Una Corte internazionale per l’epoca dei mutamenti costituzionali incostituzionali?

Il 28 gennaio 2013, la ventesima Conferenza dei Capi di Stato e di governo dell’Unione africana, su impulso della Tunisia, ha formalizzato la richiesta di istituzione di una Corte Costituzionale internazionale sotto l’egida dell’ONU (Doc. Assembly/AU/12 (XX) Add.1). Più precisamente, la Conferenza ha incaricato la Commissione sul diritto internazionale della stessa Unione (la AUCIL) a impostare i contenuti di una Risoluzione da far votare nella successiva Conferenza, per poi trasmetterla al Segretario generale dell’ONU e permetterne l’inserimento all’ordine del giorno della sessantanovesima Sessione dell’Assemblea Generale, programmata per settembre 2014, con la qualificazione della Corte costituzionale come “nuovo organo dell’ONU ai sensi dell’art. 22 dello Statuto”. Già nel corso della Sessione ONU di settembre 2012, il Presidente della Repubblica di Tunisia, Mohamed Moncef Marzouki a publié dans le journal français « Libération » unMoncef Marzouki, ne aveva preannunciato, con un suo intervento all’Assemblea Generale, l’avvio, cui egli stesso ha fatto seguire, nel maggio 2013, un congresso internazionale di diritto costituzionale tenutosi sempre in Tunisia, a Cartagine, per verificare limiti e potenzialità di questo strumento di giustizia costituzionale universale, nel quadro più ampio, tra l’altro, degli obiettivi dell’Agenda post 2015 dell’ONU, mirati anche a elaborare inediti percorsi di “rafforzamento globale dello Stato di diritto”.

La proposta di Risoluzione, che dovrebbe preludere al percorso istitutivo del nuovo organo, fonda l’istanza su una serie di riferimenti normativi, così di seguito sintetizzabili: esistenza di un impegno formale universale di tutti gli Stati aderenti alle Nazioni Unite a rispettare i valori universali della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani, sanciti negli strumenti internazionali, sulla base del principio di buona fede; accettazione del principio dell’autodeterminazione dei popoli; richiamo al Patto internazionale sui diritti civili e politici, alla Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne e alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, come fonti di legittimazione di una partecipazione democratica inclusiva e paritaria, da garantire attraverso meccanismi di contenzioso universale e uguale per tutti i cittadini e le associazioni politiche e sociali degli Stati.

L’iniziativa, pertanto, presenta la significativa caratteristica di coniugare l’idea di una Corte costituzionale internazionale non tanto (o non solo) con il rafforzamento unitario della tutela dei diritti umani come situazioni soggettive individuali e collettive, né con l’attribuzione di una specifica potestà di “interferenza” interstatale, bensì con la garanzia della democrazia come forma di governo universalmente riconosciuta nei suoi caratteri distintivi a base della pace tra i popoli e tra gli individui e come tale tutelabile in modo unitario da un unico organo internazionale ad accesso plurali e non solo statale. Non a caso, il documento evoca precedenti Risoluzioni ONU in tema di consolidamento delle nuove o ripristinate democrazie, come le nn. 64/155 del 18 dicembre 2009 e 66/163 del 19 dicembre 2011.

In questa sede, si vogliono richiamare alcuni spunti di tale inedita possibilità, nella presa d’atto della disattenzione generale che la dottrina costituzionalistica italiana ha mostrato verso questo coraggioso esperimento: esperimento tutto di origine e ispirazione africana e proprio per questo ancor più degno di nota, perche sposta l’asse del dibattito sul costituzionalismo globale dalla dimensione, non poche volte retorica e ridondante, del cosiddetto “dialogo” tra i giudici, incentrata esclusivamente sulla tutela dei diritti umani di contenuto individuale e marginalmente influente sulle forme politiche di convivenza dei singoli contesti statali, alla dimensione della giustiziabilità, unica e universale, delle prassi democratiche di partecipazione deliberativa e di inclusione sociale, al fine di costruire un vero e proprio diritto alla democrazia come accesso unico e uniforme alla giustizia per l’effettività di tutti i diritti politici.

