Egregiously Wrong. Errori e mistificazioni della Corte Suprema nella decisione di disincorporation del diritto delle donne all’interruzione volontaria della gravidanza
1. Con la sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso l’overruling delle sentenze Roe v. Wade (1973) e Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v. Casey (1992), che avevano ricondotto il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza alla protezione offerta dalla due process clause del 14° emendamento. Conseguentemente, privato del riconoscimento nella Costituzione federale e dello status di diritto fondamentale, il diritto all’aborto perde la speciale protezione offerta dallo strict scrutiny delle corti federali e viene riassorbito nella competenza del legislatore statale, su cui grava il solo limite del più lasco rationality test, tradizionalmente deferente nei confronti della discrezionalità del legislatore.
Per la prima volta nella storia della sua giurisprudenza, la Corte Suprema effettua un’operazione di disincorporation di un diritto fondamentale. A ben vedere, qualcosa di simile era accaduto nel 1937, con West Coast Hotel Co. v. Parrish. In quell’occasione, tuttavia, la Corte aveva deciso di depotenziare la liberty of contract nell’intento di massimizzare la protezione dei diritti dei lavoratori, nell’ambito di quella vasta transizione che avrebbe portato la Corte degli anni ’30 a rivedere i canoni di interpretazione costituzionale consolidatisi durante la Lochner Era, non più coerenti con le esigenze profonde della Nazione. Qui invece la disincorporation del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza non determina un avanzamento apprezzabile di tutele, ma, al contrario, un mero sacrificio dei diritti delle donne.
2. La decisione, già illustrata in questo blog da Chiara De Santis, ha un significato che va ben al di là della pur rilevantissima materia del diritto delle donne all’interruzione volontaria della gravidanza, con le sue vibranti ripercussioni sulla lotta politica a livello statale e nazionale, e con il seguito, molto denso e problematico, di interventi legislativi e giurisprudenziali che essa dischiude. La sentenza si inserisce con ruvidità e in modo grossolano in una dialettica aperta da decenni all’interno della Corte e in dottrina circa l’interpretazione della due process clause del 14° emendamento, modificando in modo determinante il metodo di interpretazione e applicazione del substantive due process che da oltre un secolo guida il processo di emersione dei diritti fondamentali e la loro protezione omogenea a livello federale.
Per comprendere appieno la gravità degli errori e delle mistificazioni che l’opinion di maggioranza implica, occorre chiarire preliminarmente che le sentenze oggetto di overruling avevano effettuato tre operazioni concatenate ma distinte: in primo luogo, esse avevano affermato la fondamentalità del diritto all’aborto, riconducendolo dapprima, in Roe, all’ambito della privacy, a sua volta oggetto della protezione del substative due process in quanto rinvenuta nelle penumbras del Bill of Rights (Griswold v. Connecticut, 1965), quindi, con Casey, alla nozione di liberty, autonomamente interpretata in base alla sua menzione nella due process clause del 14° emendamento; in secondo luogo, le due sentenze avevano affermato l’impossibilità di proteggere tale diritto in modo assoluto, in ragione dell’incombente presenza di diritti dei terzi e di interessi della collettività, con particolare riferimento al diritto alla vita del concepito, che matura ad un certo stadio di sviluppo del feto (fetal viability); conseguentemente, le sentenze avevano individuato dei criteri di bilanciamento tra diritti e interessi coinvolti e delle regole pratiche di accomodamento, utilizzando dapprima lo schema dei trimestri quale linea guida stringente per la legislazione statale (Roe), e sostituendolo, poi, con una più aggiornata identificazione della fetal viability allo scopo di vietare l’imposizione di undue burdens da parte della legislazione statale prima di quella soglia.
