La lotta inconclusa: il difficile cammino delle unioni civili

1. Nonostante il (momentaneo) arresto dell’iter parlamentare di approvazione – dovuto alla concomitanza con la sessione di bilancio – il disegno di legge che introduce le unioni civili tra persone dello stesso sesso continua ad essere al centro del dibattito politico e di quello scientifico. Pare allora opportuno intervenire con qualche indicazione relativa al processo di approvazione, ai contenuti del disegno di legge nonché, soprattutto, ai principali nodi problematici che esso presenta.

2. Gli antecedenti sono noti: fin dal 2010, la Corte costituzionale ha riconosciuto, con la nota sentenza n. 138, che le coppie omosessuali sono una formazione sociale nella quale l’individuo liberamente svolge la propria personalità, ai sensi dell’art. 2 Cost. e che, come tali, meritano riconoscimento giuridico e protezione, nelle forme stabilite dal legislatore. Ritenuto di non poter estendere, in via interpretativa e per mezzo di una sentenza additiva – come pure era richiesto dal rimettente – la disciplina del matrimonio alle coppie omosessuali, la Corte ha rinviato, pertanto, alla discrezionalità del legislatore la scelta in merito alla forma giuridica del riconoscimento, contestualmente formulando un monito e riservandosi di intervenire – pure in assenza di un riconoscimento legislativo – a tutela di specifiche situazioni.

Nel lasso di tempo che va dal 2010 al 2015 – accanto ad un nuovo intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 170/14, relativa alla permanenza del vincolo matrimoniale per la coppia nella quale uno dei due coniugi abbia ottenuto la riassegnazione legale del genere) – il legislatore è rimasto del tutto inerte, esponendosi così alla condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo che, con la sentenza del 21 luglio 2015 (Oliari ed altri c. Italia), ha censurato detto atteggiamento di inerzia, come esempio di cattivo uso del margine di apprezzamento riservato dalla Convenzione agli Stati membri in tema di protezione della vita privata e familiare: in conseguenza del consolidamento di un consenso europeo quantomeno sull’an del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, grava infatti ormai sugli Stati, e sicuramente sull’Italia, un vero e proprio obbligo positivo di provvedere al riconoscimento – salva la scelta discrezionale sul quomodo – in vista dell’effettività della protezione della vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione.

La condanna da parte della Corte europea è intervenuta, peraltro, nel quadro di una ripresa – seppur accidentata – dell’iter parlamentare di approvazione del disegno di legge in materia. A partire dai primi mesi del 2015 si è assistito infatti ad una timida (e faticosa) accelerazione dei lavori parlamentari sul punto. In particolare, agli inizi di marzo, la Commissione Giustizia adottava un testo base, sul quale apriva un ciclo di audizioni e attendeva i pareri delle Commissioni competenti in sede consultiva: tra i pareri infine resi si segnala quello della Commissione Affari costituzionali – del 12 maggio 2015 – che ha contribuito alla definizione e all’inquadramento costituzionale dell’istituto delle unioni civili, correttamente riconducendolo alla previsione di cui all’art. 2 Cost. ma riconoscendo, al tempo stesso, la sua natura di istituto giuridico “modellato” sul matrimonio ed auspicando – pro futuro – la progressiva completa equiparazione del trattamento giuridico della vita familiare omosessuale e di quella eterosessuale (in particolare, sotto forma di meno rigidi percorsi interpretativi dell’art. 29 Cost., ispirati ad una concezione dinamica del rapporto tra esperienza costituzionale ed esperienza storica).

Successivamente, si apriva la fase emendativa, caratterizzata – come noto – dall’atteggiamento marcatamente ostruzionistico di alcune forze politiche (su tutte, NCD-AP e Lega) e dalla conseguente presentazione di alcune migliaia di emendamenti. Ad un primo tentativo (fallito) di calendarizzazione del disegno di legge in aula per la prima settimana di agosto, faceva seguito una ripresa della discussione nel mese di settembre, caratterizzata dall’approvazione di alcuni emendamenti (formulati dalla stessa relatrice, Sen. Cirinnà, e modificati dall’intervento dei settori cattolici del Partito Democratico), ed in particolare di quello – assai dibattuto, e sul quale meglio ci si soffermerà in seguito – che qualifica le unioni civili alla stregua di “specifiche formazioni sociali”, nel tentativo – come vedremo assai fragile nelle premesse e negli esiti – di approfondire il solco tra queste ed il matrimonio.

Tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre è maturata, nello stesso Partito Democratico, la consapevolezza dell’impossibilità di ottenere, nei tempi rapidi richiesti dal dibattito pubblico e dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, l’approvazione del disegno di legge da parte della Commissione e la successiva trasmissione in Aula: in conseguenza, la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari di Palazzo Madama approvava – nella seduta del 12 ottobre 2015 – la calendarizzazione del provvedimento in Aula senza relatore. Nella seduta del 13 ottobre, l’Assemblea del Senato adottava come testo base un nuovo disegno di legge (AS 2081), coincidente con il testo base adottato in Commissione, fatte salve una serie di modifiche – anche rilevanti – che recepivano, da un lato, gli emendamenti approvati e, dall’altro, tentavano una mediazione su alcuni profili, ed in particolare sul tasso di omogeneità, a livello simbolico e sostanziale, tra l’unione civile ed il matrimonio. La discussione del disegno di legge veniva infine sospesa per la concomitanza con la sessione di bilancio, ed aggiornata a data da destinarsi.

3. Il disegno di legge cd. “Cirinnà” – nella sua ultima versione, e relativamente al suo primo Titolo (il secondo essendo dedicato invece alla disciplina delle convivenze etero- ed omosessuali) – introduce nel nostro ordinamento un nuovo istituto di diritto familiare, che potrebbe essere qualificato nei termini di una “unione familiare non coniugale” riservata a coppie formate da persone dello stesso sesso. Si tratta di una soluzione analoga a quella adottata – fin dal 2001 – dal legislatore tedesco e da quello austriaco e, dal 2004 al 2013 (anno di introduzione del matrimonio egualitario) dal legislatore del Regno Unito: in tali ordinamenti, come nel nostro (ove il procedimento parlamentare di approvazione vada a buon fine), la soluzione prescelta per riconoscere la vita familiare omosessuale è stata quella di creare un istituto ad hoc, riservato alle coppie omosessuali ed in larga parte coincidente, nel contenuto, con il matrimonio. Se nel Regno Unito, peraltro, le differenze si limitavano alle modalità di celebrazione, in Germania e in Austria – come, in futuro, in Italia – il trattamento differenziato incide soprattutto sulla disciplina dei rapporti di filiazione, nel senso di precludere alle coppie omosessuali la possibilità di procedere all’adozione congiunta di un minore.

Una ulteriore analogia tra la soluzione italiana e quella tedesca risiede, inoltre, nella tecnica di normazione prescelta, vale a dire il rinvio a tutta una serie di disposizioni del codice civile dettate in relazione al matrimonio, a confermare il nesso analogico sussistente tra i due istituti, conseguenza della loro identica ratio (la tutela dell’autodeterminazione affettiva e della vita familiare attraverso la disciplina dei rapporti reciproci tra i partner). In particolare, vengono disciplinati mediante rinvio al codice civile i rapporti patrimoniali tra i partner (art. 3, comma 3), i diritti successori (art. 4), lo scioglimento dell’unione civile (art. 6), nonché alcuni profili della capacità di contrarre l’unione civile (art. 2, comma 3, lett. c); art. 2, comma 4). Il rinvio agli artt. 143, 144, 145 e 147 del codice civile (relativi a diritti e doveri dei coniugi e doveri verso i figli) – recato dal testo base discusso in Commissione – è invece stato espunto dal testo del ddl 2081 presentato per l’Aula, e sostituito da una parziale riscrittura degli artt. 143 e 144 nei primi due commi dell’art. 3 (mentre non compare più alcun riferimento al contenuto dell’art. 145 – intervento del giudice in caso di disaccordo tra i coniugi – e dell’art. 147, relativo ai doveri verso i figli, ma a questi ultimi si applicheranno, in ogni caso, gli artt. 315 bis e ss. del Codice civile). Tale operazione – del pari di quella tentata con l’approvazione del nuovo art. 1 (che definisce l’unione civile in termini di “specifica formazione sociale”) – è finalizzata, nelle dichiarazioni degli stessi firmatari, a rendere meno “divisivo” il testo, eliminando il rinvio a disposizioni profondamente legate alla carica simbolica dell’istituto matrimoniale. Tuttavia, come si accennava, il contenuto degli artt. 143 e 144 è stato in larga parte trasfuso nel testo, all’art. 3, commi 1 e 2. La differenza più significativa, peraltro, risiede nella sostituzione della locuzione “contribuire ai bisogni della famiglia” (in tema di obbligo dei coniugi al sostentamento della famiglia) con quella di “contribuire ai bisogni comuni”. Resta tuttavia, al comma 2, il riferimento alla determinazione concordata dell’ “indirizzo della vita familiare”, già contenuta all’art. 144 del codice civile: il legislatore prende atto, in tal modo, della circostanza che le coppie omosessuali danno vita ad unioni di tipo familiare, pur se non riconosciute attraverso il matrimonio, con ciò recependo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, a partire dal noto precedente Schalk and Kopf c. Austria (24 giugno 2010, ric. n. 30141/04) ha affermato che le coppie omosessuali godono del diritto alla tutela della vita familiare, garantito dall’art. 8 della Convenzione. Pare assai rilevante che il legislatore – pur nell’intento, già ricordato, di approfondire il solco tra unione civile e matrimonio a fini di mediazione antiostruzionistica con l’area cattolica conservatrice (mediazione peraltro respinta al mittente) – sancisca comunque la natura familiare dell’unione civile omosessuale specie, come vedremo, in relazione alla più corretta interpretazione della locuzione “specifica formazione sociale” contenuta all’art. 1.

