Tra consenso informato e fede: la Corte europea dei diritti dell’uomo sul rifiuto del trattamento emo-trasfusionale nel caso Pindo Mulla c. Spagna
1. La Grande Camera della Corte EDU, con decisione del 17 settembre 2024 (ricorso n. 15541/20), si è pronunciata sul caso Pindo Mulla c. Spagna, relativo alla somministrazione a una paziente adulta di trasfusioni di sangue nell’ambito di un intervento di isterectomia e doppia salpingectomia eseguito d’urgenza, nonostante il suo esplicito rifiuto al trattamento, espresso al personale sanitario nonché formalizzato nel Documento de instrucciones previas ex art. 11 Ley 41/2002 e fondato su motivi religiosi.
2. Preliminarmente i Giudici di Strasburgo si premurano di sgomberare il campo da alcuni equivoci. Precisano in primo luogo che la Sig.ra Pindo Mulla non aveva opposto un rifiuto generalizzato al ricevimento di cure salva vita, ma semplicemente al trattamento emo-trasfusionale; doveva dunque ritenersi non pertinente il richiamo svolto dal Governo spagnolo alla giurisprudenza della stessa Corte in tema di rifiuto di alimentazione artificiale (Lambert e altri c. Francia), eutanasia (Mortier c. Belgio) e suicidio assistito (Pretty c. Regno Unito; Haas c. Svizzera; Koch c. Germania), così come quella relativa ai trattamenti sanitari a favore di minori (Glass c. Regno Unito; Parfitt c. Regno Unito) ovvero di persone soggette alla responsabilità dello Stato perché ristrette in strutture penitenziarie (Bogumil c. Portogallo) o psichiatriche (Aggerholm c. Danimarca) che rifiutano trattamenti medici. In secondo luogo affermano di non voler rimettere in discussione la valutazione del quadro clinico della paziente al momento dell’intervento chirurgico, essendo valutazioni da rimettersi al giudice del merito.
3. La Corte si concentra poi sull’individuazione del riferimento normativo principale per l’esame della vertenza, individuandolo nell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata), seppur letto alla luce del successivo art. 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione).
Ribadisce all’uopo il suo oramai consolidato orientamento che ritiene ricompreso nel diritto al rispetto della vita privata il diritto di autodeterminazione personale, inteso come diritto di compiere scelte relative al proprio corpo anche in ambito sanitario (Pretty c. Regno Unito), compresa la possibilità di rifiutare un trattamento medico, ancorché tale rifiuto conduca a un esito fatale. Ai fini di una corretta espressione del consenso/rifiuto al trattamento, è necessario che il paziente sia adulto e dotato di capacità di discernimento (Arskaya v. Ucraina), nonché debitamente informato sul suo stato di salute e sulle cure disponibili (Trocellier c. Francia; Mayboroda c. Ucraina) e che la sua decisione sia espressa in modo esplicito, inequivocabile, libero, consapevole e in un contesto di protezione contro le pressioni e gli abusi (Mortier c. Belgio).
La Corte precisa poi che, se è vero che il diritto di autodeterminazione del paziente non è assoluto e può entrare in conflitto con l’art. 2 CEDU (diritto alla vita), l’interesse pubblico alla protezione della vita o della salute deve cedere il passo di fronte all’interesse del paziente a dirigere il corso della propria vita (Testimoni di Geova di Mosca c. Russia); solamente qualora il medico (o, a seconda dei casi, il giudice adito) non sia in grado di dimostrare che il rifiuto di un trattamento medico salva-vita sia in linea con la volontà del paziente ovvero questi non sia in grado di esprimersi in merito, la somministrazione di cure essenziali non integra violazione dell’art. 8 CEDU (Mortier c. Belgio), dovendo prevalere il dovere di proteggerne la vita.
