La tutela del migrante economico tra gli equilibri di bilancio e le “protezioni estese”. Brevi riflessioni su due recenti ordinanze del Tribunale di Milano.
Non v’è dubbio che l’acuirsi dei conflitti in alcuni territori del mondo generi un costante livello dei flussi migratori. Tuttavia, esiste una crescente porzione di Paesi dove la popolazione vive in condizioni di miseria e povertà. A ciò si aggiunga che, per evidenti ragioni puramente personali, qualunque individuo è potenzialmente spinto alla ricerca di migliori condizioni di vita. La prassi amministrativa e l’interpretazione della legislazione vigente in Italia ha portato sempre alla suddivisione in classi dello straniero. Si pensi, tra le tante, alla distinzione tra migrante economico e rifugiato. Tale binomio ha radici ben più profonde, derivanti dagli studi di Egon Kunz che ha elaborato la cosiddetta Push and Pull Theory. Riassumendo drasticamente, si tratta di una distinzione che riguarda il “motivo” o la “causa” della migrazione: i pushed sono quei soggetti destinati a diventare rifugiati perché spinti da situazioni di conflitto o di instabilità politica, mentre i pulled sarebbero coloro che si spostano alla ricerca di migliori prospettive economiche. Tale divisione non ha mai avuto un valore giuridico formale, ma è genericamente utilizzata col fine ultimo di discernere i soggetti che hanno diritto a ricevere una forma di protezione (sia essa asilo, rifugio, sussidiaria o umanitaria), da coloro che invece non rientrano nelle suddette forme di tutela internazionale. Cosa succede se tutti questi fattori entrano in gioco?
È il tema che ha riguardato due recenti ordinanze della Prima Sezione Civile del Tribunale di Milano, con considerazioni e conclusioni che possono far riflettere. La prima, riguarda un individuo di 24 anni, nato in Gambia, dove sussistono, anche a parere del giudice, «oggettive difficoltà economiche, di diffusa povertà e di limitato accesso per la maggior parte della popolazione ai più elementari diritti inviolabili della persona, tra cui il diritto alla salute e alla alimentazione». Il ricorso avverso alla decisione della Commissione territoriale aveva motivazioni ben distinte, dettate dalla necessità del ricorrente di usufruire di una qualsivoglia autorizzazione a restare nel territorio dello Stato. In effetti, l’ordinanza sonda l’inesistenza di legami con l’ambiente politico del Gambia (come sostenuto dal ricorrente) così come la scarsa presenza di motivi che possano suffragare la concessione delle altre forme di protezione internazionale, compresa quella ex art. 10 della Costituzione. Ciò nonostante, dopo un ragionamento che include il riferimento a numerosi rapporti internazionali, il giudice conviene sul fatto che il rimpatrio provocherebbe la violazione certa degli obblighi internazionali sottoscritti dallo Stato italiano, «ponendo il ricorrente in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale e sostanzialmente imponendogli condizioni di vita del tutto inadeguate, in spregio agli obblighi di solidarietà di fonte nazionale ed internazionale più volte richiamati». Pertanto, il rischio di non poter godere di risorse proprie sufficienti, a fronte di una situazione socio-economica così diffusa e grave, rende necessario uno «sforzo» che – come si legge nell’ordinanza – «non può che attuarsi mediante il riconoscimento della protezione umanitaria».
La seconda questione riguarda, invece, un soggetto che dinanzi alla medesima Commissione territoriale aveva addotto una serie di motivazioni al fine di giustificare la necessità di protezione, originate dall’uccisione del padre e uno dei 7 fratelli da parte delle forze militari, durante lo svolgimento del proprio lavoro al confine con l’India. In seguito a questo episodio, il ricorrente sarebbe stato costretto a lasciare il proprio Paese per la conseguente perdita della casa, necessaria ad avallare un prestito di 400.000 rupie (circa 4.000 euro) non onorato nei confronti del datore di lavoro. Le seguenti circostanze sembrerebbero, quindi, ricondurre a quelle condizioni di precarietà e povertà richiamate nella prima ordinanza citata. Tuttavia, come osserva stavolta il giudice, si tratta «di vicende squisitamente privatistiche, nel contesto di relazioni sociali, lavorative, familiari o lato sensu parentali in cui la fonte del presunto pregiudizio per il richiedente è contestualizzata nell’ambito di un rapporto “orizzontale” tra soggetti privati che esula dal fumus persecutionis». Eppure sembrerebbero evidenti le condizioni di vulnerabilità ravvisate dal soggetto straniero, apparentemente tali da invocare quel corpus normativo e pattizio che aveva sorretto la precedente decisione.
In questo caso, il giudice ammette che lo Stato italiano si è impegnato a livello internazionale al fine di garantire un adeguato supporto anche per coloro che si trovano in condizioni di grave povertà e che, dunque, in caso di rimpatrio nei loro Paesi, tali persone possono essere esposti alla mancanza di sufficiente protezione dei loro diritti fondamentali; tuttavia, le presenti motivazioni non possono portare «all’accoglimento della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, né di protezione umanitaria» poiché «la specifica misura di sostegno eventualmente erogabile è rimessa alla discrezionalità del legislatore statuale». Con maggiore forza, quasi a volersi discostare da eventuali assonanze, si ribadisce che è proprio quest’ultimo a dover «realizzare un bilanciamento costituzionale tra differenti interessi enunciati nella Carta costituzionale e una scelta discrezionale in merito ai livelli di priorità nella gestione delle limitate risorse». È chiaro, in questo specifico caso, il richiamo al principio introdotto nel nostro ordinamento dalla legge costituzionale n. 1/2012, nella sua veste di principio costituzionale inderogabile. Sarebbe questo, a parere del giudice, il fondamento per cui un’ordinanza non può intervenire «in una materia coperta da discrezionalità legislativa “condizionata” anche da ragioni di bilancio» e che non consentirebbe l’estensione «del fascio applicativo della protezione umanitaria».
Pur nella loro casuale vicinanza temporale, le due ordinanze riportano alla luce quella necessità di bilanciamento tra norme di differente rango che spesso si interseca con l’evidente difficoltà che ha l’operatore giuridico nel sondare la veridicità della prova in queste procedure, dovendo altresì mantenere il rispetto di specifici obblighi costituzionali. Come fu stabilito da una nota sentenza, rispetto a tali decisioni, anche il giudice «deve compiere ogni sforzo per verificare che il racconto non sia comunque smentito da elementi determinanti di segno contrario». Ciò nonostante, è legittimo domandarsi se la distinzione precedentemente richiamata abbia un reale valore nelle questioni in oggetto, considerando l’incidenza e l’impatto che la povertà (o il legittimo fuggire da essa) riveste in questa particolare congiuntura economica e geopolitica. Allo stesso tempo, ci si interroga sull’interazione tra determinati “riconoscimenti” e talune discrezionalità legislative “condizionate”. Si accetta, quindi, di buon grado il monito rivolto al legislatore affinché operi un riordino sistemico delle norme e scongiuri la contingente difficoltà nell’applicazione del diritto alla protezione internazionale. Per ciò che concerne, infine, la qualificazione del soggetto, sarebbe opportuno un utilizzo pacato e assai ponderato di classificazioni che talvolta prendono il sopravvento più da un punto di vista mediatico che giuridico, dimenticando che spesso si emigra (come diceva il poeta) «per la stessa ragione del viaggio: viaggiare».