Ancora sulla Dichiarazione dei diritti di Internet. Riflessioni sparse in tema di anonimato

Qualche considerazione in generale sullo strumento utilizzato e sulla efficacia che tale strumento ha e può anche avere in futuro. A questo proposito, la questione ci sembra non sia se, come pure è stato scritto, ci troviamo davanti a un esempio di soft law o di hard law. Riteniamo, infatti, che in questo caso non si tratti di law, e per la verità nemmeno di bill; in altri termini non siamo di fronte a un testo normativo da poter inserire in un punto qualunque nel sistema delle fonti e nemmeno ad un progetto di un simile testo normativo. Allo stato, quello in commento è un articolato scritto da persone certamente competenti, alcune anche di indubbia autorevolezza, ma senza alcuna altra legittimazione se non quella di essere preparati sulla materia. Dunque l’approccio alla materia, a nostra volta, crediamo non possa essere altro che quello di realizzare una sorta di recensione a un elaborato compiuto da studiosi, e non un commento a un testo normativo. Vi sono stati esempi di scritti redatti da esperti che poi hanno ricevuto per così dire “dignità normativa” e non è escluso che anche questo possa avere la medesima sorte, tuttavia per poterlo fare dovrebbe, da un punto di vista anche solo linguistico avere meno parole. Talune disposizioni, infatti, più che regole sembrano dichiarazioni auspicabili.

Sempre in termini generali, ma sotto un altro profilo, questa carta parrebbe avere la pretesa di affiancarsi ed integrare la prima parte della Costituzione, aggiungendo alcuni diritti ad hoc per Internet al catalogo dei diritti e dei doveri già previsti dagli artt. 13 – 54 Cost. Se è così, si potrebbe anzitutto discutere dell’opportunità o meno di seguire tale “strada”; su una simile opzione nutriamo più di una perplessità, sembrandoci le norme costituzionali più che capaci di garantire anche in rete i diritti che trovano tutela nelle disposizioni tradizionali. Ma, pur volendo tralasciare una simile indecisione “di fondo”, se si vuole perseguire comunque questo disegno, pare quantomeno indispensabile che le nuove disposizioni si armonizzino e non vadano in contrasto con quelle oggi vigenti.

In quest’ottica, l’art. 9 della Dichiarazione, che esalta il diritto di manifestare il pensiero in forma anonima, non pare del tutto in linea con lo spirito di più di una disposizione della Costituzione. Infatti, l’art. 21 Cost. collega il diritto di manifestare il pensiero con i principi di responsabilità e di trasparenza. E così, in modo non del tutto diverso anche l’art. 18 Cost., vietando le associazioni segrete, impone che il confronto pubblico avvenga alla luce del sole. Insomma, in entrambi i casi presi ad esempio ci sembra che libertà assai ampie siano riconosciute, purché esercitate “a volto scoperto”.

Questo è un altro punto che, per di più, rischia di creare contrasto con il dettato dell’ordinamento vigente: la norma in esame realizzerebbe una sorta di doppio regime di cui non si comprende la ragionevolezza, nel quale sarebbe vietato vietare l’anonimo in rete, mentre la stampa clandestina è vietata.

Nel merito, poi, ci si permette di sottolineare quello che potrebbe sembrare un paradosso: il diritto all’anonimato può essere affermato solo nello Stato democratico, poiché quello autoritario mira a controllare ogni ambito della vita dei cittadini e dunque, quasi per sua natura, è portato a vietare ogni barriera che consenta di nascondere l’identità di chiunque e in particolare di coloro che si esprimono nel dibattito pubblico. Ma proprio nello Stato democratico non dovrebbe esserci ragione alcuna per sostenere la necessità dell’anonimato al fine di difendere il dissenziente, poiché lo Stato democratico si basa anche sul principio secondo cui costui deve poter esprimere senza rischi anche l’opinione discorde da quella comune.

E allora, un documento che ha l’aspirazione a far parte dell’orizzonte costituzionale dell’ordinamento potrebbe semmai prevedere una riserva di legge che garantisca il diritto a esprimere il proprio pensiero in forma anonima qualora ciò sia indispensabile per godere effettivamente esercitare tale diritto. Una simile norma consentirebbe di rimanere coerenti con l’impostazione della Costituzione, secondo cui la trasparenza è la regola e l’anonimato l’eccezione.