Nel caso di specie il diritto di autodeterminazione deve poi essere letto alla luce dell’art. 9 CEDU, in quanto fondato sull’appartenenza confessionale della ricorrente alla Congregazione dei Testimoni di Geova che, com’è noto, osserva il comando biblico di “astenersi dal sangue”, quale fonte di vita (Levitico 17:11) nonché ricettacolo dell’anima (Levitico 17:14).
4. Poste tali premesse, la pronuncia si concentra sulla valutazione della correttezza del processo decisionale applicato dallo Stato spagnolo nel caso di specie e sull’adeguato rispetto dell’autonomia decisionale della ricorrente.
Afferma la Corte che il diritto interno spagnolo (Ley 41/2002) si presenta coerente con i principi espressi dalla Convenzione di Oviedo, assunto che non è contestato dalla ricorrente, che peraltro ha agito in conformità ad esso. Nell’esercizio della discrezionalità rimessa agli Stati sottoscriventi dalla Convenzione di Oviedo in merito alle modalità attuative dell’esercizio del consenso informato, la Spagna ha ritenuto di attribuire valore giuridico vincolante alle disposizioni anticipare di trattamento, emanando norme specifiche per la loro raccolta e registrazione, al fine di renderle fruibili dal sistema sanitario. Ha inoltre previsto all’art. 9 c.2 della Ley 41/2002 che i medici possano effettuare interventi clinici essenziali a favore della salute del paziente senza necessità del relativo consenso in due ipotesi: quando sussiste un rischio per la salute pubblica ovvero quando esiste un grave rischio immediato per l’integrità fisica o mentale del paziente e non è possibile ottenere la sua autorizzazione, consultando, quando le circostanze lo permettono, i suoi parenti o le persone a lui legate di fatto.
Nel caso di specie, certamente non si configura la prima delle citate ipotesi, ma anche qualora si ritenesse integrata la seconda, avrebbe dovuto darsi luogo alla consultazione dei familiari della paziente, cosa che non è avvenuta. Inoltre la stessa giurisprudenza del Tribunal constitucional (sentenze nn. 37/2011, 19/2023 e 44/2023), coerentemente con l’orientamento della Corte EDU, afferma che la somministrazione di cure mediche contro la volontà del paziente deve essere accompagnata da una giustificazione che risponda ai principi di necessità, proporzionalità e rispetto del contenuto essenziale dell’autonomia del paziente, principi non rispettati nel caso della Sig.ra Pindo Mulla.
Il procedimento decisionale che ha condotto all’autorizzazione dell’intervento sulla persona della ricorrente risultava dunque affetto da vizi, a partire dal contenuto della richiesta trasmessa dal personale sanitario al juez de guardia per l’autorizzazione dell’intervento in regime di urgenza, che forniva elementi limitati sul caso e nessun dato anagrafico della paziente, oltre all’erronea indicazione che ella, Testimone di Geova, rifiutasse «tutti i tipi di trattamento». Inoltre dal tenore della richiesta era plausibile ritenere che il rifiuto ai trattamenti fosse meramente orale, mentre la donna aveva redatto e registrato, in ossequio alle norme del diritto interno, un Documento de instrucciones previas.
La Corte solidarizza con lo scrupolo dei medici e la rapidità con cui gli organi hanno operato, senza negare l’evidenza che con tale intervento sia stata salvata la vita della ricorrente, ma in pari tempo non può esimersi dall’evidenziare come la procedura seguita fosse affetta da errori e vizi, rimarcati anche dal Giudice Elósegui nella prima opinione concorrente, che auspica maggior attenzione da parte del personale sanitario.
Il processo decisionale seguito nel caso di specie, conclude la Corte, non ha garantito un adeguato rispetto dell’autonomia della ricorrente, con conseguente violazione del suo diritto al rispetto della vita privata, come tutelato dall’art. 8 CEDU letto alla luce del successivo art. 9.
