Il populismo secondo Saïed: tra estremismo state-led e ‘cospirazionismo’
La spirale discendente della Tunisia, verso approdi al momento ignoti, è oggetto di dibattiti e analisi, ormai da quasi un biennio.
Di certo, come è stato segnalato, la netta virata verso una gestione autoritaria del potere, attraverso una degenerazione (iper)presidenzialista, ha consegnato la Nazione nelle mani di un solo uomo, centro e fine della dialettica costituzionale tunisina.
Simile deriva, in verità, si inserisce in uno schema tipico di ‘degradazione’ per tappe, in cui, progressivamente, sono state neutralizzate le garanzie a presidio del sistema, silenziate le forme di dissenso (e dissidenza), al contempo alterando e – letteralmente – rimuovendo tutti i contrappesi in favore di un (unico) esecutivo con poteri pieni.
E, ancora tipicamente, alla degradazione si è associata una regressione: in tema di diritti, del quadro costituzionale nel suo complesso e, non da ultimo, del discorso istituzionale.
Il Presidente Saïed, protagonista della discussa fase sperimentata dalla Tunisia in questo frangente, ha di fatto impostato una sorta di narrazione di stato, non solo populista (e paternalista) nella forma (cadenzata dallo slogan “il popolo vuole” già in campagna elettorale e tematizzata nelle sue specificità come un populismo “à la Kais Saïed”), ma conflittuale, divisiva, polarizzante e soprattutto, identitaria ed escludente nella sostanza. In una dialettica, per così dire, schmittiana dell’Amico/Nemico, nella Tunisia di Saïed non vi è spazio per l’opposizione, là dove siano date due sole opzioni: a favore o contro il suo operato, “dentro” o “fuori” lo spazio esclusivo via via costruito. Questa logica ha riguardato, a titolo esemplificativo, tanto i rapporti con il potere giudiziario, destituendo giudici e procedendo con nomine di dubbia terzietà, quanto lo “scambio” politico con gli oppositori, allontanati, censurati, o imprigionati, nonché le interazioni con la società civile e le minoranze in seno a essa. Del 17 aprile è la notizia di un altro illustre arresto: quello di Rachid Ghannouchi, leader di an-Nahḍa, noto primo “antagonista” del Presidente Saïed, successivo, in ordine di tempo, all’incarcerazione di Ali Laarayedh, ex primo ministro ed esponente del medesimo partito.
È in questo contesto che si è custodita e poi ‘materializzata’ lo scorso febbraio in occasione del Consiglio di sicurezza, l’affermazione del Presidente Saïed riguardo a una identità tunisina più ‘araba’(e islamica) che africana: cioè, di una Tunisia “bianca” e diversa dalle “orde” di africani subsahariani, che la “invadono” illegalmente, per deturparla con crimini e violenza. Ma vi è di più: il larvato obiettivo delle migrazioni (di “massa”) sarebbe anche quello di sostituire proprio quella identità, per deformare e trasformare la fisionomia demografica del paese nella sua interezza. L’espressione non è casuale, giacché Saïed, con il proprio discorso, ha mirato al centro del ‘pluralismo’ e delle plurime identità, restringendo ulteriormente i confini dell’“appartenenza”, dove l’una non può contenere – né accettare sovrapposizioni con – l’altra. D’altro canto, non appare fortuito, di nuovo, che a essere stigmatizzate (e marginalizzate) siano comunità minoritarie, secondo uno paradigma, sovente ripetuto, per cui minacce alla Nazione, alla ‘sicurezza’ e all’ordine siano addebitabili a un ben definito – e a seconda dei momenti sempre diverso – gruppo o “categoria”. In ciò, le narrazioni di Saïed non sarebbero del tutto inedite, né dovrebbero suonare tali. Da una parte, infatti, egli ha intercettato il malcontento e l’insoddisfazione generalizzati per convogliarli verso un target “altro”, che definire ‘capro espiatorio’ risulterebbe forse semplicistico, risvegliando piuttosto il vecchio demone del razzismo. Dall’altra, pare che Saïed abbia agganciato i discorsi oltremare – importando “la visione del suprematismo bianco europeo” – che vedono dilagare teorie cospirazioniste, la più nota delle quali è, appunto, quella della ‘sostituzione etnica’ cui i flussi migratori sarebbero realmente votati (cavallo di battaglia delle c.dd. teorie globali del complotto, non solo recentemente sotto scrutinio anche nello scenario italiano e altrove). Nel sostenere che il Presidente “borrowed yet another page from the global neo-fascist playbook and engaged in anti-Black racism to unleash a reign of terror”, magari si proverebbe troppo, giacché il ‘cospirazionismo’ (al pari del populismo) presenta sfumature molteplici, trasversali e di diversificata vocazione. Puntuale e aperta, chiaramente, è giunta la condanna dell’Unione Africana che ha definito le dichiarazioni del Presidente Saïed “scioccanti”, oltreché dagli effetti dirompenti (e denigratori) altresì per lo spirito e i principi che la informano. Il favore, verso queste esternazioni, è pervenuto, invece (paradossalmente?), da Éric Zemmour, (fondatore ed) esponente della far-right francese, con il suo partito Reconquête.
E le scuse successivamente offerte da Saïed, il quale ha accusato la stampa di aver falsificato e scientemente mistificato il contenuto del suo discorso, non sono risultate sufficienti per ignorare il clima conflittuale che questi ha (progressivamente) contribuito a creare e irrobustire. Qui, non sembrerebbe eccessivo parlare, invece, di discorsi estremisti e polarizzanti palesemente state-led, in grado, dunque, per la loro “qualità” anche di ‘radicalizzare’ l’opinione (pubblica). A prescindere dalle reali intenzioni, cioè, l’esito si è sostanziato in un crescendo di violenza nei confronti di minoranze, attacchi razzisti e abusi ai danni dei migranti subsahariani, perquisizioni e arresti ingiustificati, nonché brutali violazioni di diritti ‘fondamentali’.
Si tratta, quindi, dell’ennesimo colpo sferrato alla rule of law – in piena crisi, invero non solo in Tunisia – le cui fondamenta apparivano già fragili e vacillanti da tempo.
A complicare il quadro, nella medesima congiuntura, si sono aggiunte le ipotesi (o illazioni?) formulate circa il rifiuto espresso da parte della Tunisia del ‘sistema’ dei prestiti del Fondo Monetario Internazionale, quale ingerenza ingiustificata negli affari domestici. A cui si accompagnerebbe, peraltro, la volontà di unirsi ai paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) quale “asse” alternativo di riferimento. Tuttavia, quest’ultima notizia trova la propria fonte nel portavoce del movimento “25 Luglio”, quindi esplicitamente pro-Saïed (e a questi vicinissimo), ma non in dichiarazioni ufficiali da parte del Presidente; le voci, seppur non confermate, si rincorrono con insistenza, considerando anche la recente richiesta di adesione avanzata dall’Algeria e le speranze riposte dalla Turchia, come scelta, quindi, dichiaratamente contraria all’imperialismo (economico) occidentale.
La difficoltà di centrare l’attendibilità delle dichiarazioni, i tratti sfumati del discorso pubblico e istituzionale, talvolta volutamente reticente sull’agenda presidenziale, talaltra segnato da smentite, ‘fraintendimenti’ e interpretazioni divergenti, consegnano efficacemente l’idea dell’incertezza in cui naviga la Tunisia.
Gli approdi, appunto, restano forse prevedibili, ma, ancora e di nuovo, sconosciuti.