Romania, una democrazia che si difende. Commento a margine della sentenza Călin Georgescu v. Romania della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
La Romania sta affrontando una delle crisi politiche più profonde della storia recente. Nel momento in cui viene scritto questo contributo, il Paese si ritrova con un presidente ad interim, Ilie Bolojan, leader del Partito nazional liberale (PNL) in seguito all’annullamento del primo turno delle elezioni presidenziali del 2024 da parte della Corte Costituzionale (decisione n. 32 del 6 dicembre 2024) e alle conseguenti dimissioni di Klaus Iohannis nelle scorse settimane, chieste da più forze politiche e presentate per evitare di soccombere a una procedura di impeachment.
Ripercorriamo le vicende che hanno portato alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che l’11 febbraio 2025 ha rigettato il ricorso di Georgescu e che ha di fatto confermato la Sentenza della Corte Costituzionale rumena.
Innanzitutto, giova ricordare le modalità di elezione del Presidente della Repubblica, regolata dalla legge n. 370/2004 e che, ai sensi dell’art. 81 della Costituzione rumena, avviene «a suffragio universale, uguale, diretto, segreto e liberamente espresso». I commi 2 e 3 dell’articolo 81 prevedono invece che, qualora nessun candidato ottenga la maggioranza assoluta dei voti, si svolga un secondo turno di ballottaggio tra i due candidati più votati. Al primo turno, tenutosi regolarmente lo scorso 24 novembre, sono state presentate 14 candidature. Tra queste, i due nomi che, sorprendentemente, hanno superato il primo ministro socialdemocratico e il favorito alla vigilia delle elezioni Marcel Ciolacu, sono stati quelli di Elena Lasconi (Unione Salvate la Romania, 19,18%) e di Călin Georgescu (indipendente, 22,94%). Un risultato, quest’ultimo, che ha messo a soqquadro il mondo della politica e in generale la società civile romena, che ha risposto con manifestazioni in suo favore e contro. Degno di nota, inoltre, è stato il risultato del voto per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato (le elezioni del Capo dello Stato e del Parlamento sono disallineate a seguito della riforma costituzionale del 2003, ed è dal 2004 che le elezioni parlamentari e presidenziali non si tenevano a così breve distanza l’una dall’altra) che il 1° dicembre 2024 ha dato la maggioranza relativa al Partito socialdemocratico di Marcel Ciolacu, con il 22% dei voti e il 26% dei seggi alla Camera e il 22,3% dei voti e il il 26,9% dei seggi al Senato.
Non stupisce, invece, l’ottimo risultato di partiti di estrema e ultra destra come Alleanza per l’ Alleanza Unione dei Romeni (AUR), secondo partito in Parlamento, S.O.S. Romania e il Partidul Oamenilor Tineri (POT), questi ultimi entrambi entrati per la prima volta in Parlamento. Ciò che più interessa però nella vicenda in questione dal punto di vista della struttura costituzionale del Paese è il ruolo incisivo della Corte costituzionale. In quanto garante della supremazia della Costituzione (art. 142 Cost.), la Corte esercita un controllo sia preventivo sia successivo sulla legislazione. Inoltre, sempre a seguito della riforma del 2003, con le sue decisioni ha giocato un ruolo molto importante nel delineare il perimetro dei poteri e delle responsabilità del Presidente della Repubblica. In base all’art. 146 lett f. la Corte vigila sull’osservanza delle procedure di elezione del Presidente della Repubblica e convalida, inoltre, il risultato delle elezioni presidenziali. In tale ambito gestisce le contestazioni riguardanti la registrazione o il respingimento delle domande di iscrizione dei candidati (nell’ultima tornata elettorale la Corte Costituzionale ha disposto l’annullamento della domanda di candidatura di Diana Iovanovici-Șoșoacă, leader del partito S.O.S Romania, data la sua «condotta sistematica e di lunga data volta a colpire i fondamenti costituzionali dello Stato rumeno») e si esprime sulle istanze dei candidati e dei partiti che denunciano l’impossibilità di svolgere la propria campagna elettorale. Con la decisione sopra citata, la Corte costituzionale dà atto di aver preso visione del contenuto dei documenti presentati nella seduta del Consiglio Supremo di Difesa del Paese del 28 novembre 2024, e poi declassificati il 4 dicembre 2024 su indicazione del Presidente in carica Klaus Iohannis. In relazione al contenuto dei documenti, che dimostrano la presenza di atti di manipolazione del voto come interferenze elettorali da parte di potenze straniere (specificatamente la Russia) o l’utilizzo distorto degli algoritmi delle piattaforme social, la Corte ha ritenuto che l’intero processo elettorale per l’elezione del Presidente della Romania sia stato inficiato da violazioni che «hanno distorto il carattere libero e corretto del voto espresso dai cittadini, compromesso l’uguaglianza di opportunità tra i competitori elettorali, alterato la trasparenza e l’equità della campagna elettorale, e ignorato le disposizioni legali relative al finanziamento della stessa». La Corte annulla così il primo turno e dà mandato al Governo di porre in essere tutti gli adempimenti necessari per stabilire una data per le nuove elezioni presidenziali.
