Ancora sul mandato d’arresto europeo: osservazioni a margine di una sentenza irlandese che ha rifiutato l’esecuzione del MAE sulla base della giurisprudenza di Strasburgo

In quest’ultimo anno, la giurisprudenza delle corti europee e nazionali sul mandato di arresto europeo ha visto succedersi alcune tappe significative. Si ricorderanno i primi rinvii pregiudiziali sollevati rispettivamente dal Tribunale costituzionale spagnolo (ATC 86/2011) e dal Conseil Constitutionnel francese (2013-314 QPC), ai quali hanno fatto seguito due decisioni della Corte di Giustizia, non del tutto assimilabili nei risultati e nei percorsi interpretativi. Con la sentenza Melloni, sul rinvio pregiudiziale spagnolo, la CGUE aveva infatti sostanzialmente disconosciuto le istanze volte ad affermare un’articolazione complessa e non gerarchica della protezione dei diritti fondamentali negli assetti costituzionali europei, istanze avanzate sulla base della clausola orizzontale di cui all’art 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (C-399/11, del 26 febbraio 2013). Con la sentenza Forrest, sul rinvio pregiudiziale francese, la Corte aveva bensì ricondotto all’attuazione nazionale della decisione quadro una violazione del diritto alle garanzie processuali, ma nell’argomentazione era stata maggiormente attenta alle ragioni dei diritti fondamentali, applicando le clausole di equivalenza piuttosto che il solo principio del primato (C-168/13 PPU, del 30 maggio 2013). Dopo le due pronunce della CGUE, si sono conclusi i rispettivi giudizi costituzionali. Più lineare è stata la decisione del Conseil, che ha dichiarato l’illegittimità dell’assenza di ricorso, prevista dalla norma interna, nel caso di estensione del MAE a fattispecie diverse (2013-2014 QPC). Più articolata è apparsa quella del Tribunale costituzionale spagnolo, che ha visibilmente preso le distanze dalla motivazione della CGUE, ricollegandosi alla dottrina dei controlimiti formulata nella precedente dichiarazione DTC 1/2004, pur ridimensionando le proprie posizioni sulla cd. violazione indiretta dei diritti fondamentali, con riferimento specifico alle condanne in absentia (STC 26/2014).

In questo filone giurisprudenziale più problematico, sviluppato dai giudici nazionali, si colloca la sentenza della Supreme Court irlandese che qui si commenta (Minister for Justice and Equality v. Kelly aka Nolan, del 10 dicembre 2013).

 

 

 

Il caso riguardava un individuo che, nel Regno Unito, era stato condannato per tentato stupro e lesioni. Dopo aver scontato diversi anni di carcere, era fuggito durante un permesso e si era rifugiato in Irlanda. Le autorità inglesi avevano emesso un MAE, sulla base del quale l’uomo era stato arrestato dalla polizia irlandese, ma la High Court competente non aveva poi autorizzato la consegna (Minister for Justice and Equality v. Nolan, del 24 maggio 2012). Alla base del rifiuto vi era il tipo particolare di condanna inflitta all’interessato. Si tratta della indeterminate sentence for public protection (IPP), introdotta nel Regno Unito dalla sec. 225 del Criminal Justice Act 2003 (ma entrata in vigore nel 2005): una condanna di natura preventiva e a tempo indeterminato, pronunciata con il fine di proteggere la popolazione da persone ritenute particolarmente pericolose per la comunità. La legge prevedeva originariamente che il giudice dovesse infliggere una IPP per “reati gravi” e se il colpevole avesse rappresentato un “rischio significativo” per la popolazione. Il rischio, tuttavia, si riteneva presunto qualora l’individuo fosse stato già condannato in precedenza per reati non marginali. All’esito del processo, dunque, la durata della pena detentiva si strutturava in due parti: il cd. tariff period, relativo alla pena principale e circoscritto ad un determinato arco di tempo, e una seconda parte, dalla durata indefinita. Il futuro rilascio era subordinato al giudizio favorevole di un Parole Board, che avrebbe dovuto accertare il venir meno della pericolosità del soggetto.

