Transmission Protection Instrument: politica monetaria e sviluppo del fiscal framework europeo

È ormai noto a tutti che l’emergenza bellica in Ucraina, le sanzioni alla Russia e la crisi energetica sono il contesto di fondo entro cui è possibile osservare, a partire dalla primavera 2022, l’affermarsi di un notevole fenomeno inflazionistico.
Sul piano europeo tale emergenza ha trovato un suo esito naturale nell’intervento della Banca centrale europea, la quale il 21 luglio scorso – al fine di «assicurare un ritorno dell’inflazione verso il nostro obiettivo del 2% a medio termine» – ha deciso di intervenire innalzando di 50 punti base i tassi di interesse (un secondo innalzamento di 75 punti base ha avuto luogo con effetto dal 14 settembre) e approvando il c.d. “scudo anti-spread”, ovvero il TPI, Transmission Protection Instrument, (qui la conferenza stampa della Presidente Lagarde e del Vicepresidente de Guindos).
Come appare evidente dal nome, con tale meccanismo la BCE intende dotarsi di uno strumento idoneo a ridurre i differenziali dei tassi di rendimento fra i titoli di stato dei Paesi dell’Eurozona, finalizzato ad assicurare «che [l’]orientamento di politica monetaria sia trasmesso in modo ordinato in tutti i paesi dell’area dell’euro» e capace di un impatto superiore a quello garantito dal PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program), il quale rimarrà comunque il principale strumento di tutela della trasmissione monetaria per ciò che attiene alla pandemia.
Da un punto di vista istituzionale uno degli aspetti più interessanti del TPI è rappresentato dai criteri che verranno considerati dal Consiglio direttivo della BCE al fine di decidere se poter adoperare lo strumento nei confronti dei titoli di stato del Paese membro che dovesse averne interesse. Infatti, per quanto è dato apprendere dal Comunicato stampa del 21 luglio 2022, il Consiglio direttivo terrà in considerazione:

  1. il rispetto del complesso delle regole europee in tema di finanza pubblica; nello specifico il Paese membro non dovrà essere sottoposto alla procedura per deficit eccessivo o, nel caso in cui sia già stato sottoposto alla suddetta procedura, non dovrà essere inadempiente rispetto alle raccomandazioni del Consiglio ex 126, par. 7 del TFUE;
  2. assenza di squilibri macroeconomici; il Paese membro non dovrà essere sottoposto alla procedura per squilibri macroeconomici o, nel caso in cui sia già stato sottoposto alla suddetta procedura, non dovrà essere inadempiente rispetto alle raccomandazioni del Consiglio ex art. 121, par. 4 del TFUE;
  3. la sostenibilità finanziaria del debito pubblico per come rilevata dalle analisi della Commissione europea, del Meccanismo di stabilità, del Fondo monetario e di altre istituzioni, oltre a quelle prodotte internamente dalla Banca centrale stessa;
  4. la presenza di politiche macroeconomiche sane e sostenibili, con particolare riferimento al raggiungimento degli obiettivi individuati dai singoli Piani nazionali finanziati dal c.d. Recovery fund e alle raccomandazioni della Commissione trasmesse in occasione del Semestre europeo.

