Anacronismi (giurisprudenziali) e Marital Rape. La Corte di Strasburgo condanna la Francia e mette un punto
1. H.W. c. Francia è un caso nuovo per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ma, in senso più esteso, per il dibattito europeo-continentale.
L’attenzione, non più in discussione, su condotte violente perpetrate anche all’interno della coppia, bene testimoniata sul versante europeo dall’adozione, sebbene contrastata, della Convenzione di Istanbul da parte del Consiglio d’Europa, non ha, infatti, sinora mai posto l’accento in modo così vivido, esclusivo, su una delle sue forme: lo stupro maritale o marital rape, cioè la violenza sessuale intra-coniugale.
H.W. c. Francia, pronuncia resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 23 gennaio 2025, affronta, così, le problematiche che investono la violenza sessuale e lo stupro all’interno delle relazioni, in questo caso, matrimoniali.
Lo fa, indirettamente, soffermandosi sull’atto violento in esame più quale elemento cardine della ricostruzione delle circostanze del fatto, che direttamente, cioè prendendo posizione sulla inconvenzionalità della condotta, poi evidentemente deducibile dall’accertamento della violazione del dettato convenzionale in favore della ricorrente.
Un secondo punto da sottolineare in apertura riguarda, poi, la censura più sistemica, cioè di impatto quasi o para-ordinamentale, che casistica, che traspare in H.W. c. Francia. La Corte europea condanna, sì, la Francia nel singolo caso concreto, ma sanziona, più ampiamente, l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità – quindi dotata di effetti erga omnes –, che rendeva lecito, come si dirà, l’addebito dello scioglimento del vincolo matrimoniale al coniuge che si fosse sottratto a rapporti sessuali. Non si tratta, certamente, di una pronuncia pilota, ai sensi degli artt. 46 CEDU e 61 del Regolamento, ma di una sentenza di ampio respiro che supera il recinto fattuale della vicenda concreta, invitando ad un ripensamento della interpretazione delle relazioni coniugali entro l’ordinamento giuridico francese. Non cosa da poco, insomma.
Infine, oltre che per l’esito, H.W. c. Francia si segnala perché la Corte di Strasburgo finalmente utilizza propriamente la Convenzione di Istanbul quale strumento pattizio a supporto delle proprie conclusioni, con un approccio che, si auspica, potrà sempre più spesso colorare la sua giurisprudenza in tema di violenza contro le donne, per ora poco disposta ad aprirsi a contaminazioni esterne ancorché interne al Consiglio d’Europa.
2. Venendo alla vicenda, H.W. c. Francia riguardava una vicenda giudiziaria, portata, dapprima, dinanzi ad una Corte di primo grado, con la quale la ricorrente formulava domanda di divorzio con addebito nei confronti del partner, a motivo del denunciato comportamento ripetutamente violento ed irrispettoso di quest’ultimo. Il marito, a propria volta, addebitava, viceversa, la rottura del vincolo coniugale all’omesso rispetto degli obblighi matrimoniali da parte della ricorrente, che si sarebbe più volte illegittimamente sottratta ai rapporti sessuali con il proprio marito, come prescritto per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione francese.
A fronte dell’adesione alla tesi del marito sia da parte della Corte d’Appello che, soprattutto, dalla Corte di Cassazione, entrambe concordi nello sposare una lettura delle norme del codice civile che ritenevano implicita – e presupposta quale obbligo matrimoniale – la frequenza dei rapporti sessuali tra i coniugi, la ricorrente ha adito la Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando la violazione dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui impone allo Stato di astenersi da interferenze illegittime e sproporzionate, cioè irragionevoli, nella vita privata e, qui, in particolare, intima ed espressiva della sfera sessuale individuale.
3. L’epilogo della pronuncia, quanto all’accoglimento del ricorso e alla condanna, non sorprende, se non per un ma, che è, però, un ma positivo.
La Corte garantisce, infatti, l’inveramento – che si vorrebbe pacifico, ma che così non è fino in fondo o, almeno, non sempre – del principio dell’eguaglianza tra i sessi, irrobustendolo tramite la valorizzazione della sua dimensione diacronica.
