(Don’t) remember my name: il diritto all’oblio nella recente pronuncia C-460/2020 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Le tecnologie stanno modificando anche il rapporto dell’uomo con la memoria: è sempre più facile ricordare, ma, al contempo, è sempre più complesso dimenticare ed essere dimenticati.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sin dalla sentenza ai più nota col nome di Google Spain (o il caso Costeja), C-131/12, ha tentato di arginare il rischio di essere esposti a una perenne memoria digitale attraverso l’applicazione del diritto all’oblio. Meglio identificato come “diritto alla cancellazione”, o anche “diritto alla de-indicizzazione”, la Corte ha riconosciuto il diritto dell’interessato a veder cancellati i risultati di ricerca relativi al proprio nome. Deindicizzare significa di fatto oscurare un contenuto e non cancellarlo. Ciò che viene eliso è l’inserimento di detto contenuto nell’elenco dei risultati di ricerca relativi all’interessato. Tale diritto è stato oggetto di un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale in Europa e non solo, soprattutto in merito alle concrete modalità applicabili dal gestore di un motore di ricerca alle richieste di de-indicizzazione (si veda F. Giovannella, 2022). Una scelta, quest’ultima, che ha delle ripercussioni nel bilanciamento tra protezione dei dati personali, libertà d’espressione e libertà di informazione. Ebbene, proprio in merito al legame tra riservatezza e informazione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è più volte pronunciata, cercando di dettare una guida tanto per le Corti nazionali quanto per i gestori di motori di ricerca su come gestire le sempre più numerose richieste di deindicizzazione (ex multis, C-507/17, Google LLC v. CNIL).
Su questo tema, si appunta la recente sentenza pronunciata dalla Corte nella causa C-460/2020, T.U. e R.E. contro Google LLC. Pur non essendo un tema nuovo, il caso in esame sembra essere di una certa rilevanza proprio perché tenta di cercare un nuovo bilanciamento tra gli articoli 7 e 8, e l’art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Si rammenterà che in Google Spain la Corte, discostandosi dall’Opinione dell’Avvocato Generale, non aveva effettuato un adeguatamente pesato il diritto alla privacy con il diritto all’informazione (O. Pollicino, 2022), prediligendo una quasi assoluta protezione del primo a scapito del secondo. La pronuncia in esame quindi, almeno apparentemente, intende distanziarsi dalle soluzioni individuate nel caso Costeja. Tuttavia, come si dirà, la Corte, seppur, da un lato, si mostri consapevole dell’impatto che il gestore del motore di ricerca ha acquisito quale demiurgo dell’identità personale di ognuno, risultando in «un’ingerenza più rilevante nel diritto fondamentale al rispetto della vita privata della persona interessata che non la pubblicazione da parte dell’editore della suddetta pagina web» (§3 delle Conclusioni dell’Avvocato Generale), dall’altro, non chiarisce la posizione ambigua in cui questi si trova.
La vicenda riguarda una richiesta di deindicizzazione presentata da T.U., che occupa posizioni di responsabilità e detiene partecipazioni in diverse società, e R.E., che era la sua compagna e, fino a maggio 2015, procuratrice di una di dette società. Gli interessati avevano inviato una richiesta al motore di ricerca, Google, in qualità di titolare del trattamento, affinché venisse eliminato il link a tre articoli che, al parere dei ricorrenti, contenevano affermazioni inesatte o non veritiere. La richiesta riguardava anche lo scollegamento tra ricerca del nome e risultato, anche con riguardo alle miniature delle immagini riportate negli articoli che venivano proposte nei risultati di ricerca nella sezione immagini. Al diniego opposto dal motore di ricerca, in qualità di titolare del trattamento, la coppia dei ricorrenti ha proposto ricorso presso il Tribunale locale competente. Tuttavia, a seguito del rigetto delle loro domande sia in primo grado che in appello, i ricorrenti nel procedimento principale hanno proposto un ricorso per cassazione dinanzi al Bundesgerichtshof, la Corte federale di giustizia della Germania. Quest’ultima, preso atto delle domande dei ricorrenti, ha inviato domanda di pronuncia pregiudiziale ex art. 267 TFUE vertente sull’interpretazione dell’articolo 17 para. 3 lett. a) del Regolamento (UE) 2016/679 (di seguito, anche GDPR).
