Il tempo del pianeta come bene della vita nell’emergenza climatica

Che il tempo sia un elemento determinante di qualsiasi esperienza giuridica (si v., per tutti, le originali ricostruzioni di L. Cuocolo, Tempo e potere nel diritto costituzionale, e L. Di Santo, L’universo giuridico tra tempo pratico e tempo gnosico) è acquisizione che nessun teorico e pratico del diritto si sognerebbe di contestare.
Ma il tempo è anche un fattore costitutivo della vita come scansione cronologica tra un prima e un dopo (Erfahrung, nel lessico della fenomenologia) e come condizionamento esistenziale su quella scansione (Erlebnis, si dovrebbe dire sempre con quel lessico fenomenologico).
Diventa allora interessante interrogarsi su come il diritto narri e regoli il tempo della vita rispetto a questa biforcazione tra Erfahrung ed Erlebnis.
Due classici non possono essere taciuti nella ricerca di una risposta: il nostro Giuseppe Capograssi e Gerhart Husserl (sulla ineludibilità di questo richiamo, si v. ancora L. Di Santo, Tempo e diritto nella prospettiva filosofica di Giuseppe Capograssi. Un confronto con Gerhart Husserl).
Il diritto non osserva né si adatta al tempo: lo condiziona (come Erlebnis) o addirittura lo crea (come Erfahrung).
Ecco allora che il tempo giuridico oscilla costantemente tra verità, con Capograssi, e finzione, con Husserl. Diventa un oggetto di manipolazione che può persino prescindere dai tempi della vita terrestre. Il diritto, in altri termini, opera anche come “detemporalizzazione” (Entzeitung) della connessione biofisica della vita umana, ossia della relazione tra società e sua dimensione terrestre.
Eppure la specie Homo è figlia dei tempi della terra, non viceversa; il che significa che tutti noi, come tutti gli altri esseri viventi, prima ancora che “biologici”, siamo e restiamo “geologici”: dipendiamo dai tempi del pianeta Terra (si v. L. Dartnell, Origins: How the Earth Shaped Human History).
Scopriamo, così, che la più grande finzione del diritto risiede proprio nella sua Entzeitung. Si può fingere di fronte al pianeta Terra? Si può fingere di fronte ai suoi tempi? Qualsiasi scienziato della Terra (dai biologi ai geologi ai fisici) direbbe di no. Del resto, come scrisse Einstein, il secondo principio della termodinamica permane come base universale di osservazione del tempo terrestre.
Tuttavia, osservare il tempo e raccontarlo non identificano necessariamente la stessa operazione intellettuale (cfr. J.E. McTaggart, The Unreality of Time).
Il racconto giuridico del tempo è dissociato dalla sua osservazione. In particolar modo, la cultura giuridica (più correttamente la cultura della tradizione giuridica occidentale) ha “creato” il “suo” tempo progressivamente sempre più autopoietico e autoreferenziale, approdando al “presentismo” della regolazione sociale (cfr. F. Hartog, Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo), alla elusione delle leggi temporali della biologia (specificamente con riguardo al tempo della formazione della vita e all’epigenetica), al “bilanciamento” come commensurabilità a-temporale dei diritti.
Così “detemporalizzando”, però, questa cultura ci costringe alla resa dei conti con il tempo del pianeta Terra.
Proprio in questo consiste l’emergenza climatica, denunciata dagli scienziati del sistema Terra (ovvero del sistema climatico in tutte le sue sfere di composizione: atmosfera, idrosfera, criosfera, litosfera e biosfera) e dichiarata da numerose istituzioni, inclusa la UE.
Essa non consiste in una situazione fattuale che “mette in pericolo i tempi” del diritto e dei diritti. Tutte le emergenze, ad oggi, sono sempre state rubricate come parentesi o eccezioni nella normalità giuridica. I due anni di pandemia li ricordiamo appunto come una brutta parentesi che ha costretto a sospendere la normalità temporale. Ci raccontiamo che da questa partentesi siamo usciti e che il diritto e i diritti hanno ripreso a scorrere nella loro precedente, immutata temporalità.
L’emergenza climatica, però, non è questo. Non è una parentesi; è un’irreversibile transizione termodinamica verso una nuova condizione temporale, nei cui riguardi il fattore di pericolo è segnato proprio dai tempi autoreferenziali del diritto. Non a caso, il suo fulcro è reso dalla formula τ/T (cfr. T.M. Lenton et al., Climate tipping points. Too risky to bet against). L’emergenza non deriva da un vettore esogeno rispetto ai tempi concordati dagli esseri umani per la loro convivenza (com’è stato, da ultimo, il virus pandemico). Il vettore dell’emergenza climatica è endogeno alla convivenza umana stessa e dipende tutto ed esclusivamente dal tempo, più dettagliatamente dalla relazione tra il tempo deciso politicamente e regolato dal diritto (τ) e il tempo naturale restante (T) affinché l’intero sistema climatico (ossia il pianeta Terra) non si destabilizzi nelle condizioni attuali di scansione – temporale – della vita (le c.d. “nicchie ecologiche e climatiche” della sopravvivenza nel tempo).
Per questo si parla di Antropocene (come epoca geologica condizionata dai tempi umani), “accelerazione” dell’Antropocene (come aumento della pressione dei tempi umani sui tempi terrestri), “rottura” dell’Antropocene (come insostenibilità dei tempi umani da parte dei tempi terrestri) (cfr. R.E. Kim, Taming Gaia 2.0: Earth system law in the ruptured Anthropocene).
In conclusione, il tempo autopoietico e autoreferenziale della convivenza umana e del suo diritto si presenta come causa dell’emergenza, non come sua vittima; ancor meno, evidentemente, esso può fungere da soluzione.
Tra le due sfere temporali è ormai in atto la “partita finale”; il “Climate Endgame”, su cui addirittura si sollecita un urgente Rapporto speciale dell’ONU per indagare tutte le incognite della collisione (L. Kemp et al., Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios). Perché di collisione si tratta (fra τ e T), solo illusoriamente risolvibile con i bilanciamenti (“definitori” o “ad hoc” poco importa, consistendo, i bilanciamenti, in altrettante finzioni giuridiche sul tempo).
Torna in mente il dialogo platonico del Filebo su che cosa sia la vita buona rispetto al tempo: è buona la vita che gestisce il proprio tempo o quella che rispetta tempi altrui? La prima procura il piacere; la seconda garantisce sicurezza.
Il mondo di oggi è proiettato prioritariamente sulla prima dimensione (su questo, si v. le imbarazzanti constatazioni di S. Bauman, Tutti schiavi del fitness: la compassione dov’è?) e considera la seconda strumentale alla prima.
Ne è dimostrazione la qualificazione del tempo come bene della vita nei procedimenti “creati” dal diritto (cfr. R. Caponigro, Il tempo come bene della vita). Solo in tali casi, infatti, la sicurezza del tempo è meritevole di riconoscimento e tutela, ma perché buona per la vita propria, non per altro.
Suona, però, stonata e beffarda una simile accettazione, nella contestuale indifferenza o incapacità di considerare il tempo terrestre quale l’unico e insostituibile bene della vita per la sicurezza e la sopravvivenza di tutti gli altri beni della vita “creati” dal diritto e dal suo tempo.
Abbiamo il dovere, proprio come giuristi, di non dimenticare che non nasciamo dai tempi del diritto, ma da quelli del pianeta Terra: un primo, semplice passo per individuare il bene della vita nell’emergenza climatica.

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