La Corte costituzionale torna ancora sul suicidio assistito. Ma l’ultima parola non può che spettare al legislatore
La Corte costituzionale, nella perdurante inerzia del legislatore, si è nuovamente pronunciata in materia di suicidio assistito con la sentenza n. 135 del 2024 (per un commento, A. Ruggeri, 2024; P. Veronesi, 2024), così ritornando su quanto già statuito con l’ordinanza n. 207 del 2018, prima, e con la sentenza n. 242 del 2019, poi, (tra i molti commenti, si vedano N. Fiano, 2018; U. Adamo, 2018; A. Apostoli, 2021). In tali pronunce, come noto, a fronte dell’esigenza di tutelare non solo l’identità della persona e la sua dignità, ma anche gli interessi collettivi e sociali alla conservazione dell’esistenza del singolo che si trovi in condizioni di fragilità e vulnerabilità, i giudici costituzionali non aprono la strada al riconoscimento, nel nostro ordinamento, di un vero e proprio diritto di morire; al tempo stesso, però, affermano che il divieto assoluto di aiuto al suicidio, in determinate situazioni concrete, finisce per limitare irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle salva vita, finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, imponendogli, in ultima analisi, un’unica modalità per congedarsi dalla vita. Prendono atto, in altre parole, dell’esistenza di casi difficili, connessi a fatti del tutto peculiari a cui devono essere riconnessi spazi di non punibilità, in quanto riferibili a quelle stesse situazioni già previste dalla l. n. 219 del 2017, che consente di revocare il consenso a qualsiasi trattamento terapeutico, ivi comprese respirazione, idratazione e alimentazione artificiali, lasciando che la patologia faccia il suo corso (D. Pulitanò, 2018). Alla luce di ciò, individuano quattro condizioni, il cui accertamento è rimesso alle strutture del Servizio sanitario nazionale, la cui verifica consente l’accesso al suicidio assistito: (a) l’irreversibilità della patologia, (b) la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, (c) la capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli, (d) la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale (Corte cost., ord. n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019).
È proprio il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale a non sussistere, secondo il Giudice per le indagini preliminari di Firenze, nella vicenda di Massimiliano Scalas, affetto da sclerosi multipla di grado avanzato, in stato di quasi totale immobilità, il quale viene accompagnato in Svizzera da Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese; tutti, in conseguenza di ciò, indagati per il reato di cui all’art. 580 c.p. davanti al Tribunale di Firenze. È lo stesso Gip di Firenze, il 17 gennaio 2024 (A. D’Aloia, 2024), a sollevare una di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019», nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», poiché, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione), ciò determinerebbe una irragionevole «disparità di trattamento tra i pazienti e una conseguente ingiustificata lesione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze».
La Corte costituzionale, in un giudizio che vede l’individuazione di due giudici relatori (e poi redattori), nonché la presentazione di innumerevoli memorie di amici curiae, con la sentenza n. 135 del 2024, tuttavia, rigetta la questione di legittimità proposta e conferma «integralmente» quanto già statuito.
I giudici costituzionali, infatti, «pur consapevoli della intensa sofferenza e prostrazione sperimentata da chi, affetto da anni da patologie degenerative del sistema nervoso, e giunto ormai a uno stato avanzato della malattia, associato alla quasi totalità immobilità e conseguente dipendenza dall’assistenza di terze persone per le necessità più basilari della vita quotidiana, viva questa situazione come intollerabile» (Corte cost. n. 135 del 2024), ribadiscono, come già nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella conseguente sentenza n. 242 del 2019, di non aver riconosciuto «un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza […] fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile», ma di essersi limitati a ritenere irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito ai pazienti che avevano già il diritto di scegliere di porre fine alla propria esistenza rifiutando o revocando il consenso inizialmente prestato a trattamenti terapeutici necessari ad assicurarne la sopravvivenza; una simile ratio, quindi, non può estendersi a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, «i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure». Le due situazioni, secondo la Corte sono, «dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost».
Tutto ciò posto, però, i giudici costituzionali precisano – a fronte della varietà delle interpretazioni offerte nella prassi (come ad esempio nel caso Trentini), sulla quale hanno insistito i difensori delle parti e degli intervenienti, nonché vari amici curiae – che la nozione di trattamenti di sostegno vitale utilizzata nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019 deve essere interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni.
In tal modo, circoscrivendo ulteriormente lo spazio di discrezionalità del legislatore che dovrà (auspicabilmente) porre una disciplina in materia di suicidio assistito, la Corte muove dalla constatazione per cui il paziente, già oggi, ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività, incluse quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario e la cui esecuzione richiede particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico della sua assistenza. Si afferma quindi che «nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019».
I giudici costituzionali decidono, in altre parole, di offrire alcuni esempi, per restituire il senso concreto e materiale di quali trattamenti possano essere qualificati di sostegno vitale.
