Un nuovo strumento per dare attuazione alle sentenze della Corte EDU: osservazioni a prima lettura sull’art. 628 – bis c.p.p.
Con il D.lgs. 10.10.2022, n. 150, è stato introdotto nel nostro ordinamento uno strumento ad hoc per l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU: si tratta della “richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei Protocolli addizionali”, disciplinata in un nuovo art. 628-bis c.p.p., che il legislatore ha inserito nel Titolo III-bis del Libro IX del codice di rito.
Volgendo lo sguardo al passato, risale al 19 gennaio 2000 la prima raccomandazione con la quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sollecitava gli Stati membri a prevedere la celebrazione di un nuovo processo ogni qual volta la violazione di una norma processuale fosse stata talmente grave da aver condizionato l’esito del processo. Da quel momento, però, nessuna delle diverse iniziative ministeriali e parlamentari era riuscita a concretizzarsi in un intervento del Legislatore, tanto è vero che la Corte costituzionale (con sentenza n. 113 del 2011), nel tentativo di consentire al nostro Paese di assolvere agli obblighi di cui all’art. 46 CEDU, aveva coniato la cd. “revisione europea”.
Malgrado la portata dirompente di quella decisione additiva d’istituto, l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU ha continuato per lungo tempo a dipendere dalle oscillazioni giurisprudenziali, derivanti, per un verso, dall’inidoneità della revisione europea ad offrire una copertura esaustiva a fronte dell’eterogeneità delle violazioni convenzionali e, per altro verso, dal mancato coordinamento con gli altri strumenti presenti nel sistema processuale (il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis c.p.p. e l’incidente di esecuzione ex art. 670 c.p.p.).
A fronte di uno stato di “inerzia” protrattosi per molti anni, l’intervento del legislatore ha il pregio di delimitare normativamente i contorni di un rimedio post iudicatum funzionale a garantire l’adeguamento dell’ordinamento interno ai canoni convenzionali.
Nell’esaminare le caratteristiche del nuovo istituto, giova anzitutto evidenziare come l’art. 628-bis c.p.p. attribuisca alla Corte di cassazione la competenza a ricevere il ricorso, la cui estensione abbraccia qualsiasi tipo di violazione dei diritti consacrati nella CEDU, sia di natura processuale sia di natura sostanziale.
Sul piano della legittimazione soggettiva, il comma 1 dell’art. 628-bis c.p.p. stabilisce che il rimedio è azionabile solo dal condannato e dall’internato, ferma la possibilità – sancita dal comma 2 – che, in caso di morte, la richiesta possa essere presentata da un congiunto.
Dal combinato disposto delle menzionate disposizioni si desume un’estensione soggettiva dell’istituto più ristretta rispetto a quella desumibile dal contenuto, più generico, della legge delega.
Anzitutto, viene esclusa la legittimazione dell’imputato che, nell’ambito procedimento interno, sia stato prosciolto con una formula di assoluzione non “piena”.
Inoltre, l’attuale formulazione non consente la proposizione del ricorso a chi, nel corso del procedimento, abbia assunto la qualifica di parte civile o di persona offesa. Questa scelta appare condivisibile: con essa, infatti, il legislatore non ha voluto incidere sulla tradizionale architettura sistematica del nostro codice, che non contempla forme di revisione contra reum e che risulta improntato sulla presunzione di innocenza e sulla forza preclusiva del giudicato a garanzia del cd. ne bis in idem. Oltretutto, anche dalla prospettiva convenzionale la limitazione soggettiva de qua non manifesta evidenti profili di frizione con lo statuto di tutela della vittima. Invero, sebbene la Corte EDU abbia sancito il dovere per gli Stati di utilizzare lo strumento penale nell’ottica di reprimere efficacemente taluni comportamenti criminosi posti in essere nei confronti di una serie di “vittime potenziali”, inizialmente si era ritenuto che la convenzione non garantisse un ruolo specifico alla “vittima reale” nel corso del processo penale. Ma, anche quando la posizione della Corte EDU, dopo un lungo periodo, è parzialmente mutata in conseguenza del progressivo ampliamento del concetto di vittima (cfr. Corte edu 2008, Gradinar c. Moldavia) e del relativo statuto garantistico (da ultimo, Corte EDU, 2021, Petrella c. Italia, per un commento v. Per la Corte europea dei diritti dell’uomo l’Italia ha violato simultaneamente le garanzie convenzionali in materia di ragionevole durata del processo e diritto di accesso a un tribunale: un primo sguardo alla sentenza Petrella c. Italia), deve comunque constatarsi l’assenza di pronunce volte ad imporre allo Stato condannato il dovere di rimuovere il giudicato (in argomento, v. anche Accordi e disaccordi: ancora sul ‘tempo’ per l’equa riparazione all’offeso e l’irragionevole durata delle indagini (Corte cost. n. 203 del 2021); nonché Le due vie per il ristoro economico dell’offeso dal reato che escludono l’equa riparazione per irragionevole durata delle indagini preliminari (Corte cost. n. 249 del 2020)).
Sempre sul piano della legittimazione soggettiva, la nuova disposizione non consente la proposizione del ricorso ai cd. “fratelli minori”, vale a dire a coloro che, seppure estranei al giudizio, si trovino nella medesima posizione del ricorrente vittorioso dinanzi alla Corte EDU (in argomento, v. Ancora sui «fratelli minori» di Contrada. Il caso Genco e l’(in)efficacia ultra partes del giudicato di Strasburgo).
