Lo stato della democrazia in Ungheria e le istituzioni dell’Unione: qualche spunto a partire dalla risoluzione del Parlamento europeo del 15 settembre 2022
Sono ormai diversi anni che l’involuzione dello Stato di diritto in Ungheria ha assunto livelli di guardia così elevati da suggerire l’interrogativo circa la possibilità di poter annoverare ancora il Paese (membro dell’Unione) nell’alveo delle democrazie. In particolare, all’interno di quella specifica idea di democrazia fatta propria dall’Unione europea e che ne costituisce finanche la stessa identità la quale, in ossequio al disposto dell’art. 2 TUE, postula la sua inscindibilità dai precetti fondamentali del liberalismo. Da questo punto di vista, sebbene già da qualche tempo l’indice Nation in Transit 2022 di Freedom House abbia collocato l’Ungheria fra i “regimi ibridi”, una sorta di tertium genus a cavallo fra le democrazie e i regimi autoritari, la plastica risposta alla domanda di partenza è giunta in tutta la sua drammaticità direttamente dal Parlamento europeo. Ovverosia da quell’istituzione che a discapito di una solo relativa capacità d’intervento autonoma sul piano dei temi di cui si discute, si è dimostrata tutt’altro che reticente nel far valere le proprie istanze anche nei confronti degli altri organi europei, decisamente più equipaggiati nel contenimento e nel contrasto dei fenomeni di rule of law backsliding: Commissione e Consiglio su tutti. Si pensi, solo per avanzare un esempio tangibile, al ricorso in carenza depositato presso la Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 265 TFUE a fronte della ritenuta iniziale reticenza dei funzionari di Palazzo Berlaymont di procedere con l’attivazione del Regolamento 2020/2092 istitutivo di un regime di condizionalità a tutela del bilancio e degli interessi finanziari dell’Unione.
Ed è proprio in questa cornice che lo scorso 15 settembre, all’interno di una risoluzione volta a sollecitare il Consiglio affinché proceda, in forza dell’art. 7, par. 1, TUE, ad attestare (quantomeno) l’esistenza in Ungheria di un chiaro rischio di grave violazione dei valori fondamentali su cui poggia l’Unione, il Parlamento ha espresso la propria perplessità, rectius contrarietà, circa la possibilità di continuare a considerare quest’ultima parte della famiglia delle democrazie europee. Riprendendo il contenuto essenziale della delibera parlamentare, dopo aver attenzionato l’insieme delle circostanze suscettibili di dimostrare la minaccia sistemica ai valori di cui all’art. 2 TUE, i deputati europei hanno palesato il loro “rammarico per il fatto che la mancanza di un’azione decisa da parte dell’UE abbia contribuito al crollo della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali in Ungheria, trasformando il Paese in regime ibrido di autocrazia elettorale” (p.to 2). Da qui, fra le altre considerazioni, l’invito diretto alla Commissione ad avvalersi pienamente degli strumenti a propria disposizione quali le procedure d’infrazione ma, soprattutto, gli istituti di carattere economico come il Regolamento sulla condizionalità, ritraendosi oltretutto dall’approvare il Recovery Plan dell’Ungheria, per lo meno finché la stessa non abbia effettivamente dato prova di un cambio di rotta sul versante della tutela dello Stato di diritto.
Un’accusa, quella del Parlamento europeo, per certi versi duplice dacché diretta in primo luogo, ovviamente, alle istituzioni magiare ma che, al contempo, postula una sorta di chiamata in correità di quelle europee, ree di non aver operato per tempo e con la dovuta decisione “contribuendo” al consolidamento – come ulteriormente comprovato dai risultati elettorali della tornata del 3 aprile scorso (in proposito si veda qui e qui) – di un regime incompatibile de facto e de iure con i principi che informano i Trattati.
Ancorché insuscettibile di per sé di produrre conseguenze giuridiche immediatamente apprezzabili, l’affermazione del Parlamento ha però il merito di offrire una fotografia delle attuali condizioni in cui versa l’ordinamento ungherese, scindendo la dimensione procedimentale della democrazia dal suo contenuto sostanziale. Il suo dileguarsi non deriva dalla riduzione degli strumenti e dei momenti di espressione del voto, quanto dalla compressione oltremisura delle basi valoriali sulle quali essa dovrebbe poter liberamente svolgersi. Parallelamente e aggiornando le aree di interesse concluse all’interno del Rapporto Sargentini sulla base del quale la Plenaria di Strasburgo il 12 settembre 2018 aveva proceduto all’attivazione dell’art. 7 TUE contro l’Ungheria, la risoluzione del 15 settembre sofferma la propria attenzione su una lunga lista di ambiti della vita pubblica ungherese ormai inglobati all’interno dell’orbita governativa e progressivamente svuotati del proprio significato sino ad essere ridotti ad una mera rappresentazione nominalistica. All’interno di questo lungo elenco si annoverano il funzionamento dell’ordinamento costituzionale, il sistema elettorale, l’indipendenza della magistratura, la corruzione e i conflitti di interesse, nonché la salvaguardia delle principali libertà come quella di associazione, religione, accademica e di espressione – compressa dalla concentrazione del controllo media – sino alla privacy e alla protezione dei diritti delle minoranze.
