Diritti fondamentali dei minori e costruzione della comunità politica nella riforma della legge sulla cittadinanza
1.“La cittadinanza ha qualità di diritto fondamentale e trova le proprie radici nella dignità dell’uomo”. Il richiamo di un risalente contributo di Peter Häberle può suggerire uno dei molteplici approcci con cui inquadrare la riforma della legge sulla cittadinanza approvata dalla Camera il 13 ottobre e attualmente in discussione al Senato. Il passo appare ancor più signifcativo se si considera che una delle caratteristiche più importanti del disegno di legge consiste nel riconoscimento del diritto soggettivo alla cittadinanza per le cd. seconde generazioni e i minori giunti in Italia in tenera età. In questa prospettiva, si tenterà di illustrare in che modo la riforma sia rilevante nella prospettiva della protezione dei diritti fondamentali e in che modo essa intercetti un’indifferibile esigenza di rinnovamento dei confini della comunità politica. In particolare, non deve essere sottovalutato il peso della rivendicazione di una parte della società civile che ha contribuito alla formulazione del progetto di legge in discussione (seppur il testo appaia alquanto depotenziato rispetto alla proposta di legge di iniziativa popolare presentata nell’ambito della campagna l’Italia sono anch’io). Non si vuole in tal modo sminuire la portata teorica della ridefinizione di uno degli assi portanti della esperienza costituzionale europea, bensì provare a chiarire in che modo sia possibile riallineare la normativa alla realtà della società di immigrazione italiana (Einwanderungsgesellschaft), a partire dalla riformulazione dei criteri di accesso alla cittadinanza, dalla ricostruzione dei diritti, dal ripensamento della “formula costituzionale di convivenza” (così A. Schillaci, Per una rinnovata centralità della persona del migrante: il giurista di fronte alla Carta di Lampedusa, in Quest. Giust., 3/14, p. 136) e dal contributo della società civile (valorizza questo aspetto M. Malena, Principio dello ius soli e requisiti per la naturalizzazione: implicazioni e problematiche nell’acquisizione della cittadinanza italian, Alss 3/13, 409 ss.). Occorre precisare che la riforma ha un ambito di applicazione personale circoscritto, in quanto essa è diretta a facilitare l’acquisto della cittadinanza da parte dei bambini nati in Italia o da quelli giunti entro il dodicesimo anno di età, prevedendo a tal fine requisiti non di poco momento. Non vi sono disposizioni a favore dei minori stranieri non accompagnati né dei minori figli di stranieri irregolari e resta immutata – salvo il caso di cui si dirà – l’ipotesi di acquisto della cittadinanza mediante naturalizzazione a seguito di una residenza ininterrotta di dieci anni.
2.La riforma prevede una gradazione crescente dei requisiti necessari per l’ottenimento della cittadinanza a seconda del momento in cui la persona “entra in contatto” con il territorio italiano. Nel caso in cui il minore nasca in Italia l’acquisto della cittadinanza è subordinato al possesso da parte di almeno uno dei genitori del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo (o della precedente carta di soggiorno): in tal caso il minore è titolare del diritto soggettivo all’acquisto della cittadinanza (ius soli temperato; occorre una dichiarazione di volontà di uno dei genitori entro il diciottesimo anno di età o in mancanza entro due anni dalla maggiore età da parte dell’interessato). Le condizioni per divenire cittadino sono più rigide nel caso in cui il minore sia nato in Italia ma nessuno dei genitori sia titolare del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo, oppure laddove il minore non sia nato in Italia ma sia entrato prima del compimento del dodicesimo anno di età. Anche in queste ipotesi il disegno di legge riconosce il diritto alla cittadinanza ma è necessario che il minore abbia frequentato un ciclo formativo di almeno cinque anni, con l’ulteriore requisito – a cui si poteva rinunciare – del necessario superamento dell’esame finale nel caso in cui tale formazione corrisponda alla frequentazione della scuola primaria (c.d. ius culturae; anche in tale ipotesi la dichiarazione di volontà deve essere espressa da uno dei genitori entro la maggiore età o entro due anni anno da questa data da parte dell’interessato). Infine, la fattispecie residuale per il minore che fa ingresso in Italia prima della maggiore età ma che non può esercitare né lo ius soli né lo ius culturae consiste in una nuova fattispecie di naturalizzazione: anche in questa ipotesi è il dodicesimo anno di età ad essere preso come riferimento, dal momento che il minore deve aver risieduto in Italia almeno sei anni prima del compimento del diciottesimo anno di età. É inoltre richiesta anche in questo caso la frequenza di un ciclo scolastico o un percorso di formazione professionale e l’ottenimento del relativo titolo (o la qualifica professionale). Va precisato che a differenza delle due ipotesi precedenti, in questo caso si tratta di un provvedimento concessorio – e non l’esercizio di un vero e proprio diritto soggettivo – il cui procedimento segue la disciplina prevista per le altre fattispecie di naturalizzazione indicate dalla legge del 1992.