Ulteriore disposizione rilevante del disegno di legge in esame è l’art. 3, comma 4. Attraverso tale disposizione, il legislatore mira a rafforzare l’omogeneità di disciplina tra unione civile e matrimonio, con riferimento alle disposizioni – di rango primario o secondario, nonché di atti amministrativi e contratti collettivi, con esclusione delle norme del codice civile non richiamate dal disegno di legge e delle disposizioni di cui al Titolo II della legge n. 183/84 – relative al matrimonio, prevedendo che “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti […] si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile”. Vale rilevare che, per tale tramite, si assicura ad esempio alle coppie omosessuali unite civilmente il diritto alla reversibilità della pensione (altro profilo di innovazione e concreta tutela assai dibattuto in sede politica), attualmente recato dall’art. art. 13 del R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, che prevede che “nel caso di morte del pensionato o dell’assicurato […] spetta una pensione al coniuge […]”. Analogo intento di coordinamento delle disposizioni vigenti con il nuovo istituto dell’unione civile è recato peraltro dall’art. 8 del disegno di legge in commento, che delega il Governo ad adottare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, decreti legislativi volti, tra l’altro, ad assicurare l’adeguamento all’unione civile delle disposizioni relative allo stato civile, della normativa di diritto internazionale privato (prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civile “alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo”, art. 8, comma 1, lett. b), nonché ad apportare le modificazioni ed integrazioni necessarie per il generale coordinamento delle disposizioni vigenti con le previsioni della legge sulle unioni civili.

Con riferimento specifico, invece, alla disciplina dei rapporti di filiazione, l’art. 5 mira ad introdurre nel nostro ordinamento una ipotesi di “stepchild adoption” (o adozione del “figliastro”), consentendo al partner di una unione civile di ricorrere all’adozione “in casi particolari” di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) della legge n. 183/1984, per stabilire una relazione giuridica stabile con il figlio – naturale o adottivo – del proprio partner. Si tratta di un tentativo – peraltro non scevro da profili di debolezza – di garantire protezione a situazioni, già presenti nella realtà sociale, in cui la coppia omosessuale abbia accolto al proprio interno dei figli – indipendentemente dal modo in cui questi siano stati messi al mondo o, appunto, accolti nella famiglia – che tuttavia, ai sensi della legislazione italiana vigente, possono essere riconosciuti soltanto come figli del genitore biologico o adottivo, restando sprovvisto di riconoscimento e protezione il rapporto tra essi e il genitore sociale (cioè il partner del genitore biologico o adottivo). Il (limitato) scopo della cd. stepchild adoption è, pertanto, quello di garantire – nel supremo interesse del minore, vale ribadirlo – certezza giuridica alle relazioni familiari cui la coppia omosessuale ha dato vita, evitando che, ad esempio, in caso di morte del genitore biologico o adottivo, il minore venga sottratto al genitore sociale: si tratta, pertanto, di relazioni familiari già esistenti, ed esposte a notevoli incertezze e concreti rischi, in conseguenza dell’assenza di riconoscimento e protezione. Si noti, infine, che l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) della legge n. 183/84 si distingue per numerosi aspetti dalla cd. adozione “piena” o legittimante, non riconoscendo, ad esempio, nessun tipo di rapporto tra il minore e la famiglia dell’adottante.

