministro dell’interno del 1 marzo 2000, recante definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato, dovranno provenire dalla titolarità di cospicue rendite (pensioni, vitalizi), dal possesso di proprietà immobiliari, dalla titolarità di stabili attività economico-commerciali o da altre fonti diverse dal lavoro subordinato”.
Perfettamente compatibile con il quadro attuativo dell’Accordo di Schengen, il rilascio di permessi di soggiorno per residenza elettiva è stato per lungo tempo considerato, in ambienti questurini, una pratica eccezionale, sovente ignota agli stessi funzionari, riservata ai fortunati rappresentanti di un elite vagheggiante il buen retiro in costiera o la viticoltura sulle colline toscane.

Ma, una volta comprese le potenzialità dello strumento in funzione attrattiva di capitali esteri sul territorio nazionale, anche gli scenari applicativi sono repentinamente mutati.
E’ ormai ben noto agli operatori del real estate come, a seguito della visita del Presidente Monti nell’aprile 2012, il governo abbia concordato con la propria delegazione consolare in Cina modalità attuative particolarmente favorevoli della disciplina sopra richiamata (http://www.cameraitacina.com/uploads_ck/files/INFORMAZIONI%20SU%20RILASCIO%20VISTI%20PER%20RESIDENZA%20ELETTIVA%20E%20VISTI(2).pdf), confidando evidentemente nell’esistenza di una propensione asiatica per l’investimento nel “mattone” quantomeno affine a quella nostrana.
In sostanza, è stata prescritta l’applicazione dei parametri finanziari minimi in sede di valutazione dei requisiti per la concessione del visto per residenza elettiva, nei confronti dei cittadini cinesi in grado di comprovare – mediante produzione del preliminare o della documentazione attestante il versamento di eventuali acconti – il proprio interesse all’acquisto di un immobile laddove, in tutti gli altri casi, conformemente a quanto stabilito dalla normativa, tale verifica è totalmente rimessa alla discrezionalità dell’ambasciata (http://www.italyvac.cn/italy-shanghai/pdf/elective-residence-250113.pdf).

La spiccata valenza incentivante dell’accordo può apprezzarsi appieno, tuttavia,  rammentandone il possibile collegamento con quanto disposto dalla legge 5 febbraio 1992, n° 91 e successive modifiche e integrazioni, nella parte in cui  prevede la naturalizzazione dello straniero che risieda legalmente da almeno 10 anni in territorio italiano (art.9 c.1, lett.f), e quindi il suo pacifico, legittimo, futuribile accesso, sia pure per via mediata,  alla cittadinanza europea. Bene si comprende infatti come, permanendo le condizioni allegate alla domanda originaria, lo status di cittadino italiano possa conseguirsi in maniera senz’altro agevolata rispetto al faticoso iter comunemente osservato, attraverso successivi rinnovi del titolo già in possesso dello straniero. Eventualità quest’ultima, cui va a sommarsi, oltretutto, la possibilità di ottenere, già dopo 5 anni, il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, capace di assicurare al titolare sostanziale parità di trattamento rispetto al cittadino di uno Stato membro con validità permanente (Decreto legislativo 8 Gennaio 2007 n 3, attuativo della Direttiva 2003/109//CE relativa allo status di cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo).

Dal raffronto con la normativa nostrana sembrano affiorare dunque perlomeno due questioni degne di futura considerazione alla luce del dibattito sovranazionale.
Una simile vendita di cosa futura, modellata dal legislatore italiano in esercizio delle ampie prerogative riconosciutegli allo stato attuale, deve o meno subire le stesse aspre critiche delle nuove  pratiche commerciali maltesi?
E ancora: è possibile, opportuno, o desiderabile, il tentativo di tracciare un discrimine tra quale commercializzazione dei diritti civili e politici coinvolga la presa in considerazione diretta dei benefici comunitari di cui al parallelismo dell’art. 20 TFUE (anche nell’apprezzamento del relativo valore), e quale invece sia scevra da simili considerazioni utilitaristiche riguardo all’accesso al mercato unico? E, se sì, secondo quali criteri, soggettivi od oggettivi?