Verso il riconoscimento dei diritti riproduttivi in America Latina: la perspectiva de género della Corte Suprema messicana attraverso la depenalizzazione dell’aborto a livello federale (amparo en revisión n. 267/2023)
La Corte Suprema messicana (Suprema Corte de Justicia de la Nación), il 6 settembre 2023, ha emesso una sentenza dalla portata storica in punto di tutela dei diritti riproduttivi, secondo un approccio antidiscriminatorio che definisce la criminalizzazione totale dell’aborto come una discriminazione di genere e una violazione dei diritti umani. La Corte ha dichiarato incostituzionale l’intero impianto normativo definito nel Codice penale federale che prevedeva la criminalizzazione totale dell’aborto volontario.
La sentenza ha risolto l’amparo en revisión n. 267/2023, presentato dall’Associazione Civile GIRE, il cui scopo sociale è proprio la promozione e la difesa dei diritti umani delle donne, con particolare attenzione ai diritti sessuali e riproduttivi. La Corte ha riconosciuto la portata discriminatoria delle fattispecie penali configuranti il reato di aborto, ritenendo che queste violassero il diritto al libero sviluppo della personalità, il diritto alla salute, all’uguaglianza e all’autonomia riproduttiva.
Il ricorso di amparo era stato inizialmente respinto dalla Corte distrettuale, che aveva ritenuto l’associazione in questione non legittimata ad agire in giudizio, ma la sentenza è stata ribaltata in secondo grado, in cui è stato riconosciuto l’interesse legittimo della ricorrente, ritenendo la difesa dei diritti riproduttivi facente parte del suo scopo sociale. Il Tribunale collegiale, riservandosi di decidere, ha sollevato la questione di fronte alla Corte Suprema perché questa analizzasse la costituzionalità delle fattispecie penali in questione (in specie, gli artt. 330, 331, 332, 333 e 334 del Codice penale federale), secondo i parametri costituzionali della dignità umana, dell’autonomia e del libero sviluppo della personalità, dell’uguaglianza, del diritto alla salute e alla libertà riproduttiva e del «derecho a decidir y sus implicaciones específicas en el aborto» (Amparo en revisión n. 267/2023, lett. E, parr. 110 ss.).
L’analisi di costituzionalità svolta dalla Corte affronta in primis e congiuntamente la prima parte dell’articolo 330 e l’articolo 332, che delineano la fattispecie penale dell’“aborto consentido”. La prima parte dell’articolo 330 condanna chiunque induca una donna ad abortire, con qualsiasi mezzo, purché con il suo consenso, mentre l’articolo 332 prevede il reato di “aborto autoprocurado” (par. 139), che condanna la donna che si procura un aborto o che permetta che qualcun altro le pratichi un aborto, ipotesi ulteriormente corredata da tre circostanze aggravanti: la “mala fama” della donna, il tentativo di nascondere la propria gravidanza, il fatto che essa è il frutto di una “unión ilegítima”.
L’analisi della Corte prosegue in riferimento agli articoli 333 e 334, che delineano tre scusanti (ovvero l’imprudenza, lo stupro o il grave pericolo per la vita della donna incinta), in presenza delle quali la donna che ha fatto ricorso alla pratica abortiva è considerata non punibile. La Corte ha sancito l’incostituzionalità di tali norme in quanto, pur escludendo una sanzione penale, concepiscono comunque la condotta della donna come un reato, di fatto costituendo un disincentivo per le donne a denunciare di aver subito comportamenti lesivi della dignità umana come lo stupro (par. 194), in riferimento anche a quanto espresso da parte della Corte Interamericana dei Diritti Umani nel caso Valenzuela Ávila Vs. Guatemala, dell’11 ottobre 2019, par. 196, secondo cui la violenza sessuale comporta un’intrusione negli aspetti più personali e intimi della vita privata di una persona. La Corte ha anche richiamato quanto espresso dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha posto l’accento circa l’ampio rischio di aborto clandestino in caso di criminalizzazione della pratica, anche da parte delle vittime di stupro (par. 199).
Conseguentemente, è ritenuto incostituzionale anche l’articolo 331, che prevede che il personale sanitario che assiste all’interruzione della gravidanza sia condannato, oltre che alla reclusione, anche alla sospensione dall’esercizio della professione per un periodo che può variare da due a cinque anni, contrariamente a quanto raccomandato dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani circa la strumentalizzazione del potere punitivo dello Stato in materia abortiva (par. 179).
