Britaly per davvero? Il sistema politico britannico alla ricerca di stabilità
Quando Rishi Sunak, il 25 ottobre scorso, si è insediato come nuovo Primo Ministro del Regno Unito, ha promesso “integrità, professionalismo e accountability”. Poche settimane dopo il suo insediamento, il governo conservatore si trova, però, già a fare i conti con le prime dimissioni di un ministro, Gavin Williamson, a causa di gravi accuse di bullismo verso il suo staff, e di un’ulteriore richiesta di dimissioni per Suella Braverman, la Ministro dell’Interno che, nel precedente esecutivo, aveva dovuto dimettersi per violazione del codice di condotta ministeriale. Il nuovo Primo Ministro ha poi invocato la prassi per non prendere posizione rispetto alla discutibile lista di fedelissime e fedelissimi che il suo precessore Boris Johnson intende premiare con un seggio a vita alla camera dei Lords, una proposta non semplice da conciliare con l’invocata integrità.
Se la gestione tanto del governo quanto del partito Conservatore in sé presenta delle evidenti criticità, la questione sociale aggravata dall’inflazione, gli scioperi del personale infermieristico, nelle università e nel settore dei trasporti, e la difficile situazione economico-finanziaria, con un aumento delle tasse che verrà con ogni probabilità presentato nella prossima legge di bilancio, sono dei macigni sulla strada del Primo Ministro e, più in generale, del suo governo.
L’instabilità che sembra oggi caratterizzare la politica britannica e la debolezza dei suoi governi stridono con l’immagine tradizionale che ne abbiamo. Per dirla con il politologo Arendt Lijphart, “nessun governo è più dominante di quello britannico”, che incarna meglio di ogni altro le caratteristiche del modello maggioritario o, appunto, Westminster. Eppure, negli ultimi dieci anni, si sono avvicendati nel Regno Unito cinque Primi Ministri, sette Cancellieri e altrettanti Ministri degli Esteri, sei Ministri dell’Interno e addirittura 10 Ministri dell’Istruzione. I dati sul turnover al vertice dei ministeri durante i governi guidati da Theresa May e Boris Johnson sono impressionanti e, nell’anno in corso, ci sono state ben 54 nomine al governo, quasi il doppio rispetto al precedente record del 2010. Con i suoi 44 giorni trascorsi al numero 10 di Downing Street, Liz Truss ha stabilito un altro record, ovviamente in negativo, di longevità.
In questo contesto, non stupisce che un settimanale come l’Economist – incidentalmente, non per primo o da solo – abbia tratteggiato un parallelo con la politica italiana. Instabilità politica, bassa crescita economica e subordinazione ai mercati finanziari – la cui reazione alle misure del governo Truss ha portato alle dimissioni della Primo Ministro – sono caratteristiche da “Britaly” piuttosto che da Regno Unito. Ironicamente, nell’ormai lontano 2017 Theresa May aveva chiesto il voto dei cittadini britannici promettendo una leadership “forte e stabile”. Dopo quattro Primi Ministri, la stanno ancora cercando.
Non vi è dubbio che queste similitudini tra Italia e Regno Unito siano suggestive e, per certi versi, sorprendenti. Liz Truss dimissionata dai mercati non può non ricordare Berlusconi nel 2011, mentre la girandola di ministri Conservatori richiama piuttosto i governi della Prima Repubblica. Tuttavia, quanto regge, davvero, il confronto ad una disamina più approfondita? Per quanto riguarda gli indicatori economici, tanto l’indebitamento privato quanto il deficit pubblico (al netto del pagamento degli interessi sul debito) risultano migliori in Italia. Riprendendo un titolo del Financial Times “Britaly? You wish”. Muovendoci dall’economia alla politica, le turbolenze della politica britannica si mostrano ancor più serie di quelle italiane. Ma, soprattutto, le scelte politico-istituzionali sinora compiute dalle elites politiche per uscire dalle crisi e dare una direzione al paese post-Brexit appaiono, tipicamente, britanniche.
In un recente volume che cerca di valutare l’impatto di Brexit, Gianfranco Baldini, Emanuele Massetti ed io proviamo a sostenere la tesi che tanto il processo quanto gli esiti dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, pur in un contesto di grande fluidità e incertezza, rendono il sistema politico britannico più maggioritario. Nonostante le fortissime tensioni a cui è stato sottoposto, infatti, il sistema partitico parlamentare rimane essenzialmente bipartitico; riforme del sistema elettorale plurality non sono (ri-)entrate nell’agenda politica; il governo, pur tra molte difficoltà, ha infine ottenuto la ‘sua’ Brexit, sulla cui implementazione il controllo parlamentare è limitato e, almeno nell’immediato, il carattere unitario dello stato è stato riaffermato.