Nella stessa ottica, invece di “consacrare” una sorta di incomprimibile diritto all’anonimato, sarebbe ben più necessario affermare espressis verbis la estensione delle garanzie previste dai commi 2-4 dell’art. 21 Cost. anche alle manifestazioni del pensiero in rete che abbiano le caratteristiche degli stampati. In altri termini, sarebbe auspicabile ricondurre nel perimetro di tutela verso il sequestro preventivo, quelle pagine web che, in un’interpretazione evolutiva dell’art. 2 legge stampa, rechino ben evidente un responsabile della pubblicazione e il momento di inserimento in rete, precisando quindi che solo in assenza di queste caratteristiche il sequestro preventivo dei contenuti on-line sarebbe quindi sempre ammissibile, in presenza ovviamente dei presupposti codicistici. È vero che la Cassazione penale a Sezioni Unite, in una sentenza di cui si conosce al momento il dispositivo ma non ancora le motivazioni, sembra essere andata in questa direzione, ma non sarebbe comunque sbagliato che il principio venga statuito. Se il legislatore dovesse far proprio l’articolato, magari con qualche rimaneggiamento, avremmo disciplina di settore abbia una riforma razionale realizzata, finalmente dal potere politico, nel senso auspicato dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Come se fossimo in un Paese normale.

Venendo alla seconda disposizione, quella riguardante il diritto all’oblio, anche qui ci pare necessario formulare alcune considerazioni. La disposizione sembra una parafrasi non sempre coerente al suo interno di alcune idee maturate nel tempo nella riflessione di studiosi e giudici e che hanno trovato in particolare una concretizzazione nella sentenza Google Spain.

Qui di seguito cerchiamo di formulare qualche esempio concreto: non si capisce bene perché si debba limitare l’applicazione del diritto all’oblio alla sola deindicizzazione e non anche alla pubblicazione sul sito sorgente. È vero che la fruizione delle informazioni in rete viene ormai veicolata pressoché interamente dai motori di ricerca, tuttavia ciò non toglie che l’eventuale totale assenza di interesse pubblico sopravvenuto alla conoscenza del dato potrebbe giustificare, in alcune occasioni, la vera e propria cancellazione del medesimo. Non si comprende nemmeno con la necessaria chiarezza quale bilanciamento venga stabilito con la libertà di ricerca e con il diritto dell’opinione pubblica a essere informata. A una prima lettura, sembra che il primo non possa limitare i secondi. Tuttavia, una riflessione più approfondita porta a ritenere che in verità la sola posizione di un diritto all’oblio, con il suo inevitabile contenimento della libertà di diffusione dei dati, per definizione costituisce un vincolo e implica una restrizione alle libertà di ricerca e di manifestazione del pensiero. Trattandosi di diritti per così dire “confinanti”, se si intendesse davvero evitare ogni limitazioni a tali ultime libertà, ciò significherebbe far scomparire il diritto di cui si tratta. Come per le maree, l’espansione dell’uno determina inevitabilmente una contrazione dell’altro.

Altro aspetto che merita forse un cenno è la apparente limitazione dell’applicabilità della norma in commento, alle persone «note» e ad altre categorie di soggetti non sempre facilmente identificabili. L’introduzione di elementi i cui contorni sono difficilmente delineabili non sembra possa contribuire alla formazione di indirizzi interpretativi univoci, dato che invece ci pare molto importante, in una materia come quella del trattamento dei dati personali a scopi giornalistici in cui sono già numerose, perché a volte davvero inevitabili, i riferimenti a parametri obiettivamente un po’ sfuggenti.

Infine, tra gli altri punti che pure meriterebbero un cenno, ci pare necessario spendere due parole a proposito dell’ultima disposizione dell’art. 10, secondo cui qualora la richiesta di deindicizzazione sia stata accolta è statuito un generalizzato «diritto di conoscere» tali casi e un’altrettanto generalizzata legittimazione attiva ad impugnare davanti all’autorità giudiziaria le decisioni in questione. È comprensibile la ratio alla base della regola che consente questa sorta di controllo diffuso sulla cancellazione, tuttavia in concreto ciò rischia di illuminare ancora di più proprio quei dati che, ritenuti non più meritevoli di essere “sotto gli occhi” della collettività, si era deciso di deindicizzare. E questa assomiglia molto ad una beffarda eterogenesi dei fini.