A seguito della decisione della Corte costituzionale, il candidato Georgescu, invocando gli artt. 6, 10, 11 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nonché l’art. 3 del Protocollo 1 della stessa, fa ricorso alla CEDU. Il ricorrente sosteneva che la decisione fosse illegittima in quanto fondata su accuse non comprovate e che violasse quindi il diritto a libere elezioni ex. art. 1 del Protocollo della Convenzione. Inoltre, richiamando gli artt. 6 e 13, denunciava come la scelta di negare il suo “diritto” a diventare Presidente della Repubblica fosse stata presa in un contesto di non trasparenza e, richiamando gli artt. 10 e 11, sosteneva che alla base ci fosse un’interferenza politica da parte del “partito al potere” (PSD e PNL) e che, in questo modo, fosse stata minata la libertà di partecipare al processo democratico, oltreché la libertà di associazione politica.
In merito al richiamato art. 3 del Protocollo n. 1 («Le Alte Parti contraenti si impegnano a organizzare, a intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo.»), la Corte ritiene che in questo specifico caso non sussista alcuna violazione e reputa questa parte della domanda inammissibile, ex art. 35 comma 3 a), dal momento che la norma fa riferimento alla sola scelta del corpo legislativo. Se è vero che la norma non va interpretata nel senso di ricomprendere i soli i parlamenti nazionali (Mółka c. Polonia, 11/04/2006), facendo piuttosto riferimento alla struttura costituzionale dello stato in questione (Timke c. Germania, 11/09/1995), il ruolo del Presidente della Repubblica rumeno non può nemmeno rientrare in questa accezione più ampia di legislatore. Questo sia perché non dispone di poteri di iniziativa, sia perché è la stessa Costituzione a stabilire espressamente che il Parlamento è l’unico potere legislativo del paese (art. 61 comma 1 Cost.). Al Presidente sono attribuiti solo pochi poteri che potrebbero essere interpretati, in misura limitata, come un’interazione istituzionale con il legislatore: può firmare e far ritardare temporaneamente la promulgazione delle leggi emanate dal Parlamento, ma a condizioni strettamente limitate ex art. 77 Cost. ma l’esercizio di tale potere crea un semplice obbligo procedurale per il Parlamento di riesaminare la legge senza perdere la sua discrezionalità quanto al risultato sostanziale di tale riesame che rimane ad ogni modo illimitata. In merito agli artt. 6 e 13, richiamati dal ricorrente in merito alla denunciata mancanza di trasparenza in riferimento alle modalità con cui era stata assunta la decisione della Corte nazionale – e alla mancanza di rimedi contro di essa – la Corte europea delinea in primis il diritto il cui esercizio è stato impedito dalla decisione, ossia il suo diritto a candidarsi alle elezioni presidenziali. Riguardando la controversia un suo diritto politico, non aveva alcuna attinenza con i “diritti e obblighi civili” oggetto dell’art. 6 comma 1 della Convenzione (cfr. Mutalibov v. Azerbaijan, n. 31799/03, 19 febbraio 2004, e Pierre-Bloch v. Francia, 21 ottobre 1997). Inoltre, la decisione della Corte costituzionale, sebbene il ricorrente parli espressamente delle “accuse contro di lui”, non riguardava la determinazione di queste ultime. Di conseguenza, la Corte ritiene che l’articolo 6 della Convenzione non sia applicabile in questo caso di specie e ne discende che il suo ricorso è irricevibile, ex art. 35 comma 3 a), e pertanto deve essere respinto ex art. 35 comma 4 della Convenzione.
Alla luce di tali risultanze, il richiedente non è in possesso di un “arguable claim” ai sensi dell’art. 13, che prevede un meccanismo di denuncia dinanzi alla Corte di tipo sussidiario rispetto ai sistemi giuridici nazionali e riguarda, in linea di principio, la dedotta violazione materiale delle disposizioni della Convenzione.
