Trump v. USA e il gioco delle tre immunità
Per la terza volta in pochi mesi si parla in questo blog delle vicende processuali di Donald Trump. Nelle prime due occasione si è trattato della possibile squalifica di Trump dalla competizione elettorale per aver preso parte – come ritenuto dalla Corte suprema del Colorado – all’insurrezione del 6 gennaio 2021; la successiva sentenza della Corte suprema federale avrebbe poi cassato quel verdetto.
Ora, con la sentenza del 1° luglio 2024, la Corte suprema federale si è pronunciata, sempre su sollecitazione di Trump, sull’immunità penale del Presidente degli Stati Uniti d’America.
Si ricorda che, nella costellazione di vicende processuali che coinvolgono Trump, a livello federale, il procuratore speciale Jack Smith aveva avviato due filoni giudiziari relativi, rispettivamente, al ruolo di Trump nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 (sotto la giurisdizione della D.C. District Court) e alla sottrazione da parte di Trump di documenti segreti dalla Casa Bianca (giurisdizione della Southern Florida District Court).
Con riguardo al primo filone, Trump era stato destinatario di quattro capi d’accusa (utilizzo del Dipartimento di Giustizia per convincere alcuni Stati a sostituire i legittimi elettori con falsi elettori di Trump, pressioni sul suo vicepresidente di allora affinché non certificasse il voto federale, tentativi di far cambiare voti in suo favore, tweet e discorsi incendiari prima degli attacchi del 6 gennaio 2021). In generale, secondo il procuratore speciale, Trump avrebbe creato una “diffusa sfiducia […] attraverso bugie pervasive e destabilizzanti sulla frode elettorale” e avrebbe cospirato per minare “il processo nazionale di raccolta, conteggio e certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali”.
Trump aveva fatto ricorso contro queste accuse, sostenendo che in qualità di ex Presidente avrebbe diritto a un’”immunità assoluta” per gli atti compiuti durante il mandato e che quindi non potrebbe essere sottoposto a procedimenti penali. Il giudice di primo grado e la Corte distrettuale d’appello di Washington avevano decisamente respinto questa tesi.
Il 28 febbraio 2024 la Corte Suprema federale aveva accettato di rivedere il caso, precisando, in un comunicato, che il suo esame sarebbe limitato a decidere whether and if so to what extent does a former President enjoy presidential immunity from criminal prosecution for conduct alleged to involve official acts during his tenure in office.
Con la sentenza in questione, la maggioranza della Corte (6-3), per mano del Chief Justice Roberts, ha stabilito in 43 pagine quanto segue:
i) Gli ex Presidenti non possono essere perseguiti per azioni legate all’esercizio di poteri fondamentali del loro ufficio, conferiti direttamente dalla Costituzione e per l’esercizio dei quali non è richiesto l’intervento di altri poteri dello Stato. Sono poteri espressivi di una “authority conclusive and preclusive”: rientrano in tale categoria, ad esempio, il potere di concedere grazia, l’apposizione del veto alla legislazione, l’accreditamento di ambasciatori. In questi casi né Congresso né il potere giudiziario possono “criminalizzare” o “perseguire penalmente” le azioni funzionali all’esercizio di questi poteri.
ii) Quanto agli atti ufficiali in senso più ampio, secondo Roberts bisogna muovere almeno dalla presunzione che una tale immunità sussista, a meno che l’accusa non dimostri che la sottoposizione a procedimento penale non minaccerebbe il potere e il funzionamento dell’Esecutivo. In questo caso, infatti, secondo Roberts – il quale ammette che, in mancanza di significativi precedenti giudiziari e appigli storici, è dovuto ricorrere all’analisi della divisione dei poteri disegnata in Costituzione – bisogna bilanciare l’interesse pubblico a un’”applicazione equa ed efficace” delle leggi penali con la necessità di evitare influenze indebite sul processo decisionale di un Presidente in carica. Influenze che si verificherebbero nella misura in cui il Presidente sa che sarà oggetto di accuse penali una volta cessato dall’ufficio: “un Presidente incline a seguire una certa condotta basata sull’interesse pubblico potrebbe invece optare per un’altra, preoccupato di incorrere in sanzioni penali alla fine del suo mandato”. Bisogna invece impedire la prospettiva di “un Esecutivo che si cannibalizza, con ogni nuovo Presidente libero di perseguire i suoi predecessori, ma incapace di svolgere senza paura i suoi doveri per paura che possa essere il prossimo”.