5. Sebbene condivisibile nelle sue conclusioni, la pronuncia appare un’occasione mancata per la Corte per affrontare un tema centrale: il diritto del paziente di ricevere cure conformi alle proprie convinzioni religiose. Tale aspetto, come rilevato nella seconda opinione concorrente del Giudice Ktistakis (con la quale concorda il giudice Mourou-Vikström), avrebbe meritato una trattazione più approfondita. La Corte incentra invece la decisione sul tema del consenso, dando scarso risalto alla tensione naturale che in questo caso emerge tra la fede della donna e i suoi diritti di paziente, punto che era stato invece colto dell’Associazione europea dei testimoni di Geova, terzo intervenuto in giudizio a sostegno delle ragioni della ricorrente.
È innegabile, infatti, che la libertà di autodeterminazione del paziente ha significato in quanto egli possa fare scelte che si accordino con le sue opinioni e valori, anche religiosi, indipendentemente da quanto possano apparire poco sagge o irrazionali a chi non condivide il medesimo assetto valoriale. Nel caso di specie l’art. 9 CEDU funge da mero sfondo all’art. 8 CEDU, mentre il rilievo dei diritti da esso nascenti avrebbe potuto (e forse dovuto) essere maggiormente apprezzato, al fine di valutare se la protezione della “salute” giustifichi l’imposizione di una restrizione al diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare, sulla base del loro diritto individuale (art. 9 CEDU) e collettivo (art. 11 CEDU) di libertà religiosa, di farsi somministrare trasfusioni di sangue.
6. Un ulteriore aspetto della decisione che merita di essere rimarcato attiene al riconoscimento a favore della ricorrente di una somma a titolo di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU. Sul punto, e solo su questo, i giudici della Corte di sono divisi (nove a favore e otto contrari); ad avviso dei dissenzienti la Corte ben avrebbe potuto ritenere che l’accertamento della violazione costituisse di per sé un’equa soddisfazione per la ricorrente, senza necessità di un ristoro pecuniario, conformemente a quanto accaduto in casi simili (Nikolova c. Bulgaria; Öcalan c. Turchia; Vinter e altri c. Regno Unito; Murray c. Paesi Bassi; Janowiec e altri c. Russia; Stollenwerk c. Germania). La loro conclusione riposa su due tipi di considerazioni, fattuali e processuale: sotto il profilo fattuale, sulla base delle dichiarazioni della stessa ricorrente, che asseriva agire per mere ragioni di principio, senza contestate l’eseguita isterectomia né aver intrapreso azioni di responsabilità contro il personale sanitario, nonché sul rilievo del contesto di gravità del quadro clinico e di urgenza dell’intervento; sotto il profilo processuale, sul fatto che la Corte abbia concluso accertando una violazione meramente procedurale.
L’argomentazione dell’opinione dissenziente non pare condivisibile. Risulta dagli atti del procedimento che la desistenza della ricorrente in merito ad azioni di responsabilità sia stata determinata più da esigenze di strategia processuale che da reali determinazioni, tanto è vero che ella ha descritto la vicenda come «un viol sur ma personne, quelque chose de répugnant (…), très, très mal», paragonando l’avvenuta trasfusione persino a uno stupro.
Si coglie da tali affermazioni come l’atto subìto abbia avuto per la ricorrente rilevante gravità, che giustifica il riconoscimento in suo favore di una riparazione per i danni subiti, sebbene il disvalore del fatto si possa cogliere nella sua reale essenza solo ove si abbia riguardo alla fede da lei professata e alle conseguenze che ha prodotto sull’esercizio del suo diritto di libertà religiosa.
Tuttavia il ruolo giocato dall’art. 9 CEDU nella presente vertenza, come si è avuto modo di evidenziare, è di mero sfondo e non è stata riscontrata dalla Corte una violazione di tale norma. Pare allora lecito domandarsi se i firmatari dell’opinione in parte dissenziente sarebbero giunti alla medesima conclusione ove nel caso di specie fosse stato accordato maggior rilievo alla violazione del diritto di libertà religiosa della ricorrente.