Fin dai primi anni dopo la sua introduzione, tale disciplina aveva ingenerato esiti applicativi controversi. In particolare, il numero degli individui destinatari di una IPP si è rivelato sensibilmente più alto di quanto inizialmente previsto, rendendo manifesta l’inadeguatezza delle strutture degli istituti carcerari per ospitare i detenuti ed apprestare gli strumenti necessari a questi ultimi per intraprendere un percorso di riabilitazione. Nel 2008, il Criminal Justice and Immigration Act era intervenuto a correggere alcuni aspetti dell’originaria normativa, rendendo la comminazione della IPP non più obbligatoria ma facoltativa, prevedendo un tetto minimo di due anni al tariff-period a cui sarebbe seguita la IPP, e ampliando la discrezionalità del giudice in ordine al giudizio di pericolosità dei condannati. Nel frattempo, alcuni detenuti si erano rivolti prima alle corti nazionali, poi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo che la loro reclusione successiva al tariff-period violasse l’art. 5, comma 1 della CEDU. Tale norma, com’è noto, garantisce la libertà personale rispetto ad arresti illegittimi. I ricorrenti lamentavano che l’impossibilità pratica di frequentare alcuni corsi, previsti dai rispettivi programmi rieducativi, rendeva loro impossibile anche ottenere quel giudizio positivo del Parole Board che costituiva il presupposto indefettibile per il rilascio. E ciò avrebbe prolungato illegittimamente il loro stato di detenzione. Pur non avendo dichiarato l’incompatibilità della IPP con la Convenzione, alcune opinions individuali dei giudici della High Court, della Court of Appeals e della House of Lords britanniche avevano rilevato le contraddizioni di una misura che, pur essendo stata proclamata inizialmente come resource-neutral, in realtà finiva col dipendere dal concreto finanziamento, da parte dello stato, di strutture e corsi, rendendo di fatto molto difficile, per i detenuti, intraprendere un percorso di educazione volto all’uscita dal carcere e alla reintegrazione nella società. È stata infine la Corte di Strasburgo ad accertare che la IPP veniva attuata attraverso strumenti irragionevoli e pertanto costituiva una detenzione arbitraria ai sensi dell’art. 5, comma 1 della Convenzione (sent. 18 settembre 2012, James, Wells and Lee v. United Kingdom).

Pochi mesi prima che i giudici di Strasburgo si pronunciassero, peraltro, a Londra era stata approvata una nuova legge che aboliva interamente la IPP, sostituendola, nei casi di criminali perticolarmente pericolosi, con la comminazione di una misura detentiva dalla durata più lunga ma comunque delimitata (Legal Aid, Sentencing and Punishment of Offenders Act, entrato in vigore nel maggio 2012).