Già nel 1999, proprio Mohamed Moncef Marzouki a publié dans le journal français « Libération » unMoncef Marzouki aveva pubblicato sul quotidiano francese Liberation, un articolo in cui suggeriva l’attivazione di meccanismi giudiziari internazionali di tutela costituzionale delle democrazie e non solo dei diritti umani. Nel 2006, il professore tunisino Yadh Ben Achour ha ripreso lo spunto, proponendolo all’attenzione dell’Accademia Internazionale di Internationale de Droit Constitutionnel (AIDC).Diritto Costituzionale e consentendo così di arrivare, nEn 2011, il a été institué un Comité d’Experts composé de :el 2011, all’avvio di un gruppo di lavoro composto, oltre che dallo stesso Yadh Ben Achour, dai Professori Monique Chemillier Gendreau (Francia), Ghazi Gherairi e – Le professeur Ferhat Horchani (Tunisie) ;Ferhat Horchani (Tunisia), Maurice Kamto (Camerun), Laghmani Slim (Tunisia), Ahmed Mahiou (Algeria), Christian Tomuschat (Germania), incaricati di impostare le basi per la progettazione di un modello di Corte costituzionale internazionale. A seguito di questa prima istruttoria, si è deciso di istituire un vero e proprio “Comitato ad hoc“, coordinato da Ahmed Ouerfelli, consigliere giuridico del Presidente tunisino, con il compito di diffondere, nei dibattiti scientifici nazionali e internazionali, l’idea della Corte costituzionale internazionale e definire le linee portanti di un suo possibile Statuto.

Come accennato, la Corte servirebbe ad attivare un sistema unico ed unitario di accesso ad una giustizia costituzionale di tutela del “diritto alla democrazia”, inteso sia come diritto formalmente L’idée de créer une Cour Constitutionnelle internationale est néestabilito e sancito in molti instruments internationaux, que ce soit à l’échelle universelle oustrumenti internazionali, tanto universali quanto régionale.regionali, sia come prassi di partecipazione, inclusione sociale e soprattutto non elusione di tutti i meccanismi di contorno alle deliberazioni democratiche (dal diritto all’informazione alla tutela delle minoranze e delle opposizioni, alla trasparenza dei finanziamenti, al lobbing ecc …).

Non sembra infatti plausibile predicare una “costituzionalità internazionale”, spesso riconosciuta anche a livello formale delle “clausole di apertura” di molte Costituzioni verso gli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, che operi asimmetricamente sul fronte della omogeneità degli standard di tutela di quei diritti partecipativi e politici all’interno delle procedure di decisione pubblica. Da tale angolo di visuale, il cosiddetto “dialogo” tra i giudici risulta ancora oggi molto poco “cosmopolita”, dato che non solo le Corti costituzionali domestiche, ma anche i giudici internazionali, a partire dalle tre Corti convenzionali sui diritti umani (europea, interamericana e africana), preferiscono “arginare” gli effetti delle loro sentenze sugli assetti interni delle forme di governo, attraverso tecniche di “contestualizzazione” degli argomenti e delle regole prodotte.

Valgano alcuni esempi: dal richiamo al “margine di apprezzamento” nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo; alla giustificazione, esplicitamente formalizzata nel caso “Gelman vs. Uruguay” del 2011, del “controllo di convenzionalità” sulle procedure deliberative democratiche da parte della Corte interamericana dei diritti umani; al caso “Tanganika Law Society et al. vs. Tanzania“, risolto dalla Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli nel 2013 in base allo specifico contesto del singolo paese; alla decisione della Corte suprema messicana n. 82/2001 (decisione di rigetto) sulla partecipazione delle comunità indigene ai procedimenti di riforma della Costituzione.

L’apertura universalistica, che la famosa decisione della Corte Internazionale di Giustizia del 1986 (Nicaragua vs Stati Uniti d’America) sembrava aver tracciato sulla via dell’affermazione di un principio di “libera scelta del sistema politico, economico e sociale” come vera e propria “autonomia costituzionale” garantita per via giudiziale, non ha ancora prodotto una uniformazione di regole e principi a fondamento di una effettiva universalizzazione dei contenuti e delle procedure della democrazia a garanzia dei diritti.