iii) Non esiste immunità per atti non ufficiali. Determinare quali atti siano ufficiali e quali non ufficiali “può essere difficile”, ammette Roberts. Di certo, precisa il Chief Justice, nel discernere la distinzione, i tribunali non possono considerare le motivazioni del Presidente, né possono designare un atto come non ufficiale semplicemente perché presumibilmente viola la legge.
iv) Immunità penale e impeachment sono istituti diversi e non necessariamente contigui. Secondo la difesa di Trump, avendo questi superato indenne le due procedure di impeachment a cui è stato sottoposto durante il suo mandato, non potrebbe essere sottoposto a incriminazioni penali. Secondo la Corte tutta, la tesi è insostenibile, soprattutto quando si parla di former e non di sitting President, essendo contraria alla lettera della Costituzione e alla ratio dell’impeachment, che è un “processo politico”, non un istituto di diritto penale.
Applicando questo ragionamento alle specifiche accuse mosse contro Trump oggetto della giurisdizione del D.C. Circuit, la maggioranza della Corte suprema stabilisce che le azioni di Trump sono coperte da immunità assoluta e lui non può essere perseguito per i presunti tentativi di “sfruttare il potere e l’autorità del Dipartimento di Giustizia per convincere alcuni Stati a sostituire i loro legittimi elettori con falsi elettori di Trump”. E questo perché “l’azione penale è prerogativa speciale dell’Esecutivo”.
Per quanto riguarda l’accusa secondo cui Trump avrebbe fatto pressioni sul suo vice-Presidente, Mike Pence, in qualità di Presidente del Senato, affinché rifiutasse la certificazione dei voti o li restituisse alle legislature statali, la Corte ritiene Trump “presuntivamente immune”, trattandosi di interazioni ufficiali implicanti l’esercizio di “responsabilità ufficiali”. D’altra parte, osserva Roberts, il ruolo del vice-Presidente come Presidente del Senato non rientra tra quelli svolti in qualità di membro dell’Esecutivo. La Corte lascia quindi al tribunale distrettuale il compito di decidere se perseguire Trump per questa condotta inficerebbe il potere e il funzionamento dell’Esecutivo.
La Corte fa lo stesso ragionamento per le accuse riguardanti le interazioni di Trump con individui privati e funzionari statali, con le quali tentò di convincerli a cambiare i voti a suo favore, così come i tweet di Trump prima degli attacchi del 6 gennaio 2021 e il suo discorso a Washington quel giorno. Per determinare la qualità di questi comportamenti (se ufficiali o meno), scrive Roberts, sarà necessaria “un’analisi approfondita delle ampie e interrelate accuse dell’incriminazione”, da rimettere al tribunale distrettuale.
Roberts respinge poi l’argomentazione secondo cui, anche se posta l’immunità per gli atti ufficiali, sarebbe possibile comunque utilizzare prove di quegli atti ufficiali per portare il caso davanti a una giuria popolare – ad esempio, per dimostrare che Trump sapeva che le sue affermazioni di frode elettorale erano false. Questa tesi, scrive Roberts, “consentirebbe a un procuratore di fare indirettamente ciò che non può fare direttamente – invitare la giuria a esaminare atti per i quali un Presidente è penalmente immune per dimostrare comunque la sua responsabilità su qualsiasi altra accusa.”
Il giudice Thomas concorda con la sentenza della maggioranza, ma deposita un’opinione concorrente in cui mette in discussione la costituzionalità della nomina di Jack Smith come procuratore speciale, osservando che “nessun ex Presidente ha affrontato una persecuzione penale per i suoi atti mentre era in carica nei più di 200 anni dalla fondazione del nostro Paese”: “se questa persecuzione senza precedenti deve procedere”, scrive Thomas, “deve essere condotta da qualcuno debitamente autorizzato a farlo dal popolo americano”.