È questo il quadro normativo e giurisprudenziale che fa da sfondo alla sentenza della Supreme Court irlandese. I giudici di Dublino hanno dapprima constatato che la legge del 2012 non aveva efficacia retroattiva e che quindi non poteva essere applicata al caso di specie (in un ordinamento continentale, si sarebbe probabilmente discusso più a lungo circa la retroattività pro reo della nuova normativa). Gli stessi giudici hanno però riportato ampi stralci dei discorsi, pronunciati in Parlamento durante l’iter legislativo, sia dal Secretary of State for Justice and Lord Chancellor sia dal Minister for State for Justice. Entrambi  i membri del governo avevano denunciato l’incertezza e le diseguaglianze risultanti dall’attuazione della IPP, affermando la necessità del relativo superamento. Nonostante fosse privo di efficacia retroattiva, il Legal Aid, Sentencing and Punishment of Offenders Act non è stato quindi irrilevante ai fini dell’argomentazione della Supreme Court. L’approvazione della nuova legge ha concorso infatti a creare un contesto più ampio, nel quale si è inserito l’argomento decisivo, costituito dal contenuto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del settembre 2012. La legge irlandese di attuazione della decisione-quadro sul MAE prevede, infatti, come legittimo motivo di rifiuto della consegna, che quest’ultima contrasti con la CEDU (cfr. sec. 37(1)(a)(i) European Arrest Warrent Act 2003). Nonostante i giudici di Dublino abbiano ritenuto che la decisione fosse relativamente “semplice”, avendo la sentenza di Strasburgo accertato una violazione della Convenzione, il rinvio a tale sentenza ha implicato operazioni interpretative ulteriori. I giudici irlandesi hanno infatti astratto da una serie di elementi concreti che erano stati decisivi per le conclusioni della Corte europea (come la mancata predisposizione dei corsi di riabilitazione e l’esigua durata del tariff-period nell’originaria sentenza di condanna) e hanno attribuito ad esse una portata più comprensiva. La Corte Suprema irlandese ha fatto dunque proprie le valutazioni dei giudici di Strasburgo, senza intraprendere un ulteriore esame della compatibilità della disciplina inglese con i diritti costituzionali irlandesi (cfr. art. 40.4.1° Cost. irl.), la relativa questione restando assorbita. Il problema riguardante l’adeguatezza della protezione dei diritti nell’ordinamento inglese rispetto al livello di tutela irlandese, sotteso alla pronuncia ma non esplicitamente tematizzato, è stato quindi risolto attraverso il solo rinvio alla giurisprudenza di Strasburgo. D’altra parte, il fatto che, nel Regno Unito, nel particolare giudizio di incompatibilità introdotto dallo Human Rights Act, il parametro sia costituito proprio dai diritti della Convenzione, ha contribuito a far sì che lo standard di quest’ultima rappresentasse anche per i giudici irlandesi un punto di riferimento non soltanto ineludibile ma anche risolutivo.

Ad un primo sguardo, la sentenza della Supreme Court irlandese sembra distinguersi, all’interno della giurisprudenza delle corti nazionali sul MAE, perché motiva il rifiuto della consegna con un diretto ed esclusivo riferimento ad una sentenza della Corte di Strasburgo. Per tale ragione, essa sarebbe emblematica di quel pluralismo giuridico che caratterizza attualmente gli ordinamenti europei (questo è anche il punto di vista espresso da Andrea Buratti in uno scambio di opinioni che abbiamo avuto nei giorni scorsi sul caso in commento). In questo senso, essa sarebbe assimilabile alla pronuncia della High Court inglese che il mese scorso ha rifiutato l’esecuzione del MAE con riferimento alla sentenza Torreggiani (v. il post collegato, La sentenza Torreggiani come argomento per negare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo).

In effetti, la decisione della Supreme Court irlandese rappresenta uno dei pochi esempi di “circoli virtuosi” che si sono realizzati nell’ambito dell’attuazione del MAE. Pur riconoscendo la sua importanza, però, sarei portata a non enfatizzarla troppo. È vero che non si riscontrano molti casi analoghi: la stessa Cassazione italiana non sembra aver utilizzato la CEDU al fine di negare la consegna (per un riscontro sui dati più recenti ringrazio Guido Colaiacovo). Ma è altrettanto vero che molte leggi nazionali di attuazione del MAE, come quella irlandese, prevedono come causa di rifiuto della consegna il contrasto con la CEDU. Inoltre, anche laddove non operino direttamente clausole di questo tipo, è possibile che il rifiuto sia motivato attraverso un’interpretazione del diritto interno conforme alla CEDU. Ricordo almeno la sentenza del Tribunale costituzionale spagnolo n. 199/2009, in cui il Tribunale ha accolto un amparo, riconoscendo che la consegna in Italia di un individuo sulla base di un MAE, la cui condanna era stata emessa in contumacia, violava il diritto alle garanzie processuali, previsto dall’art. 24, comma 2 della Costituzione spagnola e dall’art. 6 della CEDU (che veniva considerato insieme alla relativa giurisprudenza). Tale pronuncia, che allora andava a perfezionare la dottrina della cd. violazione indiretta dei diritti fondamentali alla luce di un’interpretazione conforme ai trattati internazionali (art. 10, comma 2), è stata poi corretta proprio in seguito al caso Melloni (v. sopra).