Eppure gli strumenti internazionali, cui comunque le Costituzioni di molti Stati si richiamano e le stesse giurisprudenze “dialoganti” invocano a giustificazione del “dialogo” stesso, sembrerebbero suggerire una declinazione diversa. Basti pensare all’art. 21 della Dichiarazione Universale dell’ONU e all’art. Le contenu de cette disposition a été consacré par l’article 25 du25 del Pacte sur les droits civils et politiques.Patto sui diritti civili e politici.

Proprio per la consapevolezza di questa asimmetria, l’ipotesi di Corte costituzionale internazionale è stata configurata, dagli artefici dell’iniziativa africana, nell’attribuzione di una duplice funzione, sia preventiva consultiva che successiva giurisdizionale, attivabile da parte non solo degli Stati ma anche di altri componenti della società politica, come organisations internationales universelles, régionales ou sousorganizzazioni internazionali, ONG, partiti politici, associazioni nazionali et les organisations professionnelles.e organizzazioni professionali. Se l’obiettivo è quello di universalizzare l’apprendimento delle prassi, e non solo delle forme, della democrazia in termini di effettiva partecipazione e inclusione, non è ammissibile che l’accesso sia riservato alla sola finzione formale che contiene quella prassi (lo Stato) e non invece ai suoi attori reali che la vivono e l’alimentato (cittadini organizzati, partiti, associazioni ecc …).

La sfida, pertanto, è radicalmente innovativa: dall’ingerenza interstatale sulle questioni costituzionali interne, dichiarata illegittima dalla decisione della Corte Internazionale di Giustizia nel 1986, si passerebbe alla socializzazione del principio di autodeterminazione, attraverso l’accesso diffuso ad un giudice universale della democrazia.

Del resto, in sede Dans le cadre de sa fonction contentieuse, la Cour statue sur les giurisdizionale, la Corte dovrebbe essere chiamata a verificare le atteintes graves aux principes démocratiques et aux conditionsviolazioni dei principi e delle regole democratiche all’interno degli Stati, proprio a tutela dei loro attori sociali. Ecco allora che il “diritto alla democrazia”, da semplice autonomia volitiva (ovvero da “autoctonia costituzionale” non condizionata dall’esterno), verrebbe ad essere riconosciuto come vera e propria situazione soggettiva che potremmo definire “procedimentale”, ossia funzionale alla regolarità e correttezza delle procedure democratiche quali basi universali di qualsiasi altro diritto umano.

Nella ipotesi fatta propria dall’Unione africana, la La Cour peut être saisie par les individus avecCorte dovrebbe essere composta di 21 giudici eletti dall’Assemblea Generale delle des Nations Unies sur une liste de personnes présentées par unNazioni Unite, sulla base di una lista di persone designate da un Collège constitué des juges de la Cour Internationale de Justice, deCollegio composto dai giudici della Corte Internazionale di Giustizia, ceux de la Cour pénale internationale, et des membres de ladella Corte Penale Internazionale e dei componenti della Commissione di Diritto internazionale.

Le norme parametro del suo giudizio si estenderebbero a tutti gli strumenti internazionali, universali e regionali, che riguardano i diritti dell’uomo, in quanto la prospettiva di tutela e giustiziabilità investirebbe appunto l’effettività di quei diritti grazie all’effettività delle regole e delle prassi democratiche interne a ciascuno Stato.

La funzione garante della Corte costituzionale internazionale, così congegnata, non metterebbe in discussione la infungibilità dei ruoli, sia tra organi che tra atti, all’interno degli Stati, a partire dal principio della separazione dei poteri. Enfatizzerebbe, al contrario, la sovranità democraticamente esercitata in una legalità conforme a principi e standard universali, sottesi ai documenti internazionali accolti dalla stragrande maggioranza degli Stati e così sottratti all’alibi domestico della insindacabilità come “questione politica”.