Proprio facendo leva sulla concurring di Thomas, nei giorni immediatamente successivi alla pronuncia della Corte suprema, la giudice distrettuale Aileen Cannon della Southern Florida District Court, ha respinto il secondo filone d’inchiesta aperto dal procuratore speciale Smith, secondo cui Trump aveva illegalmente trattenuto documenti classificati dopo aver lasciato l’incarico da Presidente. La giudice ha sostenuto che il procuratore speciale è stato nominato illegalmente dal Dipartimento di Giustizia: “La posizione del Procuratore Speciale […] minaccia la libertà strutturale inerente alla separazione dei poteri”. Sul tema delle nomine di procuratori speciali, pratica a cui era ricorso lo stesso Trump durante il suo mandato, si veda da ultimo Melica.
Nella concurring depositata dalla giudice Coney Barrett, questa dichiara che avrebbe affrontato la questione dell’immunità per altri atti ufficiali in modo diverso, indagando prima di tutto se la legge penale in base alla quale un ex Presidente è accusato si applichi ai suoi atti ufficiali e, quindi, valutando se perseguire l’ex Presidente interferirebbe con la sua autorità costituzionale.
Applicando tale ragionamento ai fatti di questo caso, Coney Barrett ritiene che almeno alcuni dei comportamenti alla base delle accuse mosse a Trump – come la sua richiesta al Presidente della Camera dei rappresentanti dell’Arizona di tenere una sessione speciale sulle accuse di frode elettorale – non sarebbero coperte da tale immunità: “il Presidente non ha autorità sulle legislature statali o sui loro leader, quindi è difficile vedere come perseguirlo per crimini commessi quando trattava con il Presidente della Camera dell’Arizona interferirebbe incostituzionalmente con il potere esecutivo.”
Coney Barrett ha anche disapprovato la tesi della maggioranza della Corte riguardo la possibilità che i procuratori utilizzino davanti a una giuria popolare prove relative ad atti ufficiali di un Presidente: “la Costituzione non richiede di tenere le giurie popolari all’oscuro delle circostanze che caratterizzano la condotta per la quale i Presidenti possono essere ritenuti responsabili”. La giudice riconosce la preoccupazione della maggioranza che l’uso di tali prove potrebbe influenzare la giuria, ma insiste che le regole federali? in materia probatoria e i tribunali di prima istanza possono affrontare tali preoccupazioni caso per caso.
Nel dissentire – ma senza il tradizionale avverbio “rispettosamente”, anzi aggiungendo “con paura per la nostra democrazia” – la giudice Sotomayor, cui si associano Kagan e Jacskon, sostiene che la decisione della maggioranza “rimodella l’istituzione della Presidenza”.
Niente nel testo della Costituzione o nella storia degli Stati Uniti, secondo Sotomayor, supporta il tipo di immunità che la Corte ha elaborato (“sembra che a questa Corte la storia interessi solo quando le conviene”). Al contrario, i redattori della Costituzione hanno creato una chiara immunità per i membri del Congresso, e alcune costituzioni statali dell’epoca includevano esplicitamente l’immunità penale per i governatori degli Stati, ma i padri costituenti non hanno scientemente previsto alcuna disposizione simile per il Presidente degli Stati Uniti. Anzi, aggiunge Sotomayor, questi hanno lasciato intendere che il Presidente potesse affrontare una incriminazione penale, indicando nella disposizione che riguarda l’impeachment che un Presidente può essere perseguito anche dopo o comunque indipendentemente dall’esito dell’impeachment.
Quanto poi allo standard inventato da Roberts (mutuato da un caso – Nixon v. Fitzgerald, 1982 – che però riguardava la responsabilità patrimoniale del Presidente), secondo cui da incriminazioni per atti ufficiali non deve derivare “alcun pericolo di interferenza” per il funzionamento Esecutivo, è difficile immaginare un’incriminazione penale che non integri comunque una tale intrusione. Ma è sbagliato, secondo Sotomayor, proprio l’utilizzo di un simile standard quando sono in gioco processi penali federali, dove l’interesse pubblico è qualitativamente diverso da quello sotteso a procedimenti civili. Il ragionamento della maggioranza si basa infatti sulla “preoccupante” idea che un Presidente sia “incapace di affrontare le decisioni difficili richieste da questo incarico restando nei limiti della legge”: come se “il nostro Paese ci perdesse qualcosa” quando un Presidente, “preso dall’ansia di finire sotto processo”, “è costretto a operare entro i dettami del diritto penale”. La Corte, conclude Sotomayor, “non dovrebbe avere così poca fede nei nostri Presidenti”.
