I diritti degli indigeni sulle terre tradizionalmente occupate nel Brasile contemporaneo – Una disputa tra il Supremo Tribunale Federale, il Congresso nazionale e il Presidente della Repubblica
I primi conflitti per le terre occupate dalle popolazioni indigene risalgono al processo di colonizzazione del territorio brasiliano da parte del Portogallo e rimangono un problema costante nella politica brasiliana; un problema che interessa non solo l’Unione federale e le sue istituzioni, ma anche gli Stati e i Comuni, data la varietà di questioni relative alla sicurezza, alla salute, all’ambiente, tra le altre. Questi conflitti derivano da azioni illegali da parte sia dello Stato brasiliano sia di privati che cercano di accedere alla proprietà della terra.
Il problema incide direttamente sulla vita di 1,7 milioni di indigeni, che vivono secondo stili diversi di vita. Attualmente esistono in tutto 741 terre indigene, di cui 501 già omologate e riservate, 66 dichiarate, 45 identificate e 128 in via di identificazione, per un totale del 13% del territorio nazionale. Nella maggior parte di esse non vige solo la legge statale, ma anche diritti consuetudinari che istituzioni indigene sono chiamate ad applicare, in modo da riconoscere questi sistemi giuridici come autonomi dalla legge statale (Vitor Cardoso, J., & Arcaro Conci, L. G. (2019). Jurisdição indígena e pluralismo jurídico na América Latina: estudo de caso sobre a justiça Waiwai. Revista Brasileira de Políticas Públicas, 9(2).
Queste terre sono proprietà pubblica dell’Unione federale (art. 20, XI della Costituzione federale) e sono “inalienabili e indisponibili, e i diritti su di essi sono imprescrittibili” (art. 231, § 4 della Costituzione federale). In questo senso, l’Unione federale ha l’obbligo costituzionale di prendersi cura delle popolazioni che li occupano “tradizionalmente” e di riconoscere loro i diritti corrispondenti.
Ma non è sempre stato così!
La Costituzione federale brasiliana (CF) del 1988 è la prima nella storia costituzionale brasiliana a includere, a livello costituzionale, un capitolo sistematico e interamente dedicato alle popolazioni indigene tradizionali (Titolo VII, Capitolo VIII): nulla a che vedere con la pochezza delle disposizioni previste nella Costituzione del 1934 (art. 129) e in quelle successive (1937, 1946 e 1967).
All’origine della questione vi è il passo indietro compiuto dal Tribunale Supremo Federale (STF) rispetto alla sua stessa giurisprudenza attraverso la quale erano stati introdotti alcuni presupposti temporali per riconoscere il diritto delle popolazioni indigene a detenere diritti sulle terre che tradizionalmente occupano: non è, dunque, la proprietà in termini privatistici, quanto il godimento di diritti essere in gioco, dato che, come è stato ricordato, secondo la Costituzione stessa, alle terre è assegnato lo status di beni pubblici.
Nella causa Pet. 3388 il STF aveva inaugurato la teoria cosiddetta del Marco Temporal, affermando che la data di promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre 1988, era un “riferimento insostituibile per i dati sull’occupazione di un determinato spazio geografico da parte di questo o quel gruppo etnico aborigeno”, di modo che solo coloro che lo occupavano a quella data possono avanzare pretese sulla terra. Alla teoria del Marco temporal, se ne affiancava contestualmente un’altra, detta del Renitente Esbulho, secondi la quale le comunità che non erano presenti all’epoca dell’entrata in vigore della Costituzione avrebbero eccezionalmente visto riconosciuti i loro diritti se fosse stata dimostrata la loro costante opposizione formale all’uso altrui.
Orbene, va detto chiaramente che la tesi del “Marco Temporal” non trova fondamento in nessuna previsione costituzionale, poiché la Costituzione non definisce questa condizione in nessun momento. Essa è piuttosto il risultato di un’interpretazione errata che limita i diritti di popolazioni che tradizionalmente occupano o hanno occupato terre – alcune delle quali fin dal processo di colonizzazione – e che, in tempi diversi, sono state espropriate dei loro spazi dallo Stato o altri attori. In realtà, lo stesso testo costituzionale utilizzando il verbo “sono riconosciuti”, sembrerebbe implicitamente ammettere la loro pre-esistenza attraverso un’azione dichiarativa più che costitutiva..
Per quanto riguarda la seconda tesi, quella del Renitente Esbulho, essa ha finito per creare un nuovo contesto giuridico, all’interno del quale è possibile preservare i diritti di queste popolazioni, dal momento che anche se non fossero in possesso della terra nei limiti temporali imposti, ci sarebbe un’eccezione per garantire il riconoscimento della titolarità di questi diritti fondamentali. Per farlo, ha si è affidata ad istituti di natura civilistica più che costituzionali, generando una serie di rilevanti problemi, dal momento che la cultura tradizionale dei popoli indigeni non si affidata ad una idea individuale di proprietà, ma alla dimensione comunitaria del possesso, da secoli mediato dalla Stato. Di fatto la Costituzione del 1988 (art. 232) è stata la prima a consentire loro di intentare azioni legali senza la tutela obbligatoria di alcun organo statale; in altre parole, l’opposizione era possibile solo in potenza dato che chi doveva opporsi non aveva la legittimità di agire senza l’intermediazione dello Stato.