Se la (in)capacità di gestione della Brexit mette in discussione alcuni elementi del modello maggioritario, quello che, piuttosto, stupisce è proprio la resistenza (piuttosto che resilienza…) di questo modello, a dispetto delle fortissime tensioni a cui è sottoposto. Il modello Westminster è talmente radicato nella cultura politica delle elite britanniche che una sua parziale riforma o, in momenti di crisi come quelli che il Regno Unito sta vivendo, la sperimentazione di modelli alternativi non è neppure presa in considerazione.
Ci sono senz’altro state aperture retoriche che hanno guardato oltre la logica istituzionale del modello Westminster. Nel gennaio 2019, in un momento di grande difficoltà per il governo di minoranza di Theresa May dopo la bocciatura parlamentare dell’accordo di uscita dall’UE, Elisabetta II stessa ha (inusualmente) parlato dell’importanza di trovare “un terreno comune”, del “rispetto delle differenze” e della necessità di non perdere di vista “il quadro più ampio”. Su questo punto, però, non sembra che le parole della Sovrana abbiano trovato grande riscontro. Qualche mese più tardi, infatti, piuttosto che trovare un accordo cross-parties, la Camera dei Comuni ha bocciato tutte le opzioni su Brexit che è stata chiamata a valutare, mancando l’occasione di orientare il dibattito e, possibilmente, le scelte del governo su Brexit.
La cultura avversariale del modello Westminster – tanto nel partito di governo quanto nel principale partito di opposizione – non ha permesso di considerare alternative. In effetti, tornando al paragone con l’Italia, le crisi economico-politiche che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica sono state spesso gestite con la formazione di governi a guida tecnocratica e sostenuti da coalizioni ampie o di ‘salvezza nazionale’. Nel Regno Unito, pur nei momenti di più grave difficoltà nel processo di uscita dalla UE, o dopo il fallimento del secondo governo guidato da Johnson, le ipotesi sul banco si sono limitate a due: la sostituzione del/la Primo Ministro da parte del partito Conservatore, ovvero nuove elezioni (con una predilezione per la prima o la seconda ipotesi dovuta alle convenienze contingenti dei Tories). La soluzione ad una crisi politica viene cercata, quindi, sempre all’interno del modello Westminster continuando ad abbracciare la sua logica di funzionamento – cambiando l’inquilino/a al numero 10 di Downing Street – piuttosto che al di fuori del suo perimetro.
Peraltro, la storia politica britannica, più o meno recente, conferma che a periodi pluriennali di crisi sono spesso seguite lunghe stagioni politiche con Primi Ministri dominanti. Per dirla diversamente, il sistema Westminster è stato descritto in grave crisi o dato per morto altre volte, ma è poi sempre ‘resuscitato’. Negli anni Settanta, come ben riassume Kenneth O. Morgan, la percezione diffusa voleva che “tutto andasse male”, e la pubblicistica non parlava che di “declino”, “caduta” se non addirittura “fine” del Regno Unito. A livello politico, si assisteva ad una polarizzazione dei partiti, con spostamenti verso posizioni più estreme tanto nel Labour quanto nei Conservatori. Il sistema partitico si apriva a terze forze, con il relativo successo dei Liberali, mentre i due partiti principali erano sfidati da opposizioni interne, come quella di Tony Benn alla sinistra del Labour e di Enoch Powell alla destra dei Tories. Con le elezioni del 1979 si apriva, però, l’era di Margaret Thatcher, la più longeva Primo Ministro della storia britannica.
Una vicenda simile si verifica nei primi anni Novanta. Con la fine dell’era Thatcher, il suo successore John Major si trova a gestire un partito Conservatore profondamente diviso, che conduce una vera e propria ‘guerra civile’ per la ratifica del Trattato di Maastricht. I casi di corruzione si susseguono e, nel “mercoledì nero” del Settembre 1992, la sterlina deve uscire (come la lira, incidentalmente) dal Sistema Monetario Europeo. Major viene descritto come un “uomo grigio”, con scarso carisma e leadership. Le elezioni politiche del 1997 sono un disastro per i Conservatori, ed un trionfo per il New Labour. Inizia così la decade di Tony Blair in Downing Street.
È dunque possibile che, chiuso questo ciclo politico con nuove elezioni, un leader politico investito da un chiaro mandato popolare possa dare avvio ad una nuova fase di stabilità nella politica britannica. Chiunque sia, si dovrà confrontare con un partito parlamentare più riottoso e pronto a sfidarlo, elettori più insoddisfatti e volatili, richieste autonomiste e referendarie (dalla Scozia o magari dall’Irlanda del Nord) e l’ombra lunga della Brexit. Il fatto che il sistema Westminster, così come sviluppatosi nel Regno Unito, non sia più quello dei suoi anni d’oro è, pertanto, evidente. A dispetto delle attuali contingenze, non scommetterei, però, che sia ormai finito e da consegnare alla Storia, e non darei eccessiva enfasi a comparazioni suggestive ma solo parzialmente accurate.