Ora, posta di fronte alla legge del Mississippi che individuava nella quindicesima settimana di gestazione il termine oltre il quale la donna non avrebbe più potuto esercitare il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, la Corte Suprema avrebbe potuto stabilire l’overruling dei criteri di bilanciamento e delle regole pratiche stabiliti, da ultimo, da Casey, individuando una nuova regola di bilanciamento, più precisa e più coerente con gli avanzamenti della tecnica medica. Nel fare questo, essa avrebbe potuto altresì ampliare il margine di discrezionalità dei legislatori statali, senza tuttavia far mancare un nucleo di protezione omogenea al diritto all’aborto. Che i precedenti avessero individuato regole di bilanciamento poco accurate (Roe) e poco chiare per corti e legislatori (Casey) è un dato su cui è registrata da sempre una notevole convergenza dottrinale: una nuova regola pratica, potenzialmente più aperta alla discrezionalità dei legislatori statali, sarebbe stata dunque accolta con maggiore benevolenza, ed avrebbe lasciato aperta la ricerca di un punto di mediazione ottimale (in questo senso la concurring di Roberts).
Ed invece la maggioranza della Corte ha deciso di estendere il proprio overruling alle premesse enunciate nei due precedenti, revocando dunque la protezione del 14° emendamento al diritto all’aborto. Nonostante la confusione che l’opinion di maggioranza fa nel motivare il proprio overruling – giacché appunto confonde le premesse teoriche e le regole pratiche individuate nei due casi, nell’intento retorico di intercettare i cinque criteri-guida dell’overruling canonizzati in Janus v. AFSCME (2018) –, il punto cruciale della decisione è dunque quello, contenuto nelle prime pagine della sentenza, in cui si afferma l’erroneità dell’incorporation del diritto all’aborto nella due process clause del 14° emendamento operata in Roe e ribadita in Casey.
La decisione di declassare il diritto all’aborto si basa su una strategia argomentativa tipica degli orientamenti conservatori in tema di incorporation dei diritti fondamentali: secondo la Corte, l’incorporation dei diritti, che implica una consistente riduzione delle prerogative degli stati membri, deve essere operata in base ad un metodo testuale (mediante la selective incorporation dei diritti codificati nel Bill of Rights federale), corroborato da un’analisi storica, che richiede che il diritto incorporato sia deeply rooted in nation’s history and tradition, e belonging to the ordered scheme of national liberties. Il diritto all’aborto, invece, non è codificato nel Bill of Rights federale, né vi è evidenza di un suo radicamento nella storia. Roe e Casey, fondando tale diritto su privacy e liberty avevano fatto uso di metodologie di incorporation sbagliate, giacché tali nozioni sono troppo generiche e prive di concretezza: il loro uso quale fondamento di diritti innominati finisce per estendere, di fatto, la discrezionalità creativa della Corte a detrimento della libertà politica del popolo e dei suoi rappresentanti.
3. Restituendo alla Corte il giudizio riservato a Roe e Casey, ritengo che l’opinion di maggioranza in Dobbs sia egregiously wrong: essa ignora, o finge di ignorare, la varietà dei metodi interpretativi della due process clause che hanno preso forma dalla fine dell’Ottocento, e svaluta elementi testuali della Costituzione federale che invece pretendono efficacia.
Nella giurisprudenza della Corte, i diritti fondamentali protetti dalla due process clause sono stati individuati tanto attraverso la tecnica della selective incorporation dei diritti codificati nel Bill of Rights federale, quanto attraverso il ricorso a tecniche interpretative più libere dai riferimento testuali e storici, come quelle basate sulla interpretazione evolutiva del concetto di liberty protetto dalla due process clause o tramite l’enucleazione del diritto alla privacy, individuato nelle penumbras del Bill of Rights e interpretato come estrinsecazione del valore dell’autodeterminazione individuale: l’applicazione autonoma di liberty quale nozione inclusiva di un nucleo di diritti, appartenenti alla tradizione di Common law o alle prassi delle nazioni civili, ha dato continuità ad un filone interpretativo connesso alla concezione giusnaturalistica, fondativa del costituzionalismo americano (rinvio per considerazioni più diffuse ad un mio lavoro sulla Rivista di Diritti Comparati). Questa metodologia interpretativa della due process clause nasce addirittura prima della definizione della selective incorporation, almeno a partire da Allgeyer v. Louisiana (1897), e si consolida durante la Lochner Era: la stessa sentenza Lochner v. New York fonda il diritto alla libertà contrattuale sulla liberty; più tardi saranno Meyer v. Nebraska (1923) e Pierce v. Society of Sisters (1925) a confermare questa metodologia. In Herbert v. Louisiana si legge che il 14° emendamento protegge quei «fundamental principles of liberty and justice which lie at the base of all our civil and political institutions».