Del resto, che questo compito di “standardizzazione” possa essere affidato ad un giudice “materialmente” costituzionale – come la ipotizzata Corte internazionale – è possibilità già accettata da molti Stati all’interno delle loro dinamiche tra legislazione e giurisdizione, in quanto è da tempo in atto un processo di progressivo avvicinamento, in struttura e funzione, delle due attività, chiamate entrambe a farsi carico dell’ “impatto” nell’esperienza dei rispettivi procedimenti in termini di legittimazione e di tutela dei diritti.

Quindi, la promozione di una giurisprudenza costituzionale internazione mirerebbe prioritariamente non alla “inclusione giurisprudenziale” (come accertamento di diritti fondamentali negati in qualche contesto nazionale), bensì alla vera e propria “integrazione politica” dei soggetti sociali ormai operanti in tutti i livelli nazionali, regionale o internazionali della mobilitazione politica e sociale (dalle ONG alle associazioni, ai partiti politici ecc …).

Si spiega da quest’angolo prospettico la circostanza che la proposta provenga proprio dal contesto africano, dove l’intimo legame tra tutela dei diritti e consolidamento della democrazia, da presupposto dei processi di integrazione sovranazionale e di dialogo internazionale come avviene in Europa, è assunto invece a obiettivo “diffuso” – ossia rivendicabile da più attori, sia istituzionali che sociali – di accesso al giudice sovranazionale. Ne offrono conferma l’Atto costitutivo dell’Unione africana (in vigore dal 2001, con gli artt. 3 e 4) e la Carta africana sulla democrazia (in vigore dal 2012, specialmente con gli artt. 2 e 3).

Tuttavia, le implicazioni aperte da questo nuovo scenario non si limitano alla sola dimensione della tutela del diritto universale alla “integrazione politica”. Finiscono con l’investire anche la validità delle Costituzioni domestiche dei singoli Stati, con riguardo specifico agli effetti di “rafforzamento” proprio della loro rigidità costituzionale e dei limiti al mutamento costituzionale incostituzionale.

Cerco di spiegarmi.

La giustiziabilità del “diritto alla democrazia” significa anche la possibilità di rendere giustiziabili, e quindi affidabili ad argomenti giuridici di conformità a regole e principi, i temi dei limiti al mutamento riferibili non solo al rispetto dei diritti inviolabili ma anche alla permanenza delle procedure e delle forme di legittimazione del potere, sancite da una Costituzione.

In genere, questo secondo compito è sempre rimasto interno alle previsioni di ciascun ordinamento statale, attraverso la codificazione di clausole allo scopo dedicate, ora come “pietrificazione” di una determinata forma di potere (si pensi alla clausola della “forma repubblicana” sancita dall’art. 139 della Costituzione italiana), ora come rivendicazione di specifici diritti soggettivi contro i mutamenti incostituzionali (come nel caso del cosiddetto “diritto all’insurrezione”), ora come limiti “logici” (il puzzle di Alf Ross) o “assiologici” (i diritti “inviolabili”).

Tuttavia, questa tecnica di tutela, anche quando astrattamente giustiziabile, non ha mai potuto scongiurare la forza del fatto incostituzionale all’interno dell’ordinamento stesso. Lo dimostra una vicenda particolare come quella del recente colpo di Stato in Honduras, la cui Costituzione più dettagliatamente di qualsiasi altra pietrifica limiti procedimentali e di forma del potere così come codifica diritti fondamentali di “contrasto” al mutamento incostituzionale.

Ci si riferisce alla destituzione del Presidente della Repubblica, Manuel Zelaya, consumatasi nel 2009 in (apparente?) applicazione proprio di specifiche disposizioni costituzionali. La Costituzione dell’Honduras, con gli artt. 373, 374 e 375, costruisce un sistema super-rigido e super-“pietrificato” della Costituzione, per le seguenti caratteristiche:

  1. impone la revisione formale solo per singoli articoli già inseriti nella stessa Costituzione, con deliberazione a maggioranza di due terzi da ripetere per due legislature consecutive differenti (art. 373);
  2. impone il divieto, “in qualsiasi caso”, di revisione del procedimento disciplinato, evitando così il meccanismo della doppia revisione o della deroga/specialità (art. 374);
  3. “pietrifica” autoreferenzialmente la previsione sub b, che non potrà “in nessun caso” essere “riformata” (senza specificare se “modificata” o “abrogata”) (art. 374);
  4. “pietrifica” gli articoli costituzionali (senza menzionarli esplicitamente), i cui contenuti si riferiscono a forma di governo, territorio nazionale, durata del mandato presidenziale, divieto di rielezione presidenziale (art. 374);
  5. “pietrifica” quindi la vigenza della Costituzione intera non solo in caso di “abrogazioni” ma anche di “modificazioni” che procedano in violazione degli articoli prima indicati, aggiungendovi anche i casi di qualsiasi altra “modalità” non contemplata dalle disposizioni precedenti, sia di tipo “formale” che “informale”, come “atti di forza” e “qualsiasi altro mezzo o procedimento distinto da quelli disposti dalla stessa Costituzione” (art. 375);
  6. non “pietrifica” contenuti sostantivi sui diritti o le loro garanzie, ma solo contenuti e procedimenti relativi alla competenza, sia essa “formale” che “informale”, sia essa riferita alla “abrogazione” che alla “riforma”.

Si tratta, come si può vedere, di un sistema di disposizioni che racchiude tutte le tipologie di “irrigidimento” e “pietrificazione”, riscontrabili in altre esperienze di scrittura costituzionale. Del resto, esso impone:

–          la non riformabilità per modalità e casi non esplicitamente previsti;

–          la non modificabilità di una serie di articoli su assetti di funzioni e competenze;

–          la inviolabilità di una serie di contenuti relativi a quegli assetti di funzioni e competenze;

–          la irrevocabilità di alcune disposizioni;

–          la tassatività delle competenze, formali e informali, di riforma o abrogazione.

Inoltre, l’art. 375 prevede pure che, in caso di violazione di queste “pietrificazioni”, qualsiasi cittadino, anche se “non investito di autorità”, sia chiamato a “collaborare al mantenimento o ristabilimento della vigenza” della Costituzione violata, mentre i “responsabili dei fatti” produttivi di tale violazione, potranno essere deferiti davanti alle autorità giudiziarie ricostituire per rispondere dell’illecito costituzionale di “usurpazione dei poteri pubblici”. Sembrerebbe la quadratura del cerchio sul tema dei limiti formali e materiali al mutamento, estesi – tali limiti – dalle rigidità procedimentali alla “pietrificazione” con divieto di forme procedimentali “elusive” e persino dei mutamenti informali, quando realizzati con “atti di forza”, in nome, si potrebbe concludere, di un “diritto alla democrazia” nella gestione dei mutamenti costituzionali, giustiziabile per via penale attraverso la previsione dell’illecito di “usurpazione di potere”.

Ma è effettivamente così? È questo il modo più efficace e stabile per garantire il “diritto alla democrazia”?

Invero, la vicenda del Presidente Zelaya ha fatto insorgere inediti interrogativi, rispetto alla “perfezione” previsionale di questi articoli: che cosa succede nel caso di manifestazione di “intenzioni” o di mere “proposte” di modifica di questo assetto “pietrificato”? Esiste un giudice che possa giudicare ragionevolezza e proporzionalità di simili “comportamenti”, non ancora sfociati in veri e propri atti costituzionali di mutamento effettivo delle forme di potere? È sempre legittima, indipendentemente dalle forme (e dunque sempre “democratica”) la “insurrezione” contro tali comportamenti? In che cosa può consistere l’illecito costituzionale di “usurpazione di potere” quando la stessa Costituzione lo formalizza anche attraverso l’enunciato onnicomprensivo di “qualsiasi altro mezzo o procedimento distinto da quelli disposti dalla stessa Costituzione” (art. 375)?

Zelaya, infatti, non aveva consumato uno specifico “atto di forza”, né proposto formalmente modifiche specifiche dei tre citati articoli. Quindi, egli formalmente non aveva violato l’art. 375. Com’è noto, aveva semplicemente manifestato la “intenzione” di indire un referendum (competenza a lui spettante) avente ad oggetto una riforma costituzionale che modificasse quei limiti. Pertanto, ci si è trovati di fronte alla “intenzione” di promuovere la partecipazione popolare per il superamento dei limiti di cui all’art. 375 della Costituzione. Tuttavia, per tale “intenzione” di partecipazione popolare, in nome della “legalità” dell’art. 375, Zelaya è stato destituito.

