Eliminating racial discrimination means eliminating all of it? La Corte Suprema e le azioni affermative nell’ammissione all’Università

Con la decisione in commento la Corte Suprema interviene in materia di azioni affermative nell’ammissione alle Università. Oggetto di giudizio erano, in particolare, i protocolli di ammissione alle Università di Harvard e North Carolina i quali – pur nel quadro di un approccio “olistico” alla persona del richiedente – attribuivano limitato rilievo anche alla appartenenza razziale. Tale limitata considerazione dell’appartenenza razziale era coerente con la consolidata giurisprudenza della Corte Suprema che, fin dalla sentenza Bakke del 1978, si era occupata della materia: non si trattava infatti di attribuzione di quote di ammissione sulla base della razza, né la considerazione dell’appartenenza razziale determinava alcun automatismo nella attribuzione di punteggi. Piuttosto, l’appartenenza razziale, ove volontariamente indicata, poteva assumere rilevanza nel quadro di un giudizio complessivo sul profilo della persona richiedente; e la misura rispettava, altresì, quanto richiesto dalla giurisprudenza della Corte in termini di ragionevole giustificazione e di adeguatezza dei criteri di giudizio rispetto allo scopo, specie in relazione alla loro flessibilità.
Ciononostante, con una decisione adottata con una maggioranza di sei contro tre, la Corte Suprema – pur senza dichiarare formalmente l’overruling dei propri precedenti in materia (si tratta fondamentalmente, oltre che della richiamata Bakke, delle decisioni Grutter v. Bollinger del 2003 e Fisher II del 2016) – ritiene che tale pur limitata considerazione dell’appartenenza razziale violi la Equal Protection Clause del XIV emendamento. Più specificamente – e in sintesi estrema – la Corte afferma, in primo luogo, che il criterio sino a quel momento ritenuto idoneo a giustificare la considerazione dell’appartenenza razziale – vale a dire l’interesse delle Università a garantire la diversity e il carattere plurale dell’ambiente di apprendimento – non può più essere convalidato, in ragione dell’impossibilità di valutare l’adeguatezza del mezzo rispetto allo scopo, dovuta alla non misurabilità dei suoi effetti: con affermazione fortemente criticata nel dissent della giudice Sotomayor, la maggioranza afferma in particolare che l’interesse perseguito sarebbe inescapably imponderable. In secondo luogo, sulla base di una lettura molto rigida della sentenza Grutter v. Bollinger, la Corte afferma che la misura viola il XIV emendamento anche sotto il profilo dell’assenza di un logical end point: essa, in altri termini, non prevede un termine finale per la sua efficacia. Ciò confermerebbe indirettamente, peraltro, la stessa non misurabilità degli effetti dell’azione affermativa (cfr. le pp. 30 ss. dell’op. magg.).
La decisione si presta a diversi livelli di lettura che, nella sintesi consentita dai limiti di questo intervento, cercherò di tratteggiare.
Vanno sottolineati, anzitutto, i toni del confronto tra maggioranza e minoranza che paiono trascendere in asprezza la pur marcata distanza tra le posizioni dei due gruppi di giudici: si pensi, solo per fare un esempio, al modo in cui l’opinione di maggioranza attacca i due dissent, accusando la minoranza liberal di essere portatrice di una ben precisa politica costituzionale (e legislativa) o ancora ai toni irridenti che il relatore riserva all’opinione della Justice Jackson alle pp. 39 ss., in relazione alle divergenti letture del dissent di Harlan nella decisione Plessy c. Ferguson. Allo stesso modo, il dissent di Sotomayor non risparmia attacchi molto pesanti all’opinione concorrente del giudice Thomas, accusandolo di basarsi su minimi riferimenti di letteratura e, soprattutto, sull’esclusiva autorità delle opinioni da lui stesso firmate in passato; e si pensi ancora al passaggio in cui Sotomayor accusa l’opinione di maggioranza di voler ipocritamente temperare gli effetti della propria decisione – attribuendo residua limitata rilevanza ai riferimenti alla razza eventualmente contenuti negli application essays – imbellettando, testualmente, un maiale (“is nothing but an attempt to put lipstick on a pig”: Sotomayor, dissenting, p. 47). Se pure il confronto acceso tra diverse posizioni non è nuovo nella giurisprudenza della Corte, pare di essere molto lontani – ormai – dal respectful dissenting che aveva caratterizzato storiche contrapposizioni (come quella, ad esempio, tra Antonin Scalia e Ruth Bader Ginsburg) e, soprattutto, pare di poter riconoscere in toni così aspri la traccia della contesa in atto sul ruolo della Corte Suprema e sulla crisi della sua legittimazione in un contesto di forte polarizzazione della società statunitense.