Ma sono anche le specifiche circostanze concrete che inducono a non sovradimensionare la sentenza della Supreme Court irlandese: a questo proposito, è interessante un confronto di essa con quella, precedente, della High Court. A differenza della prima, quest’ultima era stata interamente incentrata sul problema della compatibilità della normativa inglese con i diritti costituzionali irlandesi (40.4.1° e 38, rispettivamente sulla libertà personale e sul principio di innocenza). L’opinion del giudice Edwards aveva rilevato come la protezione dell’art. 40.4.1° fosse “più forte” di quella dell’art. 5 della CEDU (o meglio, come fosse “assoggettata a limiti meno penetranti”), avendo peraltro la giurisprudenza della Supreme Court escluso la legittimità della detenzione preventiva. Ciò avrebbe spiegato perché l’avvocato del detenuto aveva svolto le sue argomentazioni riferendosi alle norme della costituzione irlandese e non alla CEDU. Il giudice della High Court era arrivato quindi ad accertare l’esistenza di “differenze … profondamente radicate nei principi e nella storia” dell’ordinamnto irlandese e di quello inglese, differenze tali da legittimare il rifiuto della consegna (sec. 37 (1)(b) European Arrest Warrant Act).

Nella sentenza della Supreme Court, invece, non c’è traccia del complesso percorso argomentativo della High Court, e non sfugge l’impressione che i giudici si siano basati esclusivamente sulla recente pronuncia della Corte di Strasburgo per evitare di cimentarsi con la questione della compatibilità della norma inglese con i diritti costituzionali irlandesi (da qui si comprende la ripetuta insistenza, quasi fosse una excusatio non petita, sulla “semplicità” della decisione, che in realtà così semplice non era). In ciò, i giudici della Supreme Court hanno avuto gioco facile, perché la stessa sentenza europea aveva fatto leva su una chiara evoluzione legislativa e giurisprudenziale interna al Regno Unito, e perché la misura contestata era stata infine abrogata nell’ordinamento inglese. I giudici irlandesi si sono quindi trovati di fronte a un problema piuttosto circoscritto di diritto intertemporale, relativo a un provvedimento che nel frattempo era stato superato, sia a livello nazionale che a livello europeo. A testimonianza della limitata rilevanza della questione, sta inoltre il fatto che, nella decisione, l’eventualità di un rinvio pregiudiziale non venga nemmeno evocata.

L’esame congiunto della sentenza della Supreme Court con quella della High Court, infine, dovrebbe mostrare come il contrasto di una disciplina nazionale con la sola CEDU sia ancora un’ipotesi rara, dato che normalmente il problema di compatibilità si pone, in prima battuta, rispetto ai diritti costituzionali nazionali, i quali, in un ambito materiale siffatto, spesso presentano un livello più alto di protezione (ciò è dimostrato sia da questo caso che da quello spagnolo). La pronuncia della High Court inglese, con il riferimento alla Torreggiani, non è del tutto sovrapponibile, poiché si tratta dell’accertamento, da parte della Corte di Strasburgo, di una violazione sistemica e strutturale che, come tale, è in grado di rovesciare la presunzione del rispetto, da parte degli stati membri del Consiglio d’Europa, dei diritti della Convenzione. In questi casi, il paramentro convenzionale si impone anche al di là di un’integrazione con il parametro costituzionale (e, peraltro, in Inghilterra i diritti costituzionali non sono facilmente separabili da quelli della Convenzione, ora saldamente incorporata nel diritto interno). Maggiormente assimilabili a quest’ultima costellazione mi sembrano piuttosto gli effetti sviluppati dalla sentenza della Corte di Strasburgo MSS c. Belgio and Grecia, del 21 gennaio 2011 che, nell’ambito del sistema di ripartizione delle domande di protezione internazionale stabilito dal regolamento Dublino II, aveva accertato la carenza sistematica, alla luce dell’art. 3 della CEDU, delle strutture greche di trattenimento, provocando il rifiuto, da parte degli altri stati membri, di trasferire i rifugiati in Grecia.