Come si pongono allora le “pietrificazioni” di fronte alle “intenzioni” di coinvolgimento popolare sul loro superamento? Si tratta davvero di “atti di forza”, per il semplice fatto di non essere contemplate dalla stessa Costituzione? E può il coinvolgimento popolare essere ricondotto all’ “atto di forza”?

Siamo di fronte al classico dilemma dell’autoreferenzialità costituzionale. E il dilemma, come qualsiasi altro interrogativo interno ad un unico ordinamento che pretende l’esclusività dell’auto-fondamento, è superabile solo nel momento in cui, dalla qualificazione dei limiti in termini logici interni al sistema normativo stesso, si passa alla loro accettazione come elementi di un parametro universale di controllo delle procedure e delle forme di esercizio del potere, giudizialmente sanzionabile secondo standard universali.

In questa seconda ottica, un intervento esterno in via consultiva o giudiziale di una Corte costituzionale internazionale non sortirebbe effetti di “interferenza” sulla sovranità, ma di verifica della correttezza, accettabile in quanto universalmente riconoscibile, delle soluzioni adottate nell’esercizio della propria sovranità costituzionalmente riconosciuta.

Tra l’altro, proprio gli atti costitutivi dell’Unione africana, ossia del soggetto promotore dell’iniziativa in commento, si collocano su questa linea. L’Unione africana opera secondo i principi tanto della non ingerenza di uno Stato membro negli affari interni di un altro Stato membro, quanto della condanna e del rifiuto di qualsiasi mutamento costituzionale incostituzionale all’interno degli Stati membri per violazione delle disposizioni domestiche e per mancato rispetto degli standard di “diritto alla democrazia” desumibili dagli strumenti internazionali in materia di diritti umani. Essa quindi presuppone il mutamento incostituzionale come fattispecie illecita sanzionabile e giustiziabile a livello sovranazionale.

La sanzione, in altri termini, non deriverebbe dal giudizio o dalla volontà interna allo Stato e ai suoi organi. Si allargherebbe alla sfera di tutela della società, attraverso il ricorso ad un giudice “terzo” perché non statale e dunque non espressivo delle tensioni e dei rapporti di forza coinvolti dalla crisi costituzionale domestica, così rafforzando la dimensione conformativa della normatività costituzionale con standard “depoliticizzati” perché universalmente applicabili.

È stato questo, molto significativamente, l’ordito seguito dalla Corte africana dei diritti umani e dei popoli, nel citato caso “Tanganika Law Society et al. vs. Tanzania“.

Lo conferma la Carta africana sulla democrazia del 2004, tematizzando ulteriormente l’assunto e aggiungendo, con i  suoi articoli 2, 3, 10, 15 e 16, che l’Unione promuove l’adesione di ciascuno Stato membro ai valori universali della democrazia e del rispetto dei diritti umani, attraverso il rafforzamento dei principi dello Stato di diritto, la separazione dei poteri, il rispetto della supremazia della Costituzione e dell’ordine costituzionale dai parte dei poteri statali, il cambiamento legittimo e democratico del governo, il rifiuto e la condanna dei mutamenti incostituzionali dei poteri, la promozione della pratica e della cultura democratica, del pluralismo e della tolleranza politica, ma soprattutto gli Stati membri su cinque fronti di “pietrificazione”:

– “rafforzare” il principio di supremazia della Costituzione nella organizzazione del loro potere politico;

– “vigilare” affinché i processi di mutamento o revisione delle loro Costituzioni si basino sul pluralismo del consenso e su consultazioni popolari dirette, anche tramite referendum;

– “adottare” misure legislative e regolamentari che sanzionino i responsabili dei tentativi di mutamento incostituzionale;

– “garantire” che le loro Costituzioni disciplinino l’indipendenza e l’autonomia di tutti gli organi costituzionali, senza eccezioni o sospensioni;

– “collaborare a livello regionale e continentale” per il consolidamento della democrazia attraverso lo scambio di esperienze che mettano in pratica tali impegni.