Ora, avendo a mente un processo evolutivo che inizia da Maastricht e passa dall’istituzione del Patto di stabilità e crescita e dalla risposta alla crisi dell’Eurozona, appare ragionevole immaginare che qualsiasi osservatore – forse anche il meno attento – non potrà che guardare a questi criteri come ad un elemento di ordinarietà: l’Unione assicura il proprio sostegno – in questo caso attraverso l’intervento monetario – e in cambio richiede il rispetto di quelli che vengono ritenuti canoni di responsabilità finanziaria. Da qui, dunque, la legittimità di una domanda che volesse interrogarsi sull’opportunità delle brevi osservazioni che si vanno svolgendo.
Ebbene, al di là della contestabilità dello schema appena riportato (che ha, appunto, come unica valenza quella di schematizzare il possibile funzionamento di una relazione fra Stato membro e Unione), ci sembra di dover individuare l’importanza delle condizionalità poste al TPI nel particolare contesto istituzionale e politico nel quale queste dovranno avverarsi.
Come noto, infatti, a partire dalla primavera del 2020 l’Unione ha dovuto fronteggiare la crisi legata al Covid-19 e lo ha fatto con un cambio di rotta rispetto alle precedenti politiche di austerity. Su tutte, l’emissione del debito comune e la sospensione del Patto di stabilità hanno posto le basi per cambio di passo evidente ed innegabile rispetto alla risposta offerta in occasione della crisi dell’Eurozona.
Infatti, se da una parte è certamente possibile immaginare l’allontanamento da un approccio particolarmente rigido non solo nei termini di una pura offerta di solidarietà – in considerazione di una crisi che, a differenza di quella del 2008/2009, è stata del tutto simmetrica – sarebbe quantomeno ingeneroso non riconoscere le virtualità aperte al processo di integrazione dalle decisioni che hanno autorizzato l’emissione di debito comune e sospeso il PSC, a partire dal dibattito relativo proprio alle possibili riforme del Patto in occasione della sua riattivazione nel 2024 (sul punto sia consentivo il rinvio a quanto già illustrato su questo Blog)
Ciò detto, l’istituzione del TPI e le relative condizionalità pongono un nuovo tassello utile ad analizzare la direzione assunta dall’Unione, nei termini di una possibile regressione rispetto agli approdi raggiunti fra il 2020 e la fine del 2021. Infatti, se da una parte il TPI non può non essere uno strumento condizionato – a pena di renderlo promozionale rispetto a fenomeni di moral hazard -, dall’altra alcuni criteri di azionabilità sembrano definiti da contorni così fumosi da poter diventare inconsistenti. Il riferimento è chiaramente a quanto affermato dal Consiglio direttivo della BCE allorquando dichiara che uno degli elementi da tenere in considerazione saranno le valutazioni circa la sostenibilità delle politiche macroeconomiche di un Paese membro emesse dalla Commissione, dal MES e dal Fondo monetario.
Ora, al di là di un richiamo dell’immaginario alle istituzioni che hanno composto a loro tempo la c.d. Troika, ciò che appare evidente è l’indeterminatezza dei contorni di tale criterio, il quale – per come descritto – amplia in maniera consistente il ruolo del dato reputazionale, nei termini per cui la protezione assicurata dal TPI verrebbe a dipendere ancora più pesantemente dal grado di accreditamento internazionale del Paese membro interessato.
Sotto una luce diversa, invece, appare il quarto dei criteri enunciati dal Consiglio direttivo, ovvero il raggiungimento degli obiettivi del PNRR. Infatti, se di per sé l’utilizzo del PNRR come condizionalità all’attivazione del TPI è comunque riconducibile ad un fenomeno di leverage, l’ancoraggio ai Piani nazionali dota tale condizionalità di un livello di determinatezza prima facie sufficiente, oltre che a fondarsi su programmi il cui contenuto è stato in quale modo frutto di co-determinazione fra Paese membro e Commissione europea.
Da ultimo, ma solo perché tale profilo sembra assumere una portata ancora più generale, il riferimento alle procedure per disavanzo eccessivo e a quelle per squilibri macroeconomici appare problematico già soltanto per il fatto che tale ancoraggio ha luogo in un momento storico nel quale l’Unione stessa si sta interrogando sul futuro della propria governance economica. Se probabilmente questo autunno vedrà la luce un nuovo Patto di stabilità e crescita, e se devono tenersi in considerazione tutte le osservazioni già svolte in merito alla necessità invocata da più parti di abbandonare il sistema delle regole in favore di standards più flessibili (basti pensare alla istituzione di una golden rule per gli investimenti green), appare allora lecito interrogarsi circa il significato che assumeranno a breve i concetti stessi di disavanzo e squilibrio macroeconomico.
A voler guardare al TPI come segnale del forse nuovo indirizzo che assumerà la politica fiscale e monetaria europea, appare dunque l’immagine di uno strumento che riflette in maniera fedele punti di forza e criticità dell’impianto economico dell’Unione. Da una parte l’esistenza di una politica monetaria indipendente e indirizzata alla stabilità della moneta e dei prezzi provoca un potenziale arretramento delle istanze di solidarietà: lo stesso TPI è uno strumento rivolto a proteggere la trasmissione della politica monetaria a beneficio del sistema complessivo, e perciò l’intervento sui tassi di rendimento e l’assicurazione della sostenibilità del debito pubblico nazionale divengono banalmente elementi secondari. Dall’altra, sul piano fiscale, il TPI si inserisce in un contesto caratterizzato dal combinato risultante dall’emissione del debito comune e dall’esecuzione dei diversi Piani nazionali, ovvero in una condizione storica nella quale appare poco compatibile la virtuale rigidità espressa dai criteri indicati dal Consiglio direttivo (seppure non manchino, sul piano politico, pressioni verso un irrigidimento delle regole fiscali; v. sul punto la posizione del Ministro delle finanze tedesco Lindner).
In conclusione – e nel tentativo di ricostruire tassonomicamente l’evoluzione della costituzione economica europea – il TPI si offre come oggetto di studio potenzialmente fruttuoso, a maggior ragione se contestualizzato nel quadro normativo futuro, per come risulterà dalla riforma prossima del Patto di stabilità.