La linea più breve tra due punti. La diagnosi preimpianto per le coppie fertili tra divieti irragionevoli e diritto alla salute
(a prima lettura della sentenza n. 96 del 2015 della Corte costituzionale)
Ha una lunga storia alle spalle la sent. n. 96 del 2015, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 40 del 2004 “nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili”. Una storia intricata, che ha visto intervenire diversi attori giurisdizionali, nazionali ed europei, e che alla fine di un percorso non sempre lineare ha portato all’annullamento di uno degli aspetti più contestati della legge 40/2004. La sentenza, pertanto, segna un doppio epilogo: il primo, e più importante, concernente il superamento di questa preclusione; il secondo relativo alla conferma dei rapporti ormai assestati tra giudici interni e sovranazionali.
Un primo capitolo di questa storia è costituito, dopo l’approvazione della legge 40, dalla sentenza con cui, nel 2009 (n. 151), la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità delle norme della medesima legge che obbligavano la produzione di un numero fisso di embrioni e dettavano conseguentemente la necessità inderogabile di un loro contestuale impianto. Dal venir meno di questi obblighi, infatti, la Corte non ha fatto derivare esplicitamente un’ulteriore conseguenza, consistente nella scomparsa anche del divieto della diagnosi preimpianto, che tuttavia è stata ritenuta dagli interpreti pacificamente ricompresa nel portato della sentenza (quale effetto del venir meno dell’impianto obbligatorio degli embrioni, v. anche ord. n. 97 del 2010). Su questa pronuncia ha fatto leva, successivamente, il Tribunale di Salerno che, con una discussa (e discutibile) ordinanza del 13 gennaio 2010, ha nella sostanza disapplicato le norme oggi dichiarate incostituzionali per consentire ad una coppia fertile l’accesso alle tecniche diagnostiche in questione, benché quel precedente nulla dicesse sull’argomento.
Successivamente, della questione è stata investita la Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la nota pronuncia resa nel caso Costa e Pavan ha dichiarato contrario alla Convenzione (e segnatamente al suo art. 8) il divieto in questione a carico delle coppie fertili, ravvisando una palese irragionevolezza nel fatto che ciò che ad una coppia è vietato nelle primissime fasi della gravidanza è invece consentito nelle fasi successive, quando cioè per essa si apre la strada dell’interruzione di gravidanza, con tutte le conseguenze negative che ciò comporta.
La tappa successiva è poi costituita dalla pronuncia del Tribunale di Roma che, investito in via d’urgenza proprio dai signori Costa e Pavan che chiedevano l’esecuzione del precedente europeo reso in loro favore, con una pronuncia del 23 settembre 2013 ha provveduto anch’esso a disapplicare le norme in questione, invocando però a supporto di questa conclusione l’obbligo di esecuzione derivante dall’art. 46 della Convenzione.
L’ultima tappa, a questo punto conclusiva, del complesso itinerario ora brevemente riassunto è quindi la sentenza in questione, da cui vengono precisazioni rilevanti in ordine ai termini di accesso alla diagnosi preimpianto e una sostanziale conferma, ancorché indiretta, della ripartizione di compiti tra giudici comuni e Corte costituzionale nel recepimento delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le questioni di legittimità vengono infatti sollevate dal Tribunale di Roma, adito da coppie che, pur trovandosi nella medesima situazione di Costa e Pavan, non hanno potuto beneficiare di una sentenza europea resa in loro favore e per le quali, di conseguenza, il ricorso all’incidente di costituzionalità si rivelava l’unico strumento a disposizione per far cessare il divieto posto dalla legge.