Nel sancire l’incostituzionalità della criminalizzazione tout court della pratica abortiva, la Corte ha sottolineato la necessaria liceità della pratica entro il primo trimestre, secondo un modello periodico che fa storicamente riferimento alla sentenza Roe v. Wade (410 U.S. 113, 1973), con cui la Corte Suprema statunitense riconobbe la rilevanza costituzionale del bilanciamento dei diritti che la legislazione circa la pratica abortiva necessariamente sottintende. Coerentemente, la Corte Suprema messicana ha ritenuto che le fattispecie penali oggetto della sentenza comportassero un’eccessiva compressione dei diritti di un soggetto a favore dell’altro, richiedendo che la tutela della donna e quella del nascituro siano bilanciate secondo un principio di proporzionalità, ritenuto assente nelle norme oggetto della sentenza (parr. 151 e 152). La Corte ha esplicitamente criticato la sfumatura ideologica e di ordine morale che le fattispecie penali in questione evidentemente presentano e che si traducono in una legislazione lesiva dei diritti umani o di interessi ritenuti costituzionalmente rilevanti in uno stato democratico e laico. Con tale affermazione, la Corte ha sancito l’incostituzionalità anche dell’art. 329 del Codice penale federale che intende l’aborto come «la muerte del producto de la concepción en cualquier momento de la preñez». La Corte, dunque, ha superato le posizioni previamente adottate sul punto, come ad esempio, nel ricorso di incostituzionalità n. 148/2017, in cui aveva definito l’aborto una pratica contraria alla morale, ritenendo la relativa criminalizzazione necessaria al fine della protezione della vita in gestazione e della prevenzione della mortalità materna.
La Corte ha anche tenuto conto degli effetti sociali che conseguono all’utilizzo del diritto penale in materia abortiva, trattando della discriminazione (intersezionale) che tali norme provocano nelle donne incinte in situazioni di emarginazione economica, disuguaglianza educativa e precarietà sociale, le quali non hanno la possibilità di accedere a un’educazione sessuale e riproduttiva di qualità o a informazioni sulla pianificazione familiare e sui metodi contraccettivi (par. 154).
La presente sentenza mostra una forte sensibilità rispetto all’adozione di una prospettiva di genere, che la Corte ha definito come una «categoría analítica» (par. 24) che permette di individuare ed eliminare situazioni di squilibrio di potere tra le parti in conseguenza del loro sesso, nel tentativo di superare la costruzione socioculturale dei ruoli sociali fondati sul genere. Coerentemente con questo sforzo, la Corte ha scelto l’adozione di un linguaggio inclusivo, sempre accostando al termine “mujeres” l’espressione di “personas con capacidad de gestar”. Inoltre, la Corte ha definito la criminalizzazione dell’aborto una discriminazione di genere, in quanto atto di violenza nei confronti delle donne e delle persone gestanti, che perpetua lo stereotipo che vincola la salute riproduttiva della donna ad uno scopo necessariamente procreativo e impone la maternità come destino obbligato (par. 156).
