C’è un giudice a Roma. Sul c.d. decreto Salvini e l’ostruzionismo verso le famiglie omogenitoriali
È innegabile che nel nostro ordinamento giuridico alcuni/e minori di età possono essere accolti/e in contesti familiari omoaffettivi in una pluralità di situazioni giuridicamente tutte legittime: vuoi perché dopo la loro nascita uno dei genitori ha ottenuto sentenza di rettifica dell’attribuzione di sesso ex l. n. 164/1982; vuoi perché, nati all’estero, hanno però ottenuto in Italia la trascrizione o il riconoscimento del loro atto di nascita straniero che indica come genitori due padri o due madri; vuoi perché hanno ottenuto in via amministrativa o giudiziale il riconoscimento della doppia maternità o paternità, anche come riconoscimento successivo (v. Schillaci in questo Blog); vuoi perché hanno ottenuto il riconoscimento di un’adozione piena pronunciata all’estero (v. Winkler in questo Blog); vuoi perché, come nel caso di specie, nei loro confronti è stata pronunciata in Italia sentenza di adozione ai sensi dell’art. 44 lett. d) L. n. 184/1983. La via maestra, quest’ultima, che di recente ha avuto anche il placet della Corte costituzionale (Corte cost., sent., 28 marzo 2022, n. 79, ultima di diverse pronunce in tal senso, ma sui diversi profili vedi in questo Blog i contributi di Di Martino, Rotelli e Schillaci), nell’attesa che il legislatore affronti compiutamente la questione.
Accade allora che una coppia di mamme, dopo aver legittimamente esperito tutto l’iter ex art. 44 let. d) della legge 184/1983 affinché il rapporto di filiazione fosse riconosciuto anche in capo alla madre non biologica, chieda lecitamente che sulla CIE della figlia minorenne siano indicati i nomi di entrambe le figure genitoriali. Ma essendo entrambe donne, ergo entrambi madri, vi è l’impossibilità (giuridica e – a parere della ‘debole’ difesa pubblica – tecnico-informatica) da parte degli uffici di Roma Capitale di segnare il nome di entrambe e di accogliere la richiesta delle donne. Ossia, di fatto, vi è l’impossibilità di riconoscere nel documento di identità la reale, veritiera e legittima, situazione familiare della minore. Gli si nega l’identità sia individuale che familiare. Alle donne non resta allora che rivolgersi agli avvocati ed alle avvocate delle associazioni “Rete Lenford” e “Famiglie Arcobaleno” per ricorrere al giudice…
D’altra parte lo rilevava efficacemente Stefano Rodotà già a fine anni ’60: la realtà storica dimostra come gli attentati alla certezza del diritto sono sostanzialmente venuti «dal legislatore o dalla pubblica amministrazione, e non dal giudice» [S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., I, 1967, p. 83 ss., cit., p. 96]. La conferma ci viene proprio dalla – mediaticamente assai discussa – ordinanza del 9 settembre 2022 del Tribunale di Roma, redatta dal Dott. Francesco Crisafulli, con cui viene disapplicato il decreto del Ministro dell’Interno del 31 gennaio 2019 di “modifica del decreto 23 dicembre 2015, recante modalità tecniche di emissione della carta d’identità elettronica”, pubblicato in GURI, s. gen. n. 79, del 3-4-2019. Tale decreto, oggi noto come decreto Salvini, ha modificato il modello di carta d’identità elettronica (CIE) valido per l’espatrio dei minorenni, nonché il software che gestisce l’emissione della CIE, la relativa modulistica e il processo di richiesta ed emissione della stessa, prevedendo che i soggetti legittimati alla richiesta per il o la minore e quelli i cui nominativi sono indicati nella modulistica, nel software e sulla stessa CIE devono essere qualificati come “padre e madre”; ha inoltre previsto che la richiesta di CIE del minorenne valida per l’espatrio sia presentata da “padre e madre congiuntamente”.
Il risultato di suddetta modifica, utilizzando la terminologia di Rodolfo Sacco [Introduzione al diritto comparato, V ed., Utet, 2003, p. 61 ss.], è una importante dissociazione fra il formante tecnico-amministrativo e il formante legislativo, che per il rilascio della CIE del minore di età valida per l’espatrio prevede siano indicati i nomi dei “genitori” o di “chi ne fa le veci” (ex art. 3 del TULPS). Dissociazione tanto grave da vanificare la ratio stessa della disciplina pubblicistica sulla CIE e da spingere il giudice romano a dover esplicitare l’ovvio, vale a dire che «la carta d’identità è un documento con valore certificativo, destinato a provare l’identità personale del titolare, che deve rappresentare in modo esatto quanto risulta dagli atti dello stato civile di cui certifica il contenuto. Ora, un documento che, sulla base di un atto di nascita dal quale risulta che una minore è figlia di una determinata donna ed è stata adottata da un’altra donna, indichi una delle due donne come “padre”, contiene una rappresentazione alterata, e perciò falsa, della realtà ed integra gli estremi materiali del reato di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico (artt. 479 e 480 cod. penale)».
Dissociazione che, operativamente, è palesemente discriminatoria perché danneggia le sole famiglie omoaffettive e, in ultima istanza, i e le minori di età in esse accolte, privandoli fra l’altro del diritto all’espatrio tutelato tanto dall’ordinamento italiano che da quello eurounitario (situazione giuridica soggettiva tutelata sia dall’art. 16 della Costituzione che dall’art. 21 del TFUE; sulla violazione del diritto UE rispetto alla libera circolazione delle famiglie omoaffettive, per di più, si è pronunciata anche la Corte di Giustizia UE nel caso V.М.А. c. Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo», in causa C-490/20, su cui vedi il commento di Schillaci in questo Blog). Ed è vero – come si è sentito nel dibattito pubblico attorno all’ordinanza di cui si parla – che c’è dell’ideologia, ma qui di certo i danni non sono provocati dalla c.d. ideologia gender.