Capita così che più recentemente, il 21 settembre, ai fini di una lettura più rispettosa della questione, il STF ha deciso (RE 1017365) di rivedere la sua precedente giurisprudenza, superando le due teorie prima richiamate. Attraverso una sorta di overruling, ha ridato spazio al testo della Costituzione e ha ribadito che le terre tradizionalmente occupate, in quanto pubbliche, sono “inalienabili, indisponibili e i diritti su di esse imprescrittibili”, in altre parole, non sono sottoponibili a scadenze o altri istituti.
Ha inoltre stabilito che le forme di possesso ancestrali non possono essere confuse con il possesso di matrice civile, inquadrando la questione come una questione costituzionale condizionata da “usi, costumi e tradizioni” (art. 231, § 1, della Costituzione), così da superare tanto la tesi del “Marco Temporal” quanto quella dell’ “Esbulho Renitente”, e prescrivendo che i casi di possesso in buona fede da parte di terzi occupanti non indigeni possano essere indennizzati secondo il “sistema di indennizzo relativo ai miglioramenti utili e necessari, previsto dal § 6 dell’art. 231 della CF/88”.
Ha affermato inoltre partendo dal presupposto che l’Unione Federale ha l’obbligo legale di delimitare queste terre (Demarcação), è consentito in casi eccezionali, in cui è “assolutamente impossibile” pronunciarsi in toto a favore delle popolazioni indigene, la formazione di aree riservate a queste popolazioni, attraverso un processo che deve avvenire con la loro partecipazione (art. 6 della Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro) al fine di rispettare i loro diritti. Si tratta di un’eccezione interessante ma preoccupante. Questa disposizione aumenta la discrezionalità delle autorità pubbliche nel definire il concetto di “’impossibilità assoluta”, sottoponendo tali delimitazioni a governi poco attenti ai diritti di queste popolazioni, come è accaduto tra il 2018-2022 durante il governo Bolsonaro.
Questa decisione ha avuto un immediato effetto revanscista sul Congresso nazionale, che il 27 settembre 2023 ha approvato il progetto di legge 2903/2023 per riaffermare, tra le altre cose, il “Marco Temporal”. Si tratta di una decisione parlamentare che entra in collisione con quanto deciso dalla Corte Suprema e che, stando alla lettera della Costituzione, non ha le condizioni tecniche per prosperare. Infatti, poiché come ricordato dal STF, la stessa Costituzione non definisce tale momento specifico, una legge ordinaria non potrebbe sospendere gli effetti di una decisione della Corte in materia costituzionale. A ciò si aggiunga che si tratterebbe di un evidente passo indietro per quel che riguarda la protezione dei diritti fondamentali in ambito sociale: un passo indietro che la stessa Corte considera inammissibile dal momento che “La clausola che vieta la regressione in termini di diritti a benefici positivi da parte dello Stato si traduce, nel processo di realizzazione di questi diritti fondamentali individuali o collettivi, in un ostacolo al fatto che i livelli di realizzazione di tali prerogative, una volta raggiunti, vengano successivamente ridotti o soppressi dallo Stato”(ARE 639.337).
Il 21 ottobre 2023, il Presidente della Repubblica ha parzialmente posto il veto (articolo 66, §1 e §2 del CF) al progetto di legge 2903/2023 per quanto riguarda le definizioni di marco temporal e renitente esbulho perché ha ritenuto di rinvenire sia profili di lesione dell’interesse pubblico che di incostituzionalità . Così è stata promulgata la legge 14.701/2023, priva della parte sottoposta al veto che ritorna al Congresso nazionale che può respingere il veto con il voto della maggioranza assoluta dei membri della Camera dei deputati e del Senato federale, che decidono separatamente (art. 66, § 4º, CF).
Non di meno, persistono anche nella legge approvata profi8li di preoccupazione. Sono stati infatti approvati due articoli (20 e 26), che consentono: il primo che l’usufrutto costituzionale esclusivo sulla terra possa essere mitigato in ragione “dell’interesse della politica di difesa e di sovranità nazionale”; il secondo che “l’esercizio di attività economiche su terre indigene, purché siano svolti dalla stessa comunità indigena e siano consentite la cooperazione e l’assunzione di terzi non indigeni”. Queste sono due questioni che preoccupano i leader indigeni, poiché potrebbero aumentare il potere discrezionale degli agenti governativi sui loro diritti fondiari.
Il confronto tra i popoli indigeni, da un lato, e i contadini, dall’altro, resta quindi nell’agenda politica brasiliana, nonostante la posizione della STF e del Presidente della Repubblica.