La pronuncia, cioè, non poggia soltanto su un mero riconoscimento dell’eguaglianza tra i sessi coerente con la ratio storica, perché risalente nel tempo, che soggiace alle Carte costituzionali domestiche e alle Carte sovranazionali dei diritti umani, per prima e tra le ultime, la Convenzione europea. H.W. c. Francia oltrepassa, invece, le radici classiche dell’eguaglianza di genere e le sue interpretazioni, più o meno progressiste, sposate dalle Corti, costituzionali e sovranazionali, per fondare il proprio iter argomentativo sul trattato che, ad oggi, non qualche decennio fa, ha fatto luce e ha affrontato un fenomeno in parte scoperto e che ancora si infiltra nelle pieghe delle fonti di rango primario e subordinate alle leggi degli Stati, cioè la violenza contro le donne secondo la già richiamata Convenzione di Istanbul.
E la Corte europea dei diritti dell’uomo giunge all’accertamento della violazione dell’art. 8 CEDU, esplicitando proprio le disposizioni della Convenzione di Istanbul che stridono con norme di legge che impongono come obbligatorie le relazioni sessuali matrimoniali.
Seguendo i passaggi della motivazione, la Corte europea prende le mosse dalla verifica della legalità dell’obbligazione oggetto del ricorso, intesa quale esistenza di una base legale che richiede alla donna (ma anche all’uomo) di avere rapporti sessuali con il proprio coniuge, per poi occuparsi della proporzionalità e della necessità dell’ingerenza. Non vi è, così, dubbio, né per la Corte, né per le parti, che si versi in un caso tipico di ingerenza in un diritto fondamentale da analizzare dalla prospettiva del primo paragrafo dell’art. 8 CEDU, cioè delle obbligazioni negative che la Convenzione pone in capo agli Stati contraenti.
La Corte risponde positivamente all’interrogativo sulla sussistenza di una base legale prevedibile, dando ragione al Governo. Non è la lettera delle norme del codice civile ad imporre come obbligatorio il rapporto sessuale, ma lo è il diritto giurisprudenziale che se ne ricava, cioè la giurisprudenza della Corte di Cassazione, come noto, equiparato, nel sistema convenzionale, al diritto scritto.
Se, allora, esistono a tutti gli effetti le norme che renderebbero legittimo anche lo stupro maritale, che si verificherebbe evidentemente in costanza di rifiuto della moglie (Cfr. §§ 73 ss.), non resta per la Corte che sindacare la proporzionalità e la necessità dell’obbligo (Cfr. §§ 84 e ss.). Si tratta, precisa la Corte, di verificare se l’ingerenza dello Stato, per il tramite di quanto imposto dal diritto giurisprudenziale, tracci un giusto equilibrio tra la libertà sessuale della ricorrente, intesa come diritto di sottrarsi a rapporti sessuali non consensuali con il coniuge, da un lato, e un presunto diritto di quest’ultimo, dall’altro, di richiedere lo scioglimento del vincolo dinanzi ad un’astinenza sessuale ritenuta insopportabile.
La Corte di Strasburgo, qui, è netta.
Primo.
Non vi è margine di apprezzamento, inteso quale spazio di discrezionalità che possa consentire allo Stato di assoggettare la ricorrente all’obbligo di sottostare a rapporti sessuali non consensuali a motivo dei contenuti e della natura del diritto alla libertà sessuale che copre uno tra gli aspetti più intimi della vita della persona. Sulla ristrettezza del margine di apprezzamento in rapporto al diritto alla libertà sessuale, la pronuncia non si pone coerentemente in linea con un orientamento ormai noto e risalente, sviluppatosi in particolare a partire da Dudgeon in avanti (§§ 85-86).
Secondo, è più importante.