Fuori luogo, secondo la dissenting, è poi la costruzione così laboriosa di un’immunità assoluta legata all’esercizio dei poteri essenziali della Presidenza. Non si poneva infatti di fronte alla Corte un caso che riguardasse tali funzioni: Trump non è stato incriminato per l’esercizio illegale del potere di veto o di grazia, o altro, ma per aver preso parte al tentativo di sovvertire l’elezione presidenziale. Lo zelo di Roberts, invece, lo porta addirittura a iscrivere tra le funzioni “conclusive and preclusive” anche quella di “far sì che le leggi siano fedelmente eseguite” (articolo II, sez. 3 della Costituzione): una visione così ampia dei poteri essenziali del Presidente, secondo la giudice, isolerà efficacemente ogni sorta di condotta non-essenziale da procedimenti penali.
In conclusione, e in un climax di scenari drammatici delineati dalla giudice in cui un Presidente risulterebbe impunito per tutto, anche per aver organizzato un colpo di Stato (p. 29-30 della dissenting), Sotomayor ritiene che la decisione della maggioranza rischia di avere una portata più ampia di quanto immaginino i suoi colleghi: la linea tracciata da Roberts tra condotta ufficiale e non ufficiale “restringe la condotta considerata ‘non ufficiale’ quasi a niente”, poiché ogni volta che il Presidente agisce in un modo che non si collochi manifestamente al di fuori della sua autorità, starebbe agendo comunque in veste ufficiale. Qualunque sia l’accezione e l’uso del “potere ufficiale,” conclude Sotomayor, “il Presidente è diventato ora un re al di sopra della legge.”
Nel proprio dissenso, la giudice Jackson ricostruisce l’impatto della sentenza in parola sul sistema penalistico statunitense e sul principio della divisione dei poteri. Su questo secondo versante, in particolare, ribadisce la preoccupazione per la predetta elevazione del Presidente degli Stati Uniti (“i semi del potere assoluto per i Presidenti sono stati piantati”), ma sottolinea anche il maggiore protagonismo così assunto dalla Corte Suprema. La maggioranza, infatti, non fornisce alcuna guida effettiva su come applicare il nuovo paradigma così creato, su come ad esempio classificare la condotta di un Presidente, o su cosa costituisca “potere costituzionale fondamentale” (standard e definizioni non presenti nella Costituzioni), richiedendo quindi che ogni questione ripassi dal suo scrutinio. In sostanza, dice Jackson, la Corte ha ora imposto il proprio requisito di pre-approvazione sull’applicazione delle leggi del Congresso a un ex Presidente presumibilmente colpevole di aver commesso crimini mentre era in carica. In altri termini, “mentre il Congresso (il ramo più responsabile di fronte al popolo) è l’organo che la Costituzione incarica di decidere, in generale, quale condotta è consentita o vietata, la Corte ora arroga a sé quel potere quando quella questione riguarda il Presidente”.
In un evidente esercizio di legislazione giudiziale, senza seguire metodologie originaliste o testualiste, senza appigli storici ai lavori costituenti o a precedenti significativi, andando ancora una volta (dopo la risposta al caso del Colorado) oltre quanto strettamente necessario per decidere la questione, la Corte Suprema per mano del suo Chief Justice abbandona la storica remissività nell’affrontare i mutamenti della forma di governo statunitense e, con un cambio radicale di postura, riscrive la struttura della separazione dei poteri declinando i checks and balances in termini non più di flessibilità e adattabilità funzionali a evitare concentrazioni anomale di potere politico (cfr. Buratti, qui, p. 82-84, 93-95), ma in termini di insularità e sfiducia tra poteri dello Stato, a cominciare da quella espressa verso altri attori istituzionali dalla Corte stessa. Com’è stato efficacemente scritto, infatti, nella sua giurisprudenza sui casi riguardanti Donald Trump, la Corte sembra essersi eretta a ultimo baluardo nel tentativo di salvare il Paese dalle risposte sproporzionate di altre istituzioni al fenomeno-Trump, giungendo a essere “così certa che le altre istituzioni non siano affidabili da dimenticarsi di guardarsi allo specchio”.