L’asprezza dei toni è tuttavia conseguenza anche dell’estrema delicatezza dell’oggetto della decisione che rinvia, in ultima analisi, a grandi alternative di principio sulla stessa interpretazione della Equal Protection Clause del XIV emendamento, nel suo rapporto con la storia e, più precisamente nel caso in esame, con i processi storici di razzializzazione della popolazione nera.
Come accennato, infatti, la decisione in commento rivede i contorni dello strict scrutiny relativo alla classificazione in base alla razza (coessenziale all’azione affermativa), negando la possibilità di assumere quale criterio di giustificazione l’interesse a promuovere la diversity dell’ambiente di studio. Sul punto, almeno tre osservazioni paiono utili a contestualizzare la portata dell’argomento.
In primo luogo – laddove la decisione in commento sembra sminuire l’interesse alla diversity secondo canoni propri della politics of identity – deve essere ricordato che, fin dalla decisione Bakke del 1978, il canone della diversity non è declinato in termini ideologici bensì viene legato funzionalmente alla libertà accademica e alla qualità dell’apprendimento nella misura in cui essa rafforza una atmosfera di “speculation, experiment and creation” (Bakke, p. 312) nella quale l’appartenenza razziale è uno soltanto dei fattori rilevanti; e che, nella decisione Grutter v. Bollinger – che tale canone aveva convalidato e rafforzato – di esso viene sottolineata con forza l’idoneità a produrre benefici “not theoretical, but real” (p. 330).
In secondo luogo, e ciononostante, deve essere sottolineata una certa fragilità del canone della diversity, legata soprattutto all’emersione – a partire dal dissent di Alito nella sentenza Fisher II – della questione della misurabilità del raggiungimento dell’obiettivo; senza dimenticare che, come accennato, proprio il profilo della misurabilità finisce per rendere centrale, nella decisione in commento, la questione del termine di efficacia delle misure. Un ulteriore profilo di debolezza del canone della diversity emerge peraltro dalla comparazione con l’altra ipotesi di giustificazione delle azioni affermative fondate sulla razza, come prospettata – minoritariamente – nella giurisprudenza della Corte a partire dall’opinione separata di Brennan, White, Marshall e Blackmun (così come da quella individuale di Marshall) nella decisione Bakke e oggi ripresa nel dissent di Sotomayor. Mi riferisco, in particolare, all’interesse a porre rimedio alla “societal discrimination” attraverso, appunto, azioni affermative. Un criterio mai accolto dalla Corte che – accanto, fino a oggi, alla promozione della diversity in ambito universitario – ha sempre circoscritto il carattere rimediale delle azioni affermative rispetto a puntuali episodi di discriminazione razziale, escludendone ogni potenzialità di carattere strutturale e sistemica.
Sottolineo questo aspetto perché esso si lega – in terzo luogo – a una vera e propria alternativa di principio (e di sistema) nell’interpretazione della Equal Protection Clause, che emerge con particolare evidenza, nella decisione in commento, dal raffronto tra le opinioni dissenzienti e l’opinione concorrente del giudice Thomas. Ciò che la Corte nega – per bocca della maggioranza e del giudice Thomas – è infatti qualunque virtualità rimediale e trasformativa della Equal Protection Clause: l’idea, cioè, che la costruzione di eguaglianza (anche attraverso azioni affermative) risponda a logiche di tipo aspirazionale (lo sottolinea esplicitamente Justice Jackson nel dissent) e, appunto, trasformativo.