Tutti i rapporti sessuali non consensuali, a prescindere dallo status del perpetrante – e questo è il punto –, costituiscono violenza sessuale nei confronti della donna (§ 87). Una lettura della condotta, che la Corte di Strasburgo irrobustisce, sul piano interno, affiancando all’art. 8 CEDU l’ancorché non invocato art. 3 CEDU, e, su quello esterno ma intra-Consiglio d’Europa, appoggiandosi alle obbligazioni che la Convenzione di Istanbul pone in capo agli Stati parte, per tutte, l’adozione di tutte le “misure legislative e di altro tipo necessarie per impedire ogni forma di violenza” (Cfr. art. 12, § 2).
In definitiva, sostiene la Corte, non vi è spazio per alcuna giustificazione a sostegno della violenza sessuale coniugale; il che equivale ad escludere che il consenso all’atto sessuale debba oppure possa essere considerato implicito e connaturato al vincolo matrimoniale.
4. Vi è, però, anche un altro aspetto che rende interessante e pesante, sul piano del seguito interno, H.W. c. Francia.
Non è, cioè, da evidenziare tanto (o meglio, non solo) l’accertamento della violazione dell’art. 8 CEDU nel caso singolo, quanto, piuttosto, la ritenuta contrarietà al dettato convenzionale della granitica e altrettanto anacronistica giurisprudenza della Corte di Cassazione francese in tema di obblighi matrimoniali, che la Corte europea invita a rileggere in senso conforme al principio dell’eguaglianza di genere.
L’argomento addotto dalla ricorrente, secondo cui il rapporto sessuale non costituirebbe un elemento imprescindibile del vincolo coniugale ricavabile dalle norme del codice civile, viene, infatti, come premesso, rigettato dalla Corte europea che ritiene, invece, l’obbligo previsto dalla “legge”, nel caso in esame dal diritto giurisprudenziale. Nel ritenere sussistente la base legale dell’obbligo in esame, la Corte europea arriva, così, a sostenere che l’ordinamento giuridico francese poggia su una costruzione diseguale dei rapporti tra coniugi, avendo accolto e consolidato nei decenni una lettura delle norme codicistiche favorevole alla inclusione, nel novero dei vincoli matrimoniali, anche del rapporto sessuale, sia esso o meno consensuale, dandone, quindi, sostanzialmente per assodata la presunzione.
Nel ritenere lesiva della Convenzione simile linea interpretativa, la Corte europea assegna alla propria pronuncia una valenza non meramente casistica. Non si tratta, cioè, di una erronea, fallace, interpretazione della legge da parte di un giudice, ma di una lesione dei principi convenzionali da parte del diritto giurisprudenziale potenzialmente applicabile nei confronti di tutti e, in particolare, di tutte le cittadine francesi. Ci si trova, allora, di fronte ad una presa di posizione, meritoria, che lascia sullo sfondo l’efficacia prettamente inter partes per dare spazio a riflessioni più ampie, ordinamentali, con cui la Francia, tutta, dovrà confrontarsi. È vero che non ci si trova al cospetto di una sentenza pilota e, tuttavia, tale valenza, almeno, “para o quasi-pilota”, costituisce un aspetto sicuramente peculiare della sentenza in commento (Cfr., in questo senso, anche Costa e Pavan c. Italia.
5. Per chiudere il cerchio, H.W. c. Francia costituisce una pronuncia, che mette un punto su uno dei temi che ancora faticano a farsi spazio nel dibattito europeo, chiarendo una volta per tutte, che il rapporto sessuale non consensuale è sempre violenza nei confronti delle donne senza che a nulla rilevi la qualità del rapporto tra vittima e perpetrante. I punti fermi, allora, ricavabili da H.W. c. Francia sono due: l’assenza di consenso caratterizza e deve caratterizzare sempre l’atto sessuale come stupro; il consenso non può mai essere presunto, nemmeno all’interno di una relazione matrimoniale.
Punti fermi, scontati forse, ma in verità non così pacifici (se non osteggiati), come dimostra il testo approvato nella primavera del 2024 della Direttiva dell’Unione Europea in tema di violenza contro le donne che, appunto, ha deciso di stralciare la nozione di stupro quale atto sessuale penetrativo non consensuale.
Che H.W. c. Francia possa illuminare e inaugurare una nuova via?