Non deve stupire la stringatezza della motivazione impiegata dalla Corte nella sua sentenza, perché essa rivela in realtà una selezione assai accorta dei parametri di costituzionalità e un impiego, a differenza di altre occasioni, condivisibile della tecnica dell’assorbimento dei motivi. Rispetto ai molteplici parametri invocati dal giudice rimettente (artt. 2, 3, 32 e 117 cpv. Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU), la Corte ritiene infatti assorbenti quelli riguardanti gli artt. 3 e 32, tenuto conto dell’irragionevolezza di una scelta legislativa che “non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire ‘prima’ alla donna una informazione che le permetterebbe di assumere ‘dopo’ una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute”. È quindi l’irragionevole bilanciamento operato dalla normativa in questione, per come esso si riflette in termini negativi sulla salute della donna, a costituire il fondamento dell’odierna decisione di incostituzionalità. Una riacquisita centralità, quella del diritto alla salute, ulteriormente avvalorata dal richiamo all’art. 6, comma 1, lett. b) della legge n. 194 del 1978, che nell’enunciare il criterio di grave pericolo “per la salute fisica o psichica della donna” quale presupposto per l’interruzione tardiva di gravidanza, viene impiegato oggi come tertium comparationis che enuncia i presupposti necessari per accedere alla diagnosi preimpianto, stabilendo così un parallelismo tra le due fattispecie e garantendo l’immediata operatività della pronuncia.
Su questo aspetto della motivazione, due appaiono i punti meritevoli di attenzione. Il primo è costituito dal chiarimento, ormai si spera definitivo, sulla legittimità della diagnosi preimpianto, i cui incerti contorni hanno fino ad ora favorito comportamenti non sempre trasparenti nelle strutture cliniche, che si sono trincerate dietro questa incertezza per negare spesso accesso al protocollo in questione. Il secondo punto è invece connesso all’individuazione delle malattie che consentono l’ammissione a queste tecniche e che la Corte, come visto, trae per analogia dalla legge sull’aborto. Da un lato, infatti, è significativo che la sentenza abbia deciso di impiegare questo termine di raffronto, invece che quello più specifico, pur invocato dai rimettenti, relativo alle malattie virali contagiose dell’uomo di cui alle Linee guida del 2008, unica ipotesi di accesso alla PMA finora garantita alle coppie fertili. Un termine, quest’ultimo, sicuramente pertinente ma che non avrebbe adeguatamente valorizzato la tutela della salute della donna, collocata oggi senza dubbio al centro della motivazione della sentenza, e che inoltre non avrebbe garantito l’operatività della pronuncia. Dall’altro lato, il richiamo al criterio fissato dalla legge 194 non impedisce alla Corte di tenere ferma per il legislatore una riserva di valutazione in questa materia, che seppure (sulla falsariga della sent. n. 162 del 2014) non è stata ritenuta tale da impedire oggi l’eliminazione delle norme in questione, ciò nondimeno richiede che in futuro ci si faccia carico di “introdurre apposite disposizioni al fine della auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base dell’evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possono giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle”.