Nel connotare il diritto all’autodeterminazione terapeutica come libertà negativa – così qualificando il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale come presupposto imprescindibile – la Corte costituzionale non omette di dar rilievo al fatto che, successivamente all’ordinanza n. 207 del 2018 e alla sentenza n. 242 del 2019 – come già altre giurisdizioni in precedenza (Corte costituzionale della Colombia, a partire dalla sentenza 20 maggio 1997, C-239/97; Corte suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter contro Canada, 2015, CSC 5, con commento di E. Stefanelli, 2015) – le Corti costituzionali tedesca, austriaca e spagnola hanno tratto proprio da tale diritto «(fondato, rispettivamente, sull’art. 2 della Legge fondamentale tedesca, sull’art. 8 CEDU e sul combinato disposto degli artt. 10 e 15 della Costituzione spagnola»), come pure dallo stesso mandato di tutela della dignità umana, l’esistenza di un diritto fondamentale a disporre della propria vita, anche attraverso l’aiuto di terzi (Tribunale costituzionale federale tedesco, sentenza 26 febbraio 2020, nelle cause riunite 2 BvR 2347/15, 2 BvR 2527/16, 2 BvR 2354/16, 2 BvR 1593/16, 2 BvR 1261/16, 2 BvR 651/16, paragrafi 208-213; Tribunale costituzionale austriaco, sentenza 11 dicembre 2020, in causa G 139/2019-71, paragrafi 73 e 74), o comunque un «diritto della persona alla propria morte in contesti eutanasici» (Tribunale costituzionale spagnolo, sentenza 22 marzo 2023, in causa 4057/2021, pagine da 73 a 78)». Alla luce di ciò, le pronunce del Tribunale costituzionale federale tedesco e del Tribunale costituzionale austriaco hanno concluso «nel senso dell’illegittimità costituzionale delle disposizioni che, nei rispettivi ordinamenti, ponevano limiti all’assistenza al suicidio, ovvero la vietavano»; il Tribunale costituzionale spagnolo, invece, ricava dal diritto della persona a disporre della propria esistenza il fondamento costituzionale della disciplina legislativa recentemente adottata nel Paese in materia di eutanasia e assistenza al suicidio di persone capaci di autodeterminarsi» (Ley n. 3/2021 del 24 marzo 2021).
Tuttavia, i giudici costituzionali, nella sentenza in commento, ritengono di dover pervenire a un risultato diverso, analogamente a quanto già deciso dalla Corte Edu (nei casi Daniel Karsai contro Ungheria e Pretty contro Regno Unito) e dalla Corte Suprema del Regno Unito (sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, KSC 38), poiché, «se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.»; essi riguardano sia la «possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza», sia l’eventualità che, in presenza di una legislazione permissiva «non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una pressione sociale indiretta su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte».
Nell’inerzia del legislatore (cui viene ribadito con forza l’ormai consueto auspicio di intervenire «prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati») i giudici costituzionali cercano così di ovviare al “non uso” del potere legislativo, consolidando un ruolo di supplenza cui è rimessa, oggi, la protezione delle libertà individuali. Là dove il Parlamento non provveda, infatti, non può che spettare al giudice costituzionale rimodellare il (proprio) limite della discrezionalità legislativa, adottando tecniche decisorie inedite al fine di assicurare, all’esito del giudizio, situazioni normative conformi a Costituzione o «almeno di evitare che si creino condizioni di maggiore incostituzionalità rispetto a quelle che si vanno a rimuovere» (M. Ruotolo, 2019). In questo senso, non appare compatibile con il ruolo del legislatore la mera inerzia, «la semplice carenza di alcun intervento pur a fronte di vizi di costituzionalità chiaramente accertati dal giudice costituzionale: un atteggiamento di tal genere, che finisce per sconfinare nell’indifferenza verso i valori costituzionali» (L. D’Andrea, 2024), ossia nell’«apatia costituzionale» (M. Ruotolo, 2020), non è soltanto politicamente criticabile, ma anche giuridicamente censurabile. Al contempo, diventa però sempre più urgente rilevare che l’assenza della politica e la sua distanza rispetto alle esigenze dei cittadini e delle persone, alla lunga, crea una situazione che rischia di mettere sotto tensione lo Stato costituzionale nei suoi capisaldi democratici: pretermettendo il circuito della rappresentanza, si aumentano le sempre maggiori insofferenze del (e al) sistema politico-rappresentativo e i partiti politici, cui spetta, nel nostro ordinamento, il ruolo funzionale di interpreti e trasmettitori della “domanda sociale”, allontanatisi da tempo dal rapporto con l’elettorato, finiscono per alimentare e dilatare uno iato che si risolve in un indebolimento complessivo del sistema e della sua legittimazione (F. Gallo, 2013).