Tra le ulteriori disposizioni contenute nel disegno di legge, appare degna di nota la previsione – mutuata dall’art. 33, co. 2, d.l. 69/2013 – secondo cui gli ufficiali dell’anagrafe sono tenuti a comunicare agli stranieri residenti, la facoltà di acquisto del diritto di cittadinanza. Nel caso in cui ciò non avvenga è sospeso il termine di decadenza di due anni per la dichiarazione di scelta della cittadinanza.
3.Si tratta di una disegno di riforma che ha l’ambizione di intervenire almeno su un ambito del mutato contesto sociale (quello cioè delle seconde generazioni) e che rappresenterebbe il segnale di una maturazione, ancorché tardiva, delle politiche migratorie nazionali, riconoscendo la necessità di sottrarre una cospicua porzione della popolazione stabilmente residente nel territorio all’ambito di applicazione delle norme sull’immigrazione. Come testimoniano recenti dati dell’Istat il peso delle c.d. seconde generazioni (la definizione è tuttavia problematica) all’interno del totale della popolazione è significativo: i nati da genitori stranieri rappresentano il 14% del totale dei bambini nati nel 2013 (77.705 su 514.308) e i residenti minori privi della cittadinanza italiana costituiscono quasi un quarto del totale degli stranieri regolarmente residenti nel 2014 (il 23,9%; da notare che i minori italiani costituiscono il 16% della popolazione, dati Istat). Inoltre, considerando la scuola dell’infanzia e l’istruzione primaria e secondaria, gli studenti stranieri sono attualmente pari a 814.187 mila, di cui 450.362 nati in Italia, rappresentando il 9.2% degli studenti italiani (Dossier statistico immigrazione, 2015, p. 478). In particolare, seppur negli ultimi anni vi sia stato un incremento numerico nella concessione della cittadinanza del numero di cittadinanze rilasciate, recenti dati dell’Eurostat rilevano un tasso di riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione in rapporto alla popolazione straniera assai inferiore rispetto alla media europea (cfr. qui).
Quali sarebbero quindi i benefici di tale riforma? Almeno quattro dimensioni meritano di essere segnalate: l’impatto della riforma sulla facilitazione dell’accesso alla cittadinanza, sul riconoscimento dei diritti, sulla capacità di promuovere l’inclusione e la partecipazione alla vita politica, nonché sull’attivazione di un duplice processo, individuale e collettivo, di ripensamento dell’appartenenza alla comunità politica (cfr. per un diverso approccio il recente contributo di M.C. Locchi, Lo jus soli nel dibattito pubblico italiano, in Quad. cost., 2014).
3.1. Attualmente, le possibilità per lo straniero nato in Italia di acquisire la cittadinanza italiana sono particolarmente complesse. La via principale è quella fornita dall’art. 4, secondo comma della l. 91/1992, in base al quale può acquisire la cittadinanza lo straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni qualora presenti apposita richiesta entro un anno dal raggiungimento della maggiore età (il d.d.l., all’art. 1 lett. b, prevede l’innalzamento di tale termine fino a due anni). La norma ha sollevato non pochi problemi nella prassi applicativa, atteso che il regolamento di esecuzione della normativa sulla cittadinanza (cfr. art. 1, co. 2, d.p.R. 572/1993) prevede che, ai fini del rispetto del requisito della residenza regolare, occorre non solo il rispetto delle norme in materia di ingresso e soggiorno ma anche di quelle relative all’iscrizione anagrafica: i genitori infatti devono inserire il figlio nel proprio permesso di soggiorno e provvedere alla loro iscrizione anagrafica nei registri comunali. Si trattava di requisiti particolarmente penalizzanti, il cui inadempimento risultava sanzionato in modo sproporzionato rispetto all’obiettivo, dal momento che il minore rischiava di vedere sfumare la possibilità di divenire cittadino a causa di una iscrizione anagrafica assente o anche solo tardiva. Di recente il legislatore – recependo alcuni indirizzi emersi in sede ministeriale e giurisprudenziale (ricostruisce la vicenda Capesciotti, Su alcune novità legislative e giurisprudenziali in tema di seconde generazioni dell’immigrazione, in Rivista AIC, 1/14, p. 2-5) – è intervenuto attenuando la rigidità del sistema e inserendo un’apposita disposizione (art. 33, d.l. 69/13), con cui si prevede che “non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione”, cosicché l’interessato “può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni idonea documentazione”. É pur vero che l’indubbia opportunità di questa norma, che permette di “regolarizzare” una tardiva o assente iscrizione, secondo diversi autori non può considerarsi interamente risolutiva (cfr. ancora Capesciotti, cit. e M. Giovannetti, N. Zorzella, Da nativi stranieri a cittadini italiani. L’art. 33 del d.l. 69/2013: tra apertura e occasione mancata, in Dir., imm., citt., 3/13, spec. pp. 19 ss.).