Un’alternativa, questa, che risale per vero alle stesse confliggenti interpretazioni della legacy della sentenza Brown del 1954 sulla quale, non caso, maggioranza e dissenzienti si confrontano aspramente anche in questa occasione. Come affermato dalla giudice Sotomayor, in contrapposizione con l’opinione concorrente di Thomas, Brown non ebbe l’obiettivo di affermare una “formalistic rule of colorblindness” ma di trasformare e integrare il sistema scolastico e, con esso, la società statunitense (p. 12). A tale interpretazione di Brown – e dello stesso XIV emendamento – è proprio Thomas a contrapporre una serrata critica del paradigma antisubordinazione e, con esso, della possibilità di interpretare le dinamiche dell’eguaglianza alla luce dei contesti e dunque delle disuguaglianze strutturali o sistemiche (di cui dà invece una prova estremamente suggestiva, soprattutto per la dovizia di dati, il dissent di Jackson). Secondo Thomas, l’unica possibile lettura del XIV emendamento – in chiave originalista – è quella che dà adito a una colorblindness di carattere formale. Thomas – seguito in questo dall’opinione concorrente di Gorsuch – ritiene di ricavare tale lettura direttamente dall’opinione dissenziente di Harlan nella decisione Plessy v. Ferguson del 1896; ciò attira le critiche serrate dei dissenzienti, che contestano radicalmente la lettura in chiave formalistica di una opinione – quella di Harlan – che mirava a criticare la regola del separate but equal anzitutto a partire dai concreti assetti di subordinazione nelle relazioni tra razze, insistendo – in aperta contrapposizione con la maggioranza – proprio sulla capacità della Costituzione (e della legislazione) di trasformare e sovvertire tali assetti.
Secondo la decisione in commento, eliminare le discriminazioni razziali significa invece eliminarle completamente (all of it). Nessun trattamento differenziato è, insomma, ammissibile, “wheter intended to help or to hurt” (Thomas, concurring, p. 2).
Simile ricostruzione viene accusata, dalla minoranza, di superficialità e di flatness (Jackson, dissenting, p. 25). La Equal Protection Clause, secondo la minoranza, va letta in chiave trasformativa, attenta cioè alla correzione dei processi storici di razzializzazione – e cioè di concreta subordinazione e umiliazione – della popolazione nera: e in questa declinazione della Equal Protection Clause è riconosciuto un profilo di continuità che lega Brown a Bakke, Grutter e Fisher. Costruire l’eguaglianza richiede il riconoscimento delle disuguaglianze e il loro superamento, e non certo la loro cancellazione in termini formali.
La distanza, come si vede, non potrebbe essere maggiore e nasconde – a ben vedere – opzioni radicalmente diverse in merito alla stessa formula di convivenza. Da una parte, l’affermazione di un’eguaglianza solo formale, che affida il superamento delle disuguaglianze ai meriti individuali: ciò che importa non sono le barriere che i neri incontrano sul loro cammino, ma il modo in cui decidono di affrontarle (Thomas, concurring, p. 51). Dall’altra, una ben più esigente articolazione del rapporto tra eguaglianza ed esperienza giuridica (e politica), in cui coesione e giustizia sociale sono l’esito di una positiva azione politica, tradotta in strumenti giuridici efficaci e adeguatamente sintonizzati sulla realtà (Sotomayor, p. 48). Il discorso dovrebbe a questo punto allargarsi a ricomprendere il nesso tra le diseguaglianze razziali nell’accesso all’università e le caratteristiche strutturali del sistema universitario statunitense, intravisto soltanto – e assai parzialmente – nel dissent di Jackson e sottolineato da alcuni commentatori. Ciò esulerebbe dai limiti del presente scritto. Resta fermo, tuttavia, che anche tale aspetto andrà adeguatamente considerato, se si vorranno temperare gli effetti di quella “tragedy for us all” evocata dalla giudice Jackson (p. 29) e che questa decisione rischia, molto concretamente, di determinare.