In relazione a costoro, ci si potrebbe semmai chiedere se, quantomeno in astratto, siano esperibili rimedi diversi da quello di cui all’art. 628-bis c.p.p. Da questo punto di vista, un’apertura verso l’impiego ultra partes dei rimedi esecutivi sembra scorgersi nella sentenza che ha concluso la nota vicenda dei cd. “fratelli minori” di Scoppola (Cass. pen., SSUU, 18821/14 Ercolano), in cui i giudici di legittimità hanno ancorato l’esperibilità dell’incidente di esecuzione al fatto che il ricorrente lamenti una violazione “sostanziale” identica a quella accertata dalla Corte EDU, e che la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, abbia rilevato un vizio strutturale della normativa interna.
Qualche considerazione merita, poi, la tipologia di decisioni adottabili dai giudici di legittimità.
Anzitutto, la Corte di cassazione accoglie la richiesta quando la violazione accertata dalla Corte europea, per natura e gravità, abbia avuto una incidenza effettiva sulla sentenza o sul decreto penale di condanna pronunciati nei confronti del richiedente (art. 628 – bis, co. 5 c.p.p.). Ragionando sulla natura di questo vaglio preventivo, può già paventarsi il rischio che la disposizione consenta eventuali manovre elusive dell’obbligo di conformazione sancito dall’art. 46 CEDU, la cui valenza precettiva potrebbe indebolirsi laddove il giudice interno sovrapponga indebitamente le proprie valutazioni a quelle già compiute dal giudice europeo (Cfr. R. Casiraghi, Uno specifico rimedio per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. proc., n. 1, 2023, 197).
Dopo il vaglio preliminare, in caso di accoglimento della richiesta, la decisione successiva della Corte tiene conto di due diversi fattori: il tipo di vizio riscontrato e le modalità che, in concreto, meglio si prestano a rimuovere gli effetti della violazione.
In particolare, qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto o comunque risulti superfluo il rinvio, la stessa Corte di cassazione assume i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, disponendo, ove occorra, la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna.
In caso contrario, la Corte trasmette gli atti al giudice dell’esecuzione o dispone la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione.
In quest’ultimo caso, la Corte – per comprensibili ragioni di economia processuale – stabilisce se e in quale parte conservino efficacia gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi. Questa valutazione, a ben vedere, dipende dal tipo di violazione accertata dai giudici di Strasburgo, che la Corte di cassazione dovrà “tradurre” alla luce delle categorie logico-concettuali proprie del nostro ordinamento. A titolo esemplificativo, nel caso di violazioni convenzionali “difensive” di cui all’art. 6 CEDU (escludendo quindi quelle che abbiano direttamente a che fare con la prova), la Corte di cassazione dovrà verificare se sia possibile sussumere il vizio all’interno del concetto interno di invalidità, modulando poi gli effetti demolitori attingendo al relativo regime giuridico. Un’operazione, questa, che potrebbe dischiudere qualche elemento di problematicità qualora il dato normativo interno risulti “incapiente” rispetto alla riscontrata violazione della CEDU, da cui deriva il rischio che l’approccio tradizionalmente “sostanzialistico” dei Giudici Strasburgo finisca per dilatare ulteriormente il principio di “tassatività” (che, come noto, è stato già messo in crisi dalla teoria del “pregiudizio effettivo”).
Da ultimo, un aspetto non chiarito dal testo dell’art. 628-bis c.p.p. riguarda l’operatività del cd. divieto di reformatio in peius.
Sul punto, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno escluso in passato l’operatività del principio a fronte di una sentenza di annullamento ex art. 604 comma 4 c.p.p. che dichiari una nullità assoluta, o intermedia non sanata, da cui sia derivata la nullità del decreto che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado (Cass. Pen., SS.UU., 11 aprile 2006, XY, in Cass. pen., 2006, 3132).
Sebbene questo precedente deponga nel senso di una soluzione negativa verso l’operatività del principio, argomenti di segno opposto possono ricavarsi, invece, da un risalente obiter dictum della Corte costituzionale, che ha riconosciuto al divieto in questione il rango di principio generale in materia di impugnazioni (Corte cost., 14 gennaio 1974, n. 3, in Giur. cost.,1974, 25).
A sostegno di questa tesi, non deve poi trascurarsi il fatto che l’art. 628-bis c.p.p. non includa, tra i soggetti autorizzati a proporre la richiesta di esecuzione, il procuratore generale presso la Corte di cassazione. Prendendo atto di questa limitazione soggettiva, non è peregrino desumere che il Legislatore abbia negato in generale una rilevanza all’interesse pubblico verso la rimozione del giudicato, concependo la nuova forma di restitutio in integrum alla stregua di rimedio operante nell’esclusivo interesse del condannato/internato.
Ad ogni modo, quale che sia la soluzione astrattamente preferibile, non sembra potersi escludere che, nei futuri contesti applicativi, la giurisprudenza – considerata l’ampiezza del rimedio – ritenga di avallare soluzioni meno perentorie, ampliando o restringendo l’operatività della reformatio in peius sulla scorta del tipo di vizio accertato in sede sovranazionale e da cui dipende la riapertura del procedimento.