Donne senza voce e diritti riproduttivi negati nella sentenza della Corte Suprema Americana in Dobbs v. Jackson
La sentenza della Corte Suprema Americana in Dobbs c. Jackson Women’s Health Organization è stata tanto celebrata dai movimenti pro-life americani, come il coronamento di innumerevoli tentativi politici e giudiziali volti a rovesciare la storica Roe c. Wade, quanto biasimata dai sostenitori pro-choice, come deplorevole estirpazione dei diritti riproduttivi di migliaia di donne nel Paese.
Il contenuto della sentenza, la sua portata quale overulling di Roe c. Wade e il suo significato alla luce dei metodi di interpretazione della due process clause del 14° emendamento, sono stati ben descritti in questo blog da De Santis e Buratti. Meritevole di approfondimento sotto il profilo del diritto interno americano e del diritto costituzionale comparato, la sentenza non lascia indifferenti neanche le studiose e gli studiosi di diritto internazionale dei diritti umani, poiché l’interruzione di gravidanza chiama inevitabilmente in causa diritti fondamentali di diversi soggetti e in primis, ovviamente, quelli delle donne.
Chiunque si interessi di diritto internazionale non può non notare, innanzitutto, la totale assenza di riferimenti alla tutela dei diritti umani fondamentali nella sentenza Dobbs.
Eppure, il tema della regolamentazione dell’aborto negli USA era già stato oggetto di una celebre decisione della Commissione interamericana per i diritti umani nel 1981, White and Potter c. USA (‘Baby-Boy case’). La Commissione, in tale occasione, aveva dichiarato la compatibilità dell’aborto con la Dichiarazione americana dei diritti e doveri dell’uomo, agilmente smontando l’interpretazione proposta dai ricorrenti secondo i quali tale strumento, letto anche alla luce Convenzione americana per i diritti umani, tutela la vita sin dal concepimento.
Peraltro, sul piano del diritto internazionale, sebbene non trovi fondamento un diritto all’interruzione di gravidanza come strumento di controllo della fertilità o esercizio di incondizionata autonomia riproduttiva, è chiaramente riconoscibile un consenso sull’opportunità di garantire, in circostanze specifiche, la prevalenza della tutela della vita e della salute psico-fisica della donna, sulla necessità, altrimenti garantita, di proteggere il nascituro.
Il primo riferimento all’interruzione di gravidanza in uno strumento internazionale è contenuto nel Programme of action adottato al Cairo nel 1994, nel corso della International Conference on population and development. In tale documento gli Stati sono incoraggiati a rendere sicuro l’aborto allorché esso sia consentito dalla legge e a garantire servizi di salute riproduttiva, incluso il trattamento delle conseguenze dell’interruzione di gravidanza, in qualunque circostanza essa sia stata praticata. Nella Platform for action elaborata a Pechino nel 1995, poi, per la prima volta in un documento internazionale, si invitavano gli Stati a rivedere l’imposizione di sanzioni alle donne che abortissero clandestinamente.
Nel diritto pattizio esiste inoltre un’(unica) importante previsione normativa (l’art. 14.2.c del Protocollo sui diritti delle donne alla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli) che qualifica l’aborto come strumento per la realizzazione dei diritti riproduttivi delle donne e ne impone agli Stati parte l’autorizzazione nel caso di stupro, di incesto o anche solo di rischio per la vita, la salute fisica e mentale della madre o per la vita della madre o del feto. Non è evidentemente casuale che questa disposizione sia stata adottata in un contesto, quello africano, in cui continua ad essere estremamente preoccupante il tasso di mortalità materna causata da aborti clandestini.
Ecco allora che una riflessione sull’aborto dalla prospettiva dei diritti fondamentali non può che fondarsi sulla consapevolezza che qualunque restrizione o divieto di interruzione di gravidanza non diminuisce il bisogno delle donne di accedere a questa pratica, ma piuttosto aumenta vertiginosamente il ricorso a pratiche irregolari, pericolose per la vita e la salute di chi vi si sottopone (così, tra l’altro, l’Assemblea del Consiglio d’Europa, in una Risoluzione del 2008).
Sono in effetti diversi i documenti con cui i treaty bodies delle Nazioni Unite hanno considerato l’impatto delle difficoltà di accesso all’aborto sulla condizione delle donne come categoria sociale. Per esempio, con il General Comment n. 28 on the equality of rights between men and women, il Comitato dei diritti umani ha sollecitato gli Stati parte a segnalare le misure adottate per favorire la prevenzione di gravidanze indesiderate ed escludere il ricorso ad aborti clandestini (par. 10), precisando che le previsioni legislative o le prassi che impongono al personale sanitario di segnalare i casi di aborto rappresentano una potenziale violazione del diritto alla vita, tutelato dall’art. 6, e del divieto di trattamenti inumani e degradanti, previsto dall’art. 7 del Patto sui diritti civili e politici (par. 20). Il medesimo organo, nel General Comment n. 36 on the right to life afferma poi il dovere degli Stati di assicurare che le donne non siano costrette a ricorrere ad ‘unsafe abortions’ (par. 8). Altrettanto importante la General Recommendation n. 24 relativo all’art. 12 della CEDAW con cui il Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne ha sollecitato la prevenzione di gravidanze indesiderate attraverso l’educazione sessuale e la pianificazione familiare, sollecitando la depenalizzazione dell’aborto (para. 31 lett. c).