L’art. 23 della medesima Carta, tra l’altro, definisce esplicitamente anche un sistema di sanzioni in caso di violazione o mancata attuazione dei cinque obiettivi di “pietrificazione”, prefigurando poi, all’art. 44, un impegno di cooperazione reciproca fra gli Stati, per attivare meccanismi di effettività del controllo sul conseguimento degli obiettivi.

Pertanto, l’ipotesi di una Corte costituzionale internazionale sembra collocarsi in una ideale linea di continuità con questa specifica visione “internazionalizzata” della “pietrificazione” costituzionale, rappresentandone il completamento.

Rispetto alla semplice proclamazione della democrazia come assiologia universale, riscontrabile già in diversi altri documenti internazionali, dalla Dichiarazione della Conferenza mondiale di Vienna sui diritti umani del giugno 1993 alla Risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del 2005, gli atti africani richiamati vanno oltre, con la definizione di una serie di obblighi procedimentalizzati e di divieti assunti come veri e propri “illeciti costituzionali” a rilevanza non più solo interna (“sovrana”), ma internazionale (perché connessi alla effettività dei diritti umani), verso i quali l’impegno degli Stati non consiste nella semplice astensione da tali condotte istituzionali “illecite”, ma piuttosto nella elaborazione congiunta di misure che assicurino effettività, permanenza e controllo, attraverso lo scambio di prassi attuative.

Una Corte costituzionale internazionale completerebbe questo quadro, giacché offrirebbe strumenti esterni di apprendimento (con la prevista funzione consultiva preventiva) e giudizio (con il contenzioso costituzionale vero e proprio) ad efficacia universale.

Rispetto ad altri percorsi sovranazionali di affermazione del “diritto alla democrazia”, ora come mero criterio di idoneità politica e istituzionale per l’integrazione fra Stati (i “Political Criteria” dell’Unione europea) e il dialogo interstatale (le “identità” e le “tradizioni costituzionali comuni”, di cui parlano gli artt. 4.2 e 6 TUE), ora come mera evocazione di principio, ora come garanzia di stabilità di un nascente processo regionale di convergenza (il “compromiso con la democracia” della UNASUR del 2010), la prospettiva africana, proprio quella che più tardivamente e faticosamente di altre ha potuto manifestare autonomia di elaborazione e sperimentazione costituzionale, consegna al costituzionalismo globale l’opportunità di riflettere e agire per una edificazione universale di tutte le garanzie costituzionali a tutela degli Stati democratici di diritto in quanto Stati costituzionali.

Di fronte alle contraddizioni di un globalismo giuridico quasi esclusivamente declinato sul primato del conflitto (tra diritti o tra interessi), la traccia dell’Unione africana merita di essere presa sul serio, per tornare a discutere di un diritto costituzionale universale fatto di condivisioni altrettanto universali, perché azionabili davanti a un giudice universale, sulle forme di potere e sul loro esercizio inclusivo e partecipato.

Se è vero che viviamo nell’epoca di mutamenti costituzionali incostituzionali (secondo la formula di T. Stanton Collet), spesso consumati per vie tacite di abuso, elusione, frode, o semplicemente regressione costituzionale (come non si può negare che stia occorrendo nel quadro delle trasformazioni indotte dai processi dell’Unione europea), invocare principi e regole di salvaguardia della democrazia come acquisizione di un diritto umano giustiziabile significa salvaguardare la dimensione politica del costituzionalismo non più come mero rispetto della legittimazione consensuale dei poteri (quella dimensione al cui interno rivoluzioni e colpi di Stato sono stati sempre classificati come rottura delle competenze costituzionalmente prestabilite), ma finalmente come irreversibilità degli standard più evoluti di partecipazione, inclusione, trasparenza, tutela delle libertà di dissenso e opposizione.

È forse questa la via di ricongiunzione del diritto costituzionale “generale” del Novecento (e del suo costituzionalismo “politico” e “popular“) con le acquisizioni attuali del diritto costituzionale “comune” (e della sua fiducia nella forza “culturale” del “Judicial Dialogue“).