Riforma costituzionale e linguaggio non discriminatorio. Una breve riflessione
(Il testo è una sintesi estrapolata dallo scritto intitolato “Eguaglianza di genere e principio antisubordinazione. Il linguaggio non discriminatorio come caso di studio”, in corso di pubblicazione in GenIUS. Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, 2016)
La legge di revisione costituzionale or ora approvata in prima lettura dal Parlamento italiano sollecita una breve riflessione sull’uso del linguaggio non discriminatorio negli atti giuridici.
Il tema offre varie angolature di analisi, in virtù dei molteplici legami che la linguistica intreccia col diritto, identificabili in special modo nelle sfere della semantica giuridica, della filosofia del diritto, della logica deontica, della giuscomparazione. I rapporti fra queste due discipline si innervano anche nell’universo dei diritti, a partire dalle teorie che fondano il costituzionalismo contemporaneo e dalle concezioni dell’eguaglianza. In questa prospettiva, una considerazione preliminare poggia sul piano semantico, ispirata da un dialogo fra Alice e Humpty Dumpty che compare nel racconto di Lewis Carrol Attraverso lo specchio. In un passaggio caro a linguisti e giuristi, ad Alice, che rimprovera a Humpty Dumpty l’attribuzione di un significato arbitrario a una parola, questi replica che «essa significa esattamente quello che decido io … né più né meno». E, di fronte alle proteste di Alice: «bisogna vedere se voi potete dare tanti significati diversi alle parole», Humpty Dumpty conclude: «bisogna vedere chi comanda… ecco tutto»[1]. In verità, di solito le parole non significano quello che ciascuno decide vogliano dire. Il loro contenuto è dato dall’uso che delle parole stesse si fa comunemente. Nella prospettiva di genere, studiare il linguaggio induce però a riflettere sull’ipotesi che Humpty Dumpty non abbia tutti i torti.
Gli studi di genere smascherano l’androcentrismo insito nelle espressioni lessicali, dovuto al predominio del maschile che ha una doppia valenza. Marcata, ossia riferita solo agli uomini, e una non marcata, riferita a entrambi i sessi in quanto il maschile si considera neutro, sebbene nella lingua italiana il genere neutro non esista[2]. Diversamente, il femminile è sempre marcato. Questi casi palesano una dissimmetria grammaticale, visto che il linguaggio simbolizza al suo interno la differenza sessuale in forma già gerarchizzata e orientata[3]. L’uso del genere maschile al singolare, qualora incorpori il femminile, non è né neutro né inclusivo; declinato al plurale, il maschile può svolgere una funzione inclusiva del femminile, senza però divenire neutro. Non è neutro in quanto impiegare un termine al posto di un altro comporta una modifica nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta[4]. E mediante la verbalizzazione di concetti si veicolano stereotipi di genere.
Gli stereotipi operano come strumenti di definizione dell’identità propria e altrui, servendosi della semplificazione, della riduzione o della negazione delle differenze per mantenere l’ordine simbolico e sociale prefissato. Volgendosi a un gruppo subordinato, gli stereotipi contribuiscono a perpetuare l’egemonia, perché agiscono non con la forza bensì con la persuasione[5]. La produzione della conoscenza, veicolata in massima parte dal linguaggio, è profondamente politica. E anche il diritto è parte di quel tipo di conoscenza e dunque della struttura che garantisce il potere a certi gruppi dominanti. Si parla di “norma maschile”, o di patriarcato o di sistema sesso-genere, per intendere che il diritto non è neutro, essendo inficiato dalla struttura di potere dominante che assegna un ruolo subordinato alle donne[6]. Nonostante l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e in professioni storicamente riservate agli uomini sia oramai un dato acquisito, il linguaggio continua a veicolare soprattutto il genere maschile: avvocata, notaia, chirurga, ministra, sindaca, ecc., sono termini ancora poco usati, anche dalle stesse professioniste o titolari dell’incarico.
Le attuali concezioni dell’eguaglianza ambiscono alla liberazione da forme di subalternità. La subordinazione è diseguaglianza di potere, che si traduce in esclusione, svalutazione, mancanza di autonomia[7]. Funzionale a tale prospettiva è la precisazione di Owen Fiss, che distingue due diversi “paradigmi”: antidiscriminazione e antisubordinazione. Il primo guarda alla violazione del principio di eguaglianza ai danni delle donne. Il secondo pone l’accento su questioni che vanno oltre la discriminazione[8]. In altri termini, l’eguaglianza formulata in chiave antisubordinazione rappresenta il superamento proiettivo della dimensione antidiscriminatoria[9].