In sostanza, l’apertura di un nuovo canale di accesso alla cittadinanza mediante le fattispecie dello ius soli e ius culturae, permetterebbe di risolvere in modo definitivo la vexata quaestio dell’art. 4, secondo comma, eliminando le incertezze applicative della norma e attribuendo piena effettività al diritto alla cittadinanza. Va ricordato, in ogni caso, che laddove lo straniero nato e cresciuto in Italia non possa divenire cittadino attraverso lo strumento fornito dall’art. 4, co.2, rimangono le procedure previste per gli stranieri adulti (naturalizzazione, matrimonio). In alternativa, la cittadinanza può essere concessa una volta raggiunta la maggiore età a seguito di tre anni di regolare residenza oppure nel caso in cui almeno uno dei genitore abbia acquisito la cittadinanza, purché conviva con i genitori e sia ancora minorenne (il d.d.l. prevede l’eliminazione del requisito della convivenza con i genitori).
3.2. Inoltre, con riferimento agli ulteriori aspetti positivi in termini di approfondimento dei diritti, si può ricordare, per un verso, che la disciplina della condizione giuridica dei minori stranieri è, come noto, più favorevole rispetto a quella degli stranieri adulti: si pensi alla non configurabilità dell’irregolarità del soggiorno per il minore – che vanta un diritto ad acquisire il permesso di soggiorno per minore età – anche se nel caso di figli di genitori in posizione irregolare tale principio subisce sostanziali limitazioni; alla disciplina del trattenimento e alla espulsione, che risultano vietati salva la necessità di assicurare il superiore interesse del minore; all’accesso all’istruzione, ad un’abitazione, all’assistenza sanitaria (cfr. Gruppo CRC, I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, VIII rapporto, 2014-15). D’altro canto, permangono numerosi ambiti in cui l’assenza dello status civitatis per il minore rappresenta un fattore che condiziona l’accesso a determinati diritti e costituisce un elemento di discriminazione, potenzialmente produttivo di marginalità sociale. Si pensi innanzitutto alla privazione dei diritti politici: anche se come è evidente il minore non può esercitare il diritto di voto, non può essere sottostimato il potenziale simbolico – tanto sul piano individuale che collettivo – che riveste il riconoscimento della possibilità di poter esser parte, una volta raggiunta la maggiore età, della comunità politica che legittima le assemblee elettive nei diversi livelli di governo. Si pensi, inoltre alle limitazioni alla libertà di circolazione, in forza del requisito richiesto della residenza nel territorio nazionale “senza interruzioni”, necessario per l’acquisto della cittadinanza – e che può incidere ad esempio nella possibilità di trascorrere dei periodi nel proprio paese di origine così come nella possibilità di partecipare a progetti di scambio internazionale; sembra invece risolto il problema delle gite scolastiche): a tal riguardo un ulteriore aspetto positivo della riforma consiste nel fornire indicazioni circa l’interpretazione del requisito della residenza continuativa “senza interruzioni” (sono infatti consentiti soggiorni all’estero fino a 90 giorni per anno, calcolati sul totale degli anni considerati e non sono permessi superiori ai sei mesi consecutivi salvo per l’adempimento degli obblighi militari e per motivi di salute). Ma si pensi anche ad altre ipotesi di discriminazione che possono incidere nel percorso di crescita di un minore come l’attenuazione del c.d. diritto al gioco determinato dai limiti al tesseramento dei minori stranieri nell’ambito delle attività calcistiche non professionali (cfr. al riguardo il d.d.l. 1949, approvato dalla Camera dei deputati il 14 aprile 2015 sul cd. ius soli sportivo, volto a garantire le medesime procedure di tesseramento previste per i cittadini italiani in favore dei minori stranieri residenti in Italia dal decimo anno di età).