In termini di efficacia, la sentenza non depenalizza l’aborto nei 20 Stati che ancora lo includono nei Codici penali statali. La sentenza, infatti, non è il frutto di un’acción de inconstitucionalidad (che rappresenta un controllo di costituzionalità in astratto con effetti erga omnes), ma di un amparo indirecto en revisión. Il juicio de amparo (definito nella Constitución Política de los Estados Unidos Mexicanos, in riferimento agli artt. 103 – 107, regolamentati attraverso la Ley de Amparo) costituisce un controllo concreto di costituzionalità, i cui effetti si riverberano unicamente nella sfera giuridica del ricorrente (par. 219). Nel caso specifico, la ricorrente è un’associazione civile, ritenuta legittimata ad agire alla luce del suo scopo sociale che riguarda, come detto, la tutela e la promozione dei diritti riproduttivi delle donne (comprendendo anche la tutela legale delle donne incriminate per aver fatto ricorso alla pratica abortiva, parr. 220 – 225). Tuttavia, la Corte ha riconosciuto la specificità del caso (che definisce «sui generis», par. 226), dato che le norme contestate non ledono direttamente l’associazione ricorrente, ma le donne e le persone gestanti che essa vuole tutelare (nonché il personale sanitario coinvolto nella pratica abortiva). In questo caso, la Corte ha riconosciuto che la soluzione non possa risolversi in una mera disapplicazione (presente e futura) delle norme oggetto del giudizio di costituzionalità (come altrimenti sarebbe ai sensi dell’art. 78 della Ley de Amparo), ma debba consistere in un «beneficio tangible» per l’associazione ricorrente, nel senso di garantire il corretto sviluppo del suo scopo sociale e cioè di consentire concretamente alle donne e alle persone con capacità gestazionale (quantomeno in riferimento a coloro che sono direttamente in contatto con l’associazione in questione, par. 227) di accedere alla pratica abortiva attraverso servizi sanitari di qualità, senza che né loro, né il personale che attua l’interruzione di gravidanza siano incriminati (par. 332). Dunque, la Corte ha stabilito che la disapplicazione delle norme oggetto del ricorso, che criminalizzano l’aborto a livello federale, debba essere effettuata da qualsiasi autorità giurisdizionale e amministrativa, soprattutto da «el personal de las instituciones de salud involucrado con la práctica de la interrupción del embarazo y los agentes del Ministerio Público que reciban las denuncias por estos hechos» (par. 230). Inoltre, trattandosi di norme di natura penale, la Corte ha stabilito che, ai sensi dell’articolo 14 della Costituzione, gli effetti della sentenza debbano essere retroattivi, a beneficio di tutti coloro che sono attualmente perseguiti o condannati per questo reato.
Da tale decisione consegue l’obbligo, almeno per le strutture sanitarie federali (a cui si rivolge il 70% della popolazione) di praticare l’interruzione di gravidanza. Già nel 2021 la Corte, risolvendo il ricorso di incostituzionalità n. 148/2017, aveva dichiarato incostituzionale la criminalizzazione dell’aborto, ma solo in riferimento allo Stato di Coahuila, relativamente agli articoli 196 e 224, sezione II, del Codice penale nazionale. Da allora, dodici dei trentadue Stati messicani hanno depenalizzato l’aborto (in ultimo, Aguascalientes).
Questa decisione si inserisce all’interno di un progressivo processo di riconoscimento dei diritti riproduttivi in America Latina, in risposta a istanze sociali che non trovano soddisfazione nelle leggi in vigore. Tale processo ha più volte evidenziato il ruolo protagonista della Corte Suprema, in Messico come in Colombia (sentencia C-055/22). Più raramente, tali istanze hanno trovato riconoscimento nella dimensione legislativa, come in Argentina con la Ley de Interrupción Voluntaria del Embarazo, n. 27610/2020.
L’analisi di questo processo in divenire è particolarmente interessante anche considerando che la Corte Suprema statunitense, nel 2022, ha adottato una decisione di segno opposto, in riferimento al caso Dobbs (v. Buratti), in cui supera due storici precedenti (il già richiamato caso Roe e il caso Casey) in materia abortiva, negandone la rilevanza costituzionale e rimettendo la competenza ai singoli Stati. Già precedentemente in realtà, molti Stati prevedevano una legislazione particolarmente restrittiva sul tema e di stampo conservatore, tra i quali il Texas, che già nel 2021 aveva approvato una legge che condanna l’aborto procurato dopo le prime sei settimane di gravidanza, qualificandosi come la legge anti-aborto più severa degli Stati Uniti. Al contrario, nello stesso anno, il Messico aveva iniziato, attraverso l’opera della Corte Suprema, un processo di depenalizzazione dell’aborto, che, grazie allo sviluppo odierno, potrebbe portare alla configurazione di un new border crossing nella direzione opposta, non più dagli Stati Uniti al Messico, bensì l’inverso.
Questo argomento sarà prevedibilmente al centro del dibattito politico che si svilupperà nel paese in vista delle prossime elezioni federali, previste per il 2 giugno 2024, anche in considerazione del fatto che le due principali candidate – entrambe donne: Claudia Sheinbaum, a capo del National Regeneration Movement (MORENA) e Xochitl Galvez, a capo della principale coalizione di opposizione di centro-destra – si sono espresse a favore della depenalizzazione della pratica abortiva.