Secondo questa linea interpretativa, la discriminazione è un mero epifenomeno della subordinazione. In pratica, la dimensione antidiscriminatoria attiva un processo ascensionale di inclusione che riconosce al soggetto discriminato l’accesso a uno spazio prima precluso. Il principio antisubordinazione, che incorpora quello antidiscriminatorio, enfatizza invece l’esigenza di riconoscere le tematiche di genere come un assetto di potere. Esso protende al tema del dominio, ossia di chi abbia stabilito nel passato e di chi abbia nel presente il potere di stabilire i caratteri della norma – che tutela solo il potere di uno dei due sessi – e di come ciò avvenga[10].
Il significato dell’eguaglianza come non subordinazione accentua la responsabilità istituzionale, che si estende dal legislatore alle corti e alle altre istituzioni politiche, per contrastare la diseguaglianza strutturale. Si mira in tal modo al rovesciamento e al superamento dell’assetto che produce l’esclusione, dando avvio a un processo circolare di ri-definizione di tutti i soggetti coinvolti e dello stesso spazio in cui agiscono e su cui insistono[11].
Le parole producono consenso e conformità. Allo stesso modo possono anche condurre a trasformazioni, essendo uno strumento di cambiamento del mondo. Poiché il genere opera nel e sul linguaggio, è possibile resistere alle forme di subordinazione mediante atti di sovversione linguistica. Un linguaggio non discriminatorio implica l’utilizzo di forme linguistiche che non stereotipizzano, non etichettano, non omettono. Esso si basa su espressioni che riconoscono e rispettano la dignità di ogni persona. Un esempio lontano nel tempo, e ancora attuale, è il documento steso dalla scrittrice Olympe de Gouges nel 1791: la Declaration des droits de la femme e de la citoyenne. Emblema delle richieste, sovente inascoltate, di adeguare la sostanza nonché lo stile redazionale dei testi normativi per includervi la componente femminile, palesemente omessa nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789[12].
Le discussioni sul ruolo della lingua italiana come strumento per la realizzazione della parità fra uomo e donna, di cui è antesignano il volume di Alma Sabatini Il sessismo nella lingua italiana, voluto dalla Commissione Nazionale per la realizzazione della Parità tra uomo e donna, già da tempo sono state recepite dalla comunicazione specialistica giuridica. In breve, le strategie da seguire sono riconducibili alla femminilizzazione della lingua (engendering o regendering) e alla neutralizzazione del genere (de-gendering). Nel primo caso ricadono le ipotesi in cui si specifica il sesso di ognuno dei referenti (es. «la ministra Boschi e il ministro Gentiloni», e non «i ministri Boschi e Gentiloni»), nonché le ipotesi che adottano la tecnica dello splitting (o dello sdoppiamento), che consiste nella separazione dei destinatari, vuoi indicando per esteso «donne e uomini», «lavoratrici e lavoratori», ecc., vuoi utilizzando la forma concisa «il/la». Il de-gendering consiste invece nell’utilizzo di termini neutri rispetto al sesso (es. l’uso di «persona», «individuo», «soggetto» al posto di «uomo»; e, per un esempio tratto dall’inglese, «chairperson» in luogo di «chairman»), oppure una riformulazione mediante l’uso di pronomi indefiniti come chi/coloro[13].
Con l’adozione della direttiva del 23 maggio 2007, “Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche”, adottata dal Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione Luigi Nicolais e dalla Ministra per i diritti e le pari opportunità Barbara Pollastrini, l’utilizzo di un linguaggio non discriminatorio è assunto a preciso dovere della pubblica amministrazione. Alla lett. e) del punto 3, titolo VI, si enuncia il dovere di «utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.), un linguaggio non discriminatorio come, ad esempio, usare il più possibile sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi (es. persone anziché uomini, lavoratori e lavoratrici anziché lavoratori)». Si tratta di un rinnovamento linguistico che valorizza il genere femminile per innescare un mutamento culturale in favore della parità[14].