In riferimento agli artt. 10 e 11 della Convenzione, il ricorrente sostiene che la decisione della Corte costituzionale sia stata influenzata da condizionamenti politici da parte dell’allora partito di governo e che queste interferenze avessero sensibilmente compromesso la libera partecipazione al processo democratico, in particolare la libertà di associazione politica. La Corte EDU, richiamando l’art 34 della Convenzione (Ricorsi individuali), rammenta che un ricorso ai sensi della Convenzione deve comprendere due elementi correlati (cfr. Radomilja e altri v. Croazia, nn. 37685/10 e 22768/12, 20 marzo 2018), ossia le accuse di fatto (Eckle c. Germania, 15 luglio 1982), e gli argomenti giuridici su cui queste si basano. Nel caso in esame, tuttavia, non sono stati presentati argomenti di fatto e di diritto a sostegno dei reclami in oggetto. La Corte rigetta la domanda e aggiunge che non spetta a lei “speculare” sul merito delle denunce di un ricorrente che, nel caso di specie, è per di più rappresentato da un difensore di propria scelta. Dal momento che gli elementi addotti dal ricorrente in merito alla sua possibilità di partecipare al processo democratico sono esigui, il Tribunale lo ritiene un aspetto già esaminato in relazione all’art. 3 del protocollo n.1, mentre per quanto riguarda la libertà di associazione politica ricorda che il ricorrente era un candidato indipendente.
Con una decisione all’unanimità la Corte europea dichiara quindi la domanda inammissibile, sotto tutti i profili.
Potremmo affermare di essere di fronte a una decisione nazionale, quella della Corte costituzionale rumena, di difesa degli assetti democratici, che però risulta potenzialmente contestabile alla luce del fatto che sono stati superati trent’anni di consolidata giurisprudenza che fino ad oggi non si era mai spinta fino all’invalidazione di un intero processo elettorale. Si potrebbe criticare la scelta estrema della Corte sostenendo che essa ha trasformato un controllo costituzionale in un processo di tipo soggettivo privo di garanzie procedurali, traslando all’art. 146 lett f. gli strumenti di protezione previsti dall’art. 146 lett. k, in base al quale la Corte ha il potere di dichiarare l’incostituzionalità di un partito politico. Allo stesso tempo, però, la deliberazione della Corte rumena è “sorretta” da una pronuncia avvenuta a livello europeo: quella, appunto, della Corte EDU. Sebbene si tratti di una sentenza di inammissibilità, la decisione sembra a prima vista discostarsi dalla tradizione giurisprudenziale della stessa Corte nell’ambito della protezione della democrazia. Ad esempio, in riferimento allo scioglimento di partiti, è sempre stata molto cauta, richiedendo condizioni stringenti, come la necessità di difendere la democraticità dell’ordinamento (Klass v. Germania, 6 settembre 1978, n. 59), o di essere funzionale alla protezione di uno dei valori pubblici fondamentali ex art. 11 della Convenzione, come la difesa della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico (Sidiroupolos v. Grecia, 10 luglio 1998, n. 37).
È pur vero però che entrambe le sentenze sono inserite all’interno di un quadro geopolitico instabile e di fenomeni politico-istituzionali del tutto anomali. Con riferimento alla decisione della Corte di Strasburgo, il fatto che essa appaia, almeno in parte, in discontinuità con la precedente giurisprudenza potrebbe aver motivato la scelta di adottare una pronuncia di tipo più tecnico di inammissibilità. Questa strategia ha permesso alla Corte di evitare un confronto diretto su un merito particolarmente delicato e conflittuale, raggiungendo comunque l’effetto sostanziale di legittimare la decisione rumena, considerabile in fin dei conti ragionevole in quanto adottata in un contesto di emergenza. Se, in linea di principio, è sempre preferibile ricorrere a una dose elevata di prudenza nell’escludere candidati dalle competizioni politiche in ragione delle loro posizioni e dei loro comportamenti, altrettanto evidente è che quello rumeno costituisce un caso-limite, nell’ambito del quale manipolazioni e interferenze hanno superato una soglia critica – come evidenziato anche dall’esplodere delle intenzioni di voto per Georgescu da pochi punti percentuali a oltre il 20% in meno di un mese –, minando profondamente la fairness della competizione. Merita inoltre ricordare, in conclusione, che il Comitato elettorale centrale (Biroul Electoral Central) ha rifiutato la nuova candidatura di Georgescu per le elezioni previste il prossimo maggio, suscitando ulteriori proteste e disordini a Bucarest. La decisione si è basata su precedenti sentenze della Corte Costituzionale che, a sua volta, ha respinto il ricorso di Georgescu a seguito della decisione del Comitato, confermando il rifiuto della candidatura.