In altri termini, anche laddove siano individuabili percettibili vulnera relativamente allo svolgimento del momento elettorale, in specie sul piano costitutivo di un effettivo level playing field fra gli opposti contendenti (sull’argomento si veda qui e qui), come ogni sistema illiberale che al contempo necessiti il mantenimento del sostantivo democratico, anche l’Ungheria non può fare a meno – ed anzi paradossalmente si nutre dello stesso più dei modelli liberali residuando quale ultimo canale di legittimazione – dell’espressione del voto popolare. Non è, dunque, solamente su questo piano che occorre lavorare per ristabilire la democrazia. Per riprendere le parole di Tímea Drinóczi, ciò di cui avrebbe effettivamente bisogno l’Ungheria è un processo resiliente che attraverso il mutamento del quadro politico consenta nel lungo periodo il ritorno ai valori del costituzionalismo. Nondimeno, il recente responso delle urne rimanda obtorto collo ogni possibilità di un ripristino in ottica liberale, almeno nel breve termine.
Fatte tali premesse e tornando alla risoluzione del 15 settembre, se da quest’ultima è derivabile una conseguenza pratica, essa si sostanzia in un chiaro monito i cui destinatari sembrano essere proprio le istituzioni di Bruxelles. Diviene evidente il bisogno di procedere con maggior decisione stante il venir meno di qualsiasi altro vincolo endogeno in grado di calmierare il processo disgregativo della democrazia ungherese. Inevitabile, pertanto, il richiamo al meccanismo di condizionalità considerata la sua primaria attivazione contro l’Ungheria (sia concesso un rinvio qui) ed in specie dopo che nella giornata del 18 settembre, pochi giorni dopo la presa di posizione del Parlamento europeo, la Commissione ha formulato la propria proposta di decisione esecutiva diretta al Consiglio. Una richiesta volta inter alia a stabilire la sospensione del 65% degli impegni finanziari relativi al periodo 2021-2027 e riferiti al programma operativo per l’ambiente e l’efficienza energetica, a quello per il traposto e a quello per lo sviluppo del territorio e degli insediamenti, a cui si aggiunge il divieto di assunzione di nuovi impegni con qualsiasi trust di interesse pubblico e partecipato nell’ambito dei programmi dell’Unione in regime di gestione diretta e indiretta. Ciò a condizione che, medio tempore, l’Ungheria non abbia dimostrato di tenere fede alle proposte di modifica sottoposte alla Commissione e volte ad arginare stabilmente i deficit accumulati nei settori degli appalti pubblici, del quadro anticorruzione e nel funzionamento della Procura generale. Si tratta, ovviamente, di uno spettro d’azione limitato in conformità alle finalità dello strumento ed inidoneo ad essere considerato alla stregua di una panacea in grado di riportare ipso facto le lancette indietro di oltre un decennio. Ciononostante, l’occasione si presta a divenire un importantissimo banco di prova sul quale testare la volontà delle istituzioni interessate (Commissione e Consiglio) di tenere fede ai propri doveri di protezione dei valori fondativi l’Unione, evitando di privare di significato un ulteriore istituto all’uopo realizzato, dopo aver sostanzialmente disinnescato l’opzione nucleare prevista dall’art. 7 TUE. In specie, allorché si consideri, come da più parti è stato evidenziato (si veda qui e qui), che le riforme, in parte proposte ed in parte già implementate dall’Ungheria, ad uno sguardo più attento si rivelano per lo più un mera operazione di “sham and smokescreen”. Diversamente argomentando, sarebbe auspicabile evitare di ripetere il medesimo errore di metodo – escludendo cioè le ragioni di ordine geopolitico dovute alla deflagrazione del conflitto in Ucraina che possono aver contribuito ad un mutato atteggiamento nei riguardi di Varsavia – commesso con l’approvazione del Recovery Plan polacco, laddove il subordinato raggiungimento di determinate milestones (nello specifico qui) sul piano degli interventi di modifica del sistema giudiziario, in fin dei conti, si è rivelato del tutto inidoneo a traguardare gli obiettivi di partenza, dappiù esponendo la decisione del Consiglio all’impugnazione per annullamento ex art. 263 TFUE da parte delle principali associazioni giudiziarie europee.
In conclusione, considerata l’attuale situazione di contrazione economica che sta colpendo l’Ungheria e la fondamentale rilevanza dei trasferimenti europei per far fronte alle sue politiche interne, pur nella consapevolezza che ciò rappresenti solo un primo passo affatto risolutivo, la sospensione dei fondi (a cui si aggiunge la mancata approvazione del PNR ungherese) può effettivamente rappresentare una misura d’impatto atta a inviare un chiaro segnale al governo di Budapest. Un messaggio che al suo interno riveli una doppia funzione: in primis, attribuire una reale efficacia alla risoluzione del Parlamento europeo del 15 settembre, evitando che il suo significato si affievolisca sull’orizzonte degli equilibri intergovernativi sino a disperdersi del tutto. In secondo luogo, generare pressione sulle forze politiche di maggioranza, dando fiato all’opposizione perché possa effettivamente contribuire a far sì che nel medio-lungo periodo l’idea di un cambio di indirizzo politico non si attesti più come una mera utopia. In fin dei conti, prima di qualunque intervento sovranazionale, la reintegrazione del costituzionalismo ungherese non può che passare per un concreto esercizio di democrazia, sfruttando quel che di essa ancora sopravvive dal punto di vista procedurale e che rappresenta l’anello debole della catena che sostiene i sistemi illiberali.