L’attenzione via via crescente che si riserva al riequilibrio di genere e alla volontà di includere in modo esplicito le donne nel contratto sociale per eccellenza, la costituzione, è chiaramente visibile in alcuni testi di più recente stesura. Il linguaggio gender sensitive è una modalità per affermare la trasformazione culturale che in primo luogo investe le istituzioni e i documenti da esse prodotti. In tali ipotesi, alcuni Stati hanno adottato un linguaggio appropriato con finalità emancipatorie e inclusive. Esempi sono «Nosotras y nosotros, el pueblo soberano del Ecuador» nel preambolo e «Todas las ecuatorianas y los ecuatorianos son ciudadanos» nell’art. 6 della costituzione ecuadoriana del 2008. Similmente, all’art. 21 della costituzione boliviana del 2009 leggiamo: «Las bolivianas y los bolivianos tienen los siguientes derechos».
Che dire, in chiusura, della riforma costituzionale italiana? Il nuovo testo volto a superare il bicameralismo paritario non contempla l’adeguamento linguistico. Il novellato art. 57 cost. sulla composizione del Senato perpetua la “norma maschile” e dunque la camera alta continuerà a essere formata, metaforicamente parlando (ma nemmeno tanto), solo da senatori e non anche da senatrici. Merita evidenziare che proprio quest’organo, a seguito dell’emanazione della succitata direttiva ministeriale del 2007, rimise al Governo il compito di introdurre negli atti e nei protocolli adottati nelle pubbliche amministrazioni una modifica degli usi linguistici tale da «rendere visibile la presenza di donne nelle istituzioni, riconoscendone la piena dignità di status ed evitando che il loro ruolo venga oscurato da un uso non consapevole della lingua»[15].
Il ragionamento riferito al Senato vale anche per la composizione della Camera dei deputati ex art. 56 cost., o per il richiamo a «il Presidente della Repubblica» ex art. 74 cost. Esempi dove le tecniche di sdoppiamento e di neutralizzazione del genere ben avrebbero potuto essere applicate in sede di riforma senza minare la semplicità di lettura del testo, che semmai sarà complesso per altri motivi, non legati al linguaggio di genere.
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[1] L. Carroll, Attraverso lo specchio, Mondadori, Milano, 1978, p. 203.
[2] Si v. C. Bazzanella, Genere e lingua, voce in Enciclopedia Treccani, in www.treccani.it.
[3] P. Violi, L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, Essedue, Verona, 1986, p. 40.
[4] Così A. Sabatini, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, in Id., Il sessismo nella lingua italiana, Ist. Pol. Zecca dello Stato, Roma, 1987, p. 97.
[5] P. Villano, Pregiudizi e stereotipi, Carocci, Roma, 2013, p. 9.
[6] M.A. Barrère Unzueta, Diritto antidiscriminatorio, femminismo e multiculturalismo. Il principio d’uguaglianza di donne e uomini come strategia per una rilettura giuridica, in Ragion Pratica, 2, 2004, p. 364.
[7] Si v. M.A. Barrère Unzueta, op. cit., p. 378.
[8] Cfr. O. Fiss, ¿Qué es el feminismo?, in Doxa, 14, 1993, p. 319 ss.
[9] B. Pezzini, L’uguaglianza uomo-donna come principio anti-discriminatorio e come principio anti-subordinazione, in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. III, Dei diritti e dell’eguaglianza, Jovene, Napoli, 2009, p. 1141 ss.
[10] B. Pezzini, L’uguaglianza uomo-donna, cit., p. 1151.
[11] Amplius, B. Pezzini, L’uguaglianza uomo-donna, cit., p. 1141 ss.; B. Pezzini, Costruzione del genere e costituzione, in Id. (a cura di), La costruzione del genere. Norme e regole, vol. I, Studi, Sestante-Bergamo University Press, Bergamo, 2012, p. 16 ss. Cfr. altresì A. Lorenzetti, Case law on the access and supply of goods and services. Equal is not enough: moving towards the formulation of an anti-subordination principle, in J. Motmans et al. (eds.), Equal is not enough: challenging differences and inequalities in contemporary societies, University of Antwerp-Hasselt University, Antwerpen, 2001, p. 57 ss.
[12] Si v. A. Facchi, Breve storia dei diritti umani. Dai diritti dell’uomo ai diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2013, p. 62 ss.
[13] F. Fusco, La lingua e il femminile nella lessicografia italiana. Tra stereotipi e (in)visibilità, Ediz. dell’Orso, Alessandria, 2012, p. 25.
[14] T. Biagioni, Il principio della Parità di trattamento nel nostro ordinamento e nel panorama comunitario, in F. Narducci, R. Narducci (a cura di), Guida normativa per l’amministrazione locale 2015, Maggioli, Rimini, 2015, p. 1163.
[15] XV Legislatura, Atto di Sindacato Ispettivo nr. 1-00107, reperibile in http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=15&id=268278.