Qui il problema è un modello di regolamentazione, come quello introdotto dal decreto Salvini, che non è solo ideologico, ma apertamente “perfezionista” [F. H. Buckley, Perfectionism, S. Ct. Econ. Review 13 (2005): 133–63], nella misura in cui esso, non curante del pluralismo valoriale e di molti altri principi costituzionali, intende stigmatizzare pubblicamente un modello familiare, quello omoaffettivo, che il Ministero dell’Interno ha ritenuto moralmente errato e che pertanto ha iniziato ad osteggiare in primis burocraticamente. In spregio di tutte le disposizioni di legge interne, eurounitarie e della giurisprudenza della Corte EDU sull’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare). Secondo Buckley, d’altronde, il perfezionismo si differenzia dal paternalismo perché quest’ultimo indirizza le persone verso la scelta (ritenuta) migliore, mentre il perfezionismo intende costruire una teoria del bene, eliminando le scelte non moralmente accettate e incentivando un legal moralism.
Gli stessi argomenti con cui l’Avvocatura di Stato si è difesa nel giudizio dinanzi al Tribunale romano, difatti, tendono esclusivamente a giustificare il decreto ministeriale attraverso la legittimazione del modello di famiglia “tradizionale”, fondato sul matrimonio, richiamando in modo asistematico articoli del codice civile, della legge 40/2004 e della legge 184/1983 che fanno espresso riferimento ai termini “padre” e “madre”, e gli artt. 29 (ma come noto le altre morfologie familiari hanno la loro base costituzionale nell’art. 2 Cost.), 30 (che però parla di genitori) e 31 (ove il riferimento alla maternità non pertiene col caso di specie) della Costituzione.
I nodi dell’ideologia di tale modello di regolamentazione, però, sono destinati a venire al pettine, sia per l’evidente dissociazione fra formanti già segnalata, sia per la pluralità di situazioni giuridiche soggettive lese, fra cui diversi diritti fondamentali, difficilmente giustificabili per un ordinamento giuridico che si ispira a valori e principi costituzionali e al rispetto degli human right. E l’ordinanza romana non fa che evidenziare le storture di una disciplina ministeriale ideologica, evidenziando i vari profili di illegittimità della stessa. A partire dalla legittimità delle famiglie omoaffettive, la cui questione va data per incontroversa, dato che – come sottolinea il giudice – qui si discute «dell’esistenza (o no) di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina (l’una per esserne anche madre naturale, l’altra per averla adottata) a vedersi identificate, nella carta d’identità della figlia, in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere, o comunque in termini neutri; e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due “madri”, o comunque di due “genitori”». Essendo questo il punto giuridico controverso, netto è il verdetto del giudice: sull’esistenza di tali diritti in capo alle ricorrenti, non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Nelle 19 pagine del provvedimento il giudice romano ripercorre le numerose norme sopranazionali, dalla CEDU alla Carta di Nizza, passando per la Convenzione di New York del 1989 sui diritti dei fanciulli, che cristallizza il principio del best interest of the child, violentemente calpestato dal decreto Salvini [interessanti spunti di riflessioni in E. Resta, Prefazione, e di P. Gonnella, Conclusioni, in Aa. Vv., “Genitori all’anagrafe e discriminazioni. Gli ideologismi e le illegittimità del decreto Salvini”, e-book, Roma, Antigone Edizioni].
Non vi è in questa seda la possibilità di analizzare compiutamente tutti i rigorosi argomenti del giudice romano, ma in prospettiva civilistica risulta di sicuro interesse l’argomento secondo cui il decreto Salvini viola altresì l’art. 5 GDPR (Regolamento Ue 2016/679) e in particolare – oltre ai principi di esattezza e di finalità – il principio di minimizzazione dei dati personali, dal momento che il concetto di “madre” o “padre” è più specifico di quello di “genitore” e ha una portata identificativa e qualificante ulteriore, aggiungendo l’identificazione del genere. Il genere, per l’appunto, rappresenta un dato personale ultroneo e non necessario rispetto alla qualifica di “genitore” richiesta dal TULPS. La questione, d’altra parte, era stata sollevata correttamente già dal Garante della Privacy nel parere reso al Ministero dell’Interno in vista della modifica del decreto 23 dicembre 2015 che qui ci interessa: in detto parere, infatti, il Garante sottolineava come il sostituire il termine “genitori” con le parole “padre” e “madre” avrebbe rischiato di imporre in capo ai dichiaranti, all’atto della richiesta del rilascio del documento di identità della persona minore di età, in relazione all’obbligatoria riconducibilità alle nozioni di “padre” e “madre”, «il conferimento di dati inesatti o di informazioni non necessarie di carattere estremamente personale, arrivando in alcuni casi a escludere la possibilità di rilasciare il documento a fronte di dichiarazioni che non rispecchiano la veridicità della situazione di fatto derivante dalla particolare composizione del nucleo familiare» [Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento 31/10/2018 n° 476].
Dunque non una profezia che si avvera, ma la consapevolezza del Garante dell’uso ideologico e biopolitico del diritto che il decreto Salvini ha messo in campo contro i e le minori delle famiglie omogenitoriali.