4.Più in generale, le potenzialità della riforma possono avvertirsi in una duplice dimensione soggettiva e oggettiva e cioè da un lato sul terreno della promozione del legame tra cittadinanza e autodeterminazione individuale e dall’altro sul rafforzamento dell’integrazione sociale. L’estensione delle ipotesi di riconoscimento della cittadinanza come diritto e l’allargamento degli spazi di naturalizzazione per chi ha compiuto un ciclo scolastico rappresentano l’occasione per favorire un percorso di autocomprensione individuale e di pieno sviluppo della personalità, dal quale attualmente è esclusa una parte consistente della popolazione residente; al contempo le novità proposte possono contribuire alla rimozione delle barriere che ostacolano il processo di reciproco riconoscimento nella società.
Indubbiamente, non possono essere sottovalutati alcuni limiti della riforma, già sottolineati in altri contributi (cfr. i rilievi di Asgi e Briguglio). Oltre all’ambito personale di applicazione circoscritto, non può non rilevarsi il peso che riveste la critica nei confronti della riforma di aver disegnato una cittadinanza censitaria, che deriva dall’ancoraggio del diritto alla cittadinanza per nascita al possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo, come noto rilasciato sulla base della dimostrazione di requisiti reddituali consistenti. Si tratta di un depotenziamento del diritto in questione di cui occorrerà valutare la compatibilità con il principio di eguaglianza: per inciso, si può ricordare che la subordinazione dell’accesso a determinati diritti e prestazioni sociali al possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo ha portato ad una lunga serie di declaratorie di incostituzionalità (cfr. C. cost. 187/2010 e seguenti: cfr. A. Ciervo, La sentenza n. 22/2015 della Corte costituzionale in materia di prestazioni assistenziali a favore degli stranieri extracomunitari. Cronaca di una dichiarazione di incostituzionalità annunciata, in federlismi.it). Pur avendo ad oggetto un ambito diverso, ci si potrebbe interrogare sulla rilevanza di alcuni passaggi argomentativi di quella giurisprudenza, come quando la Corte ebbe a dire che “una volta che il diritto a soggiornare non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri stabilendo nei loro confronti particolari limitazioni né per il godimento dei diritti fondamentali, né nell’esercizio dei doveri di solidarietà previsti dalla Costituzione” (C. cost. 306/08). In ogni caso, in quest’ambito è un altro il profilo che sembra particolarmente problematico. Nella consapevolezza del margine di discrezionalità politica di questa materia, deve essere richiamato il paradosso per cui il diritto alla cittadinanza è subordinato al possesso di una qualità altrui; si tratta di una compressione di un diritto che sebbene ricorrerebbe anche nel caso in cui il riconoscimento della cittadinanza fosse subordinato al possesso del permesso di soggiorno da parte di uno dei genitori, è indubbio che nel caso del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo assume un carattere macroscopico, e incide in particolar modo nell’ambito di vita descritto dall’art. 3, comma 2 cost. Si è quindi già proposto di sostituire questo requisito con la dimostrazione della residenza regolare di cinque anni: ciò permetterebbe di non svilire l’intento egualitario della riforma e di non pregiudicare dall’accesso ai diritti chi già si trova ai margini della società (“è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico”, N. Urbinati, Cittadini si nasce o si diventa, La Repubblica, 15.10.2015).
Nonostante tali rilievi – e i restanti a cui si è rinviato supra – la recente proposta può esser letta come un segnale positivo: in particolare per favorire l’abbandono di una persistente rivendicazione di un modello premiale di appartenenza e per avviare una progressiva transizione ad un’accezione promozionale di cittadinanza (cfr. sul punto M. Savino, Quale cittadinanza per l’Italia, in Id. (a cura di), Oltre lo ius soli: la cittadinanza italiana in prospettiva comparata, Ed. scientifica, p. 29), basata cioè sul riconoscimento della rilevanza del diritto di cittadinanza come chiave di volta per la realizzazione dell’integrazione attraverso l’esercizio dei diritti, e come elemento fondativo del percorso di autodeterminazione individuale. In conclusione, si può richiamare la genesi sociale e partecipativa della riforma per rilevare che lungi dall’essere oggetto di un “regalo” (per richiamare un’espressione alquanto abusata nel dibattito politico), i criteri di accesso alla cittadinanza, così come riformulati nel disegno di legge, rappresenterebbero l’esito di un faticoso percorso di emersione delle istanze della società civile le quali recepite da una rete trasversale e molteplice di associazioni si impongono all’attenzione del legislatore.