La Corte federale, chiedendo un’interpretazione sistematica dell’art. 17 para. 3 lett. a) del GDPR con gli articoli 7, 8, 11 e 16 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, ha consentito alla Corte europea di esaminare, anzitutto, la portata degli obblighi e delle responsabilità incombenti al gestore di un motore di ricerca nel trattare una domanda di deindicizzazione fondata sull’asserita inesattezza delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato. D’altro canto, il giudizio ha altresì riguardato l’onere della prova gravante sull’interessato per quanto riguarda tale inesattezza, e, da ultimo, la necessità, in merito alla domanda di eliminazione delle fotografie, di tener conto del contesto iniziale della pubblicazione delle suddette fotografie in Internet.
Risolte le questioni preliminari in merito all’applicazione ratione temporis del GDPR, la Corte ha ribadito la distinzione tra il trattamento dei dati personali effettuato da quest’ultimo rispetto a quello in capo all’editore. Com’è chiaro, Google non può essere considerata responsabile delle informazioni inserite nell’articolo. Bensì, l’attività consiste nel far sì che tale articolo sia potenzialmente accessibile a qualsiasi utente di Internet, a partire da una ricerca basata sulle parole chiave del contenuto, quale possono essere, ad esempio, il nome e cognome della persona di cui si tratta (§50 della sentenza). Come chiarisce l’Avvocato Generale Pitruzzella, il motore di ricerca è in tutto e per tutto un «gatekeeper dell’informazione» (§3) poiché effettua una scelta (unilaterale) in merito alle informazioni, anche relative all’identità personale, che vengono rese accessibili alla generalità degli utenti.
In senso contrario si era pronunciato il Tribunale Superiore del Land, laddove escludeva che potesse porsi in capo al gestore un obbligo di qualche genere nel caso di informazioni inesatte, poiché questo non svolgeva una vera e propria attività di content moderation e, di conseguenza, non aveva alcun obbligo di controllare la veridicità di quanto riportato (§23). Tuttavia, la Corte distingue di fatto le due posizioni. Si chiarisce che il motore di ricerca è onerato rispetto all’indicizzazione di una pagina Internet pubblicata da terzi, «potendo una visualizzazione siffatta del link in questione in tale elenco incidere significativamente sui diritti fondamentali della persona considerata al rispetto della sua vita privata e alla protezione dei suoi dati personali» (§52 della sentenza e §3 delle Conclusioni dell’A.G.). Sempre in merito al ruolo del gestore del motore di ricerca, la Corte conferma la qualificazione dell’attività dei motori di ricerca come «trattamento di dati personali», e l’individuazione del gestore come «responsabile» o titolare del trattamento di tali dati personali. Ciò che sembra essere una, anche parziale, novità è l’affermazione di una necessità di operare da parte del titolare del trattamento il bilanciamento in questione, verificando se il risultato della ricerca effettuata «a partire dal nome dell’interessato sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti di Internet potenzialmente interessati ad avere accesso a tale pagina Internet» (§55).
La Corte prosegue, dunque, indicando i criteri che devono essere applicati al contesto in esame. Richiamando anche la giurisprudenza della Corte EDU in merito al grado di tollerabilità richiesto a un soggetto che svolge una vita pubblica (cfr. da ultimo Khural e Zeynalov c. Azerbaijan, 6 ottobre 2022, CE:ECHR:2022:1006JUD005506911), il gestore del motore di ricerca è invitato a operare un’analisi caso per caso della ingerenza di una notizia nella vita privata di un individuo, nonché di valutare se il diritto all’informazione degli utenti di Internet e la libertà di espressione del fornitore di contenuti possano prevalere sulla richiesta di deindicizzazione presentata dall’interessato (§61-64). Identificando, quindi, come notizia solamente quella che non contiene inesattezze, né giudizi di valore, i giudici stabiliscono che si possono giovare della protezione di cui all’art. 11 della Carta di Nizza solo gli articoli che contengono elementi di fatto verificabili. A tal riguardo, non si richiede al gestore di ricercare quest’ultimi, in quanto l’onere della prova ricade sul richiedente (§64-72), il quale deve fornire «elementi di prova pertinenti e sufficienti, idonei a suffragare la sua richiesta e atti a dimostrare il carattere manifestamente inesatto delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato» (spec. §72).