Di non minore interesse sono poi, come anticipato, i profili della sentenza che investono i rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui pronuncia resa nel caso Costa e Pavan ha esercitato una indubbia funzione di stimolo nello spingere i giudici interni nella direzione oggi consacrata dalla sentenza 96. Se questo è vero, non deve però stupire lo spazio residuale lasciato alla Convenzione nelle motivazioni a supporto dell’incostituzionalità. Essa, infatti, oltre ad essere richiamata come argomento ad adiuvandum rispetto ad opzioni interpretative derivate in prima battuta dagli artt. 3 e 32 Cost., viene chiamata in causa solamente per predicarne l’incapacità di produrre effetti diretti nel nostro ordinamento, tenuto conto delle sue differenze strutturali rispetto al diritto dell’Unione europea. Punto, quest’ultimo, ormai del tutto pacifico, che non richiedeva chiarimento e che tuttavia nasconde il vero problema che agita il sonno della Corte costituzionale, quello cioè relativo alla disapplicazione della legge da parte dei giudici per contrasto con la CEDU. Proprio questa vicenda, come ricordato sopra, è stata infatti preceduta da almeno due pronunce che avevano scelto questa strada, quella del Tribunale di Salerno e quella, che vedeva quali parti la medesima coppia ricorrente e vittoriosa a Strasburgo, del Tribunale di Roma. Ora, se la giusta enfasi posta dalla Corte sul divieto di disapplicazione e sulla impossibilità, nel caso di specie, di operare una interpretazione adeguatrice delle norme della legge 40, possono ben valere come indiretta censura nei confronti della prima pronuncia (che aveva inopinatamente percorso questa strada), lo stesso non dovrebbe dirsi nei confronti della seconda, che adduceva elementi ben più solidi a sostegno della disapplicazione, in via eccezionale, del diritto interno: in primis l’efficacia sostanzialmente diretta ex art. 46 CEDU della sentenza resa nel caso Costa e Pavan e il sostanziale avallo offerto a questa strada dalla sent. n. 210 del 2013 della stessa Corte costituzionale. Forse, alla luce di ciò, nella sentenza in commento sarebbe stato necessario almeno un chiarimento sul punto, tenuto conto che questo indirizzo giurisprudenziale ha trovato conferme anche recenti (da ultimo nella sent. n. 49 del 2015), ma appare ancora in fase di consolidamento.
Al di là di questo aspetto procedurale, tuttavia, quel che più conta è il fatto che, nella motivazione della sentenza, il peso del parametro convenzionale (da molti considerato come dirimente) ceda il passo ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 32. Questa scelta, che pure potrebbe destare stupore, merita invece di essere accolta positivamente, perché esprime – senza alimentare sterili contrapposizioni con la CEDU e col suo giudice – l’insostituibilità del contributo di valore che può venire in taluni casi dal catalogo costituzionale dei diritti. Rispetto alla tessitura marcatamente individualistica dell’art. 8 CEDU, che ha finito per farne una sorta di diritto al libero sviluppo della personalità, non può essere infatti trascurata la assai più evidente valenza sociale e relazionale del diritto alla salute, riflesso di istanze di tutela che inseriscono quelle scelte procreative in un contesto più ampio, in cui i profili individuali non sono sovranamente autosufficienti, ma si legano a opzioni di valore proiettate sull’intera collettività (per ulteriori riferimenti su questo aspetto rinvio al mio ‘Non di sola CEDU …’ La fecondazione assistita e il diritto alla salute in Italia e in Europa, in Dir. pubbl. 2013, pp. 157 ss.).
A dispetto di ciò, non sembra che il recedere del parametro convenzionale manifesti un disegno di ‘autarchia’ costituzionale, perché esso muove pur sempre dalla presa d’atto della convergenza dei contenuti di tutela interni e sovranazionali, che non cessano di esprimere la loro specificità pur se si integrano ai fini dell’interpretazione nella risoluzione delle concrete controversie. Basti pensare, a supporto di questa conclusione, alla coincidenza tra i profili di irragionevolezza emersi nelle due sentenze e all’assenza di una censura esplicita nei confronti del Tribunale di Roma che aveva dato seguito alla sentenza europea. Ma ancor prima, si può leggere il mancato riferimento al parametro convenzionale alla luce della citata sentenza n. 49 del 2015 e al test del diritto CEDU consolidato che questa introduce. Anche per il fatto che Costa e Pavan non sembra soddisfare i requisiti di consolidamento contenuti in quella sentenza, per cui esso non dovrebbe ritenersi di per sé vincolante per i giudici interni, la Corte probabilmente omette di impiegare il parametro di cui all’art. 117 Cost. Ma al di là dell’interpretazione da dare in generale a quel test di giudizio, quello che si può dire è che, nell’ambito risolto dal caso di specie, non può essere considerato un male se a tornare protagonista è la Costituzione, perché il principio di ragionevolezza e il diritto alla salute in essa contenuti in larga parte assorbono (e trascendono) i contenuti di garanzia desumibili dalla Convenzione.