4. Profilo centrale del dibattito attualmente in corso sulle unioni civili è, come più volte accennato, quello dei rapporti tra l’istituto in questione ed il matrimonio. La scelta di riservare alle coppie omosessuali un trattamento differenziato rispetto a quello coniugale – esclusivo delle coppie eterosessuali – è stata assai contestata, in sede scientifica e politica, ed anche da parte delle associazioni e dei collettivi LGBTQI. Si ritiene – condivisibilmente – che l’unica scelta normativa in grado di assicurare piena ed effettiva pari dignità sociale alle coppie formate da persone dello stesso sesso sia quella dell’apertura del matrimonio in senso egualitario – come peraltro già avvenuto in numerosi ordinamenti, europei e non solo – e che, di conseguenza, il trattamento differenziato realizzato con l’unione civile debba andar soggetto ad un controllo di ragionevolezza assai penetrante, per evitare ogni violazione dell’art. 3 Cost. D’altra parte, ed in considerazione del concreto andamento del processo politico, si deve sottolineare che l’unione civile, nella configurazione recata dal disegno di legge in commento, può rappresentare, in ogni caso, un accettabile punto di partenza per un più articolato percorso di riconoscimento della piena pari dignità sociale delle persone e delle coppie omosessuali; allo stesso tempo, non si può dimenticare che la legge, una volta approvata, avrebbe il merito di assicurare concreta protezione a situazioni di vita che attualmente ne sono sprovviste, con effetti positivi in termini di integrazione sociale delle persone omosessuali e delle loro famiglie, con ciò realizzando, almeno in parte, la promessa di promozione della persona umana e il conseguente progetto di integrazione sociale recati dagli artt. 2 e 3 Cost., anche nei confronti di chi – come gli omosessuali – ne è stato sempre tenuto al margine, come assente. Eppure, non può escludersi che, proprio in quanto recante un trattamento differenziato, la disciplina dell’unione civile possa (e debba) essere sottoposta a giudizi antidiscriminatori, dinanzi alle corti interne, come a quelle sovranazionali. In quest’ottica, pare importante tornare a soffermarsi, in conclusione, sul profilo definitorio, vale a dire sul concetto di “specifica formazione sociale” introdotto all’art. 1 del disegno di legge. Come si è detto, tale qualifica rileva, sul piano politico, come segnale dell’intenzione di approfondire – se non altro sul piano simbolico e terminologico – la differenza tra l’unione civile ed il matrimonio, riconducendo la prima nell’ambito dispositivo dell’art. 2 Cost., ed evitando ogni possibile riferimento all’art. 29; essa si è accompagnata, con identico intento, all’espunzione del rinvio agli art. 143, 144 e 147. Si ritiene tuttavia, su di un piano strettamente tecnico-giuridico, che simili espedienti non possano valere ad impedire il giudizio di omogeneità tra gli istituti dell’unione civile e del matrimonio, rilevante soprattutto ai fini di futuri (e probabili) controlli di ragionevolezza. Dirimenti, in questo senso, due elementi fondamentali: anzitutto, la chiara opzione del legislatore nel senso della qualificazione dell’unione civile quale realtà di tipo familiare (art. 3, comma 2) ed in secondo luogo – e soprattutto – la persistenza del dato dell’omogeneità sostanziale di disciplina (data dai rinvii al Codice civile, e soprattutto dalla clausola interpretativa di cui all’art. 3, comma 4). L’unione civile è e resta (o meglio, sarà) un istituto modellato sul matrimonio, perché destinato a disciplinare situazioni di vita analoghe, caratterizzate da identità di bisogni e desideri, ed egualmente funzionali al libero sviluppo della personalità, e dunque alla piena protezione della dignità della persona, sotto il profilo del riconoscimento e della protezione dei percorsi di autodeterminazione affettiva: l’ascrizione alla categoria delle formazioni sociali non può che essere letta in quest’ottica, con l’aggiunta (significativa) che si tratta di una formazione sociale di tipo familiare. Ne consegue che ogni trattamento differenziato recato dalla (futura) legge – e dunque, ad oggi, anche ogni tentativo di svilirne ulteriormente il contenuto, specie sul piano del diritto alla reversibilità della pensione e della disciplina dei rapporti di filiazione – dovrà misurarsi con simile inquadramento costituzionale, e superare il vaglio del controllo antidiscriminatorio. E si ricordi, solo per rimanere ai due esempi appena riportati, che tanto il diritto alla reversibilità della pensione quanto la possibilità di adottare (almeno) il figlio del partner sono stati oggetto di pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea (1 aprile 2008, Maruko in c. C-267/06 relativa alla reversibilità) e della Corte europea dei diritti dell’uomo (19 febbraio 2013, X contro Austria, ric. n. 19010/2007, relativa proprio all’adozione del figliastro): in entrambe le fattispecie, le Corti hanno sottoposto le legislazioni interne ad un severo controllo di ragionevolezza, dovuto per il caso di (sospette) discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale. Insomma, il disegno di legge in discussione – che pure pone fine ad un vuoto legislativo ormai foriero di violazioni gravi, ripetute ed odiose, dei diritti fondamentali ed allevia, almeno in parte, una quotidianità incerta, faticosa, marginale per le persone omosessuali e le loro famiglie – non potrà che essere un passaggio intermedio, punto di partenza per nuove battaglie, nella lotta inconclusa per il riconoscimento, il diritto, la giustizia e la pari dignità sociale.

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