Passando all’esame della seconda e ultima questione, la Grande Sezione si è altresì pronunciata relativamente alla rimozione delle miniature delle fotografie contenute negli articoli oggetto di una richiesta di deindicizzazione. Non occorre ribadire l’ovvio, ossia che, pur trattandosi di miniature, queste, se inserite nel contesto di un articolo, acquistano un rilievo informativo tanto quanto il contenuto “a parole” dell’articolo. L’habeas data, per dirla alla Rodotà, si estende a fortiori anche al controllo sulla propria immagine, alla quale devono essere applicati gli stessi canoni di continenza, correttezza e pertinenza previsti per gli elementi di fatto di un’informazione. La Corte, pertanto, fornisce degli utili elementi per commisurare il valore informativo di dette fotografie, allorché estrapolate dal contesto dell’articolo e visualizzate unicamente sotto forma di miniature nell’elenco dei risultati ottenuto a seguito di una ricerca effettuata sul motore di ricerca. Dunque, l’immagine, quale «mezzo di comunicazione non verbale», come è noto, può avere un impatto persino più forte sugli utenti di Internet rispetto alle pubblicazioni testuali (§100). D’altro canto, il testo che accompagna direttamente la visualizzazione di tali fotografie, deve essere preso in considerazione nella valutazione del valore informativo dell’immagine stessa. In un’ottica di bilanciamento, la Corte ha chiarito che in questo caso il gestore del motore di ricerca effettua un trattamento autonomo, poiché consente all’utente che svolge una ricerca per nome di accedere all’immagine. Detta visualizzazione, è il vero e ultimo risultato della ricerca dell’utente, il quale potrebbe non avere alcun interesse ad atterrare sulla pagina che originariamente aveva pubblicato detta fotografia. In linea con le tendenze dei social media, alla fotografia viene, dunque, riconosciuto un valore informativo amplissimo, perfino superiore a quello della parola scritta. Per non pregiudicare, dunque, l’effetto della deindicizzazione della pagina Internet da cui sono tratte, da questa dipende il destino delle fotografie, la cui visualizzazione, in tal caso, deve essere eliminata.
In conclusione, l’elemento davvero innovativo di questa sentenza non risiede tanto nel ruolo del gestore del motore di ricerca quale silenziatore o promotore dell’informazione, e nemmeno nel canone da applicare alla deindicizzazione delle miniature. Il vero quid novi è da rinvenire nell’ambigua posizione in cui viene messo il motore di ricerca che, in qualità di gatekeeper dell’informazione, viene chiamato a seguire una procedura, coniata dalla Corte, per vagliare la legittimità di una richiesta di deindicizzazione. Il «procedural data due process», come denominato dall’Avvocato Generale (§42-50 delle Conclusioni), richiede al gestore del motore di ricerca di svolgere una sorta di giudizio di merito, la cui fase istruttoria è preliminare all’accoglimento della richiesta di deindicizzazione. Una fase che assume una rilevanza sostanziale, giacché, al parere della Corte, l’interessato non deve necessariamente corredare la propria domanda di una pronuncia giudiziale che sancisca l’inesattezza delle informazioni (§72-74) delle quali si domanda lo scollegamento con la query di ricerca. Il rimedio descritto, dunque, viene proposto per contrastare il rischio di imporre al gestore del motore di ricerca «obblighi generali di non ospitare pubblicazioni contenenti informazioni false ovvero obblighi generali di accertamento della falsità o meno di informazioni oggetto di una domanda di deindicizzazione» (§49 delle Conclusioni). Orbene, la soluzione individuata dall’A.G. e fatta propria dalla Grande Sezione, sembra andare nella direzione di depotenziare la portata censoria del gatekeeper attraverso una serrata proceduralizzazione delle modalità di deindicizzazione. Una soluzione che pare ispirarsi alla tecnica normativa di cui il legislatore europeo sembra fare ampio uso. La procedura descritta, difatti, sembra avere tutte le caratteristiche per sfiorare i confini fragili tra potere pubblico e potere privato in ambito digitale. Tuttavia, senza voler contestare la necessità di un cambio di rotta in merito alla proceduralizzazione delle modalità di godimento taluni diritti, qual è, ad esempio, il caso del “diritto alla deindicizzazione”, nel caso in esame, la Corte si è, ancora una volta, posta rispetto a problemi attuali in una modalità piuttosto creativa. Pur mantenendo come obiettivo ultimo quello assicurare agli individui una maggiore tutela della loro identità, si auspica che il diritto alla cancellazione possa andare incontro a un potenziamento di carattere sostanziale e procedurale che lo avvicini alla sua natura più autentica di diritto a essere dimenticati.