I Comitati delle Nazioni Unite hanno poi ripetutamente espresso la propria disapprovazione per le normative restrittive in materia di aborto nelle osservazioni relative ai reports di singoli Stati, segnalando l’alto tasso di mortalità materna dovuta ad aborti clandestini, sollecitando l’adozione di misure atte a rendere effettivo il diritto di aborto (incluso l’accesso a servizi sanitari ed ostetrici) e richiedendo talvolta espressamente agli Stati di garantire il diritto alla vita alle donne che decidano di interrompere una gravidanza.
Ancor più significativi sono alcuni casi decisi a seguito comunicazioni individuali: in particolare, i celebri Mellet c. Irlanda e Whelan c. Irlanda, in cui per la prima volta il Comitato dei diritti umani si è espresso sul divieto di interruzione di gravidanza e non solo sugli ostacoli posti all’esecuzione di aborti legittimi per il diritto interno, come invece in K.L. c. Perù e L.M.R. c. Argentina. In tutti i casi citati, il Comitato ha riconosciuto una violazione del Patto sui diritti civili e politici, considerando in particolare che la sofferenza provata dalle donne nel vedersi negato l’accesso all’aborto avesse rappresentato un trattamento inumano e degradante, contrario all’art. 7. In Mellet, in particolare, il treaty body ha preso dichiaratamente posizione contro la normativa preclusiva irlandese, in ragione della quale, lo Stato parte aveva sottoposto l’autrice della comunicazione a condizioni di intensa sofferenza fisica e psichica (para 7.4).
Contribuisce ancora a chiarire la portata lesiva dell’impossibilità di accedere all’aborto un altro caso, L.C. c. Perù, deciso dal Comitato CEDAW. La vicenda riguardava una minore rimasta incinta a seguito di ripetuti abusi sessuali, la quale aveva tentato il suicidio riportando gravi lesioni. Nonostante necessitasse di un intervento d’emergenza, il personale sanitario si rifiutava di procedere, temendo che il trattamento potesse danneggiare il feto e rifiutava altresì di dar seguito alla richiesta di aborto, pur consentito, nell’ordinamento peruviano, per salvare la vita o la salute della madre. Solo dopo aver abortito spontaneamente, la ragazzina, le cui condizioni erano ormai gravemente compromesse, veniva sottoposta ad intervento chirurgico. Il Comitato riconosceva una violazione dell’art. 12 CEDAW (che vieta discriminazioni in materia di accesso a servizi sanitari, inclusi quelli relativi alla pianificazione familiare) e dell’art. 5 della Convenzione, che impone agli Stati di promuovere l’eliminazione di pregiudizi e stereotipi sul ruolo delle donne. Per il Comitato, infatti, la decisione di non sottoporre la giovane ad intervento di urgenza, in ragione del suo stato di gravidanza, «was influenced by the stereotype that protection of the foetus should prevail over the health of the mother» (par 8.15). L’impossibilità di accedere all’aborto costituisce, dunque, non solo un trattamento inumano e degradante ed una minaccia alla vita della donna, ma anche una discriminazione di genere poiché essa è alimentata (e alimenta) stereotipi sul ruolo della donna.
Alla luce di questi importanti conquiste sul piano internazionale, è davvero impressionante constatare che le donne e i loro diritti riproduttivi sono i grandi assenti nella sentenza Dobbs.
Com’è noto, gli Stati Uniti non hanno mai ratificato la CEDAW anche per la strenua opposizione delle lobbies pro-life al riconoscimento del diritto di aborto (le ragioni ideologiche sono ben illustrate qui). Gli USA sono tuttavia parte del Patto sui diritti civili e politici e rimangono pertanto vincolati al rispetto dei diritti ivi garantiti, nei termini chiariti in Mellet e Whelan, anche se, non avendo ratificato il Protocollo opzionale al Patto sui diritti civili e politici, essi non potranno essere destinatari di eventuali doglianze individuali, relative alle normative antiabortiste che faranno facilmente seguito a Dobbs. Come ben evidenziato dall’UN High Commissioner for Human Rights e da altri esperti di diritti umani al servizio delle NU (c.d. special procedures), con la sentenza Dobbs la Corte Suprema ha infatti completamente ignorato gli obblighi internazionali che impongono anche agli Stati Uniti di proteggere il diritto alla vita delle donne dall’impatto dannoso delle restrizioni all’aborto. Benché la sentenza non impedisca agli Stati federati di consentire l’interruzione di gravidanza, essa di fatto apre la porta a normative antiabortiste le quali, se non contrastate a livello federale e, anzi, validate a priori dalla Corte suprema in Dobbs, determineranno la responsabilità internazionale degli USA per violazione dei diritti umani fondamentali di molte donne.
Già in un rapporto del 1999, la Special Rapporteur Radhika Coomaraswamy, dichiarava che il divieto di aborto rappresenta, al pari della sterilizzazione forzata, una violenza contro le donne. Da allora molti progressi sono stati compiuti sul piano internazionale per garantire i diritti riproduttivi, ma occorre evidentemente percorrere ancora molta strada per restituire una voce alle tante donne i cui corpi, bisogni e aspirazioni sono stati silenziati tra le righe della sentenza Dobbs.