È dunque proprio vero, come ci dice la maggioranza in Dobbs, che la Corte è sempre stata «reluctant» nel fondare nuovi diritti sulla nozione di liberty? Non direi proprio. I precedenti evocati dalla Corte per fondare l’incorporation sul test storico (su tutti Washington v. Glucksberg, 1997, e McDonald v. Chicago, 2000) sono sapientemente selezionati per dimostrare questa tesi: ma negli stessi anni la Corte adottava altre metodologie di incorporation, fondate sul combinato disposto di liberty e equal protection: basta menzionare Lawrence v. Texas (2003). La verità è che nella storia del substantive due process, i due metodi interpretativi, differenti nelle premesse filosofiche ma convergenti negli esiti, si sono sempre alternati, in una dialettica certamente aspra nel confronto tra le opinioni, ma in fin dei conti valorizzante per l’arricchimento del catalogo dei diritti – in un ordinamento costituzionale nel quale, d’altronde, la dinamica del testo è ormai sclerotizzata dall’impercorribilità di fatto del processo emendativo.
Il rigetto di una metodologia interpretativa fondata da oltre un secolo e vitale nell’applicazione di una delle più decisive previsioni costituzionali lascia dunque sconcertati: un’inversione di rotta così brusca avrebbe imposto una motivazione adeguata, anche rispetto al destino dei diritti che fin qui hanno trovato protezione tramite queste tecniche di incorporation. Ed invece il lettore viene guidato in una narrazione mistificatoria della giurisprudenza consolidata in materia di substantive due process, condita da frasi banali, adatte forse a chiacchiere tra amici, come quando ci si dice che la nozione di liberty è troppo ampia per pretendere efficacia. La circostanza che una parola enfaticamente codificata nel testo della Costituzione venga qui sostanzialmente ignorata dovrebbe suscitare stupore proprio da parte di quei giudici che da sempre valorizzano, talora in modo feticistico, il testo normativo: per quanto impegnativa possa essere l’interpretazione del concetto di liberty, la Corte Suprema è chiamata a questo compito, conferendogli un significato giuridicamente definito e congruente con la tradizione giurisprudenziale radicatasi da oltre un secolo.
Si dovrebbe, semmai, prendere atto che l’ampia discrezionalità interpretativa è una condizione inevitabile nel terreno dei diritti fondamentali: la stessa scelta di ricorrere alla tradizione storica come fonte di legittimazione dei diritti non evita problemi di questo genere. Come ci ricorda il dissent di Stevens a McDonald v. Chicago «History is not an objective science, and … its use can therefore point in any direction the judges favor». Rifugiarsi dietro la foglia di fico delle opinioni di giuristi del Medio Evo per nascondere un principio di libertà codificato nella Costituzione e vitale nella prassi giurisprudenziale è sbagliato e fuorviante: si cela a fatica un’opzione culturale reazionaria, orientata alla polarizzazione delle fratture sociali e al rifiuto del pluralismo dell’interpretazione costituzionale.
La sentenza Dobbs è dunque sbagliata e mistificatoria: se è vero che l’unworkability della regola pratica individuata da Casey lasciava spazio per un suo overruling, nella direzione di un diverso criterio di bilanciamento, è altrettanto vero che l’overruling della incorporation del diritto all’aborto non è giustificabile alla luce di alcun canone di Common law; ed anzi, esso rappresenta uno sviamento da una prassi giurisprudenziale ben radicata nell’interpretazione del 14° emendamento.
E sebbene sia inquietante riconoscerlo, l’opinion firmata da Alito è egregiously wrong non solo rispetto al concurring di Roberts, che si muoveva più saggiamente nella direzione di una revisione della regola pratica di bilanciamento di Casey, ma perfino rispetto al violento concurring di Thomas. Per quanto si sforzi di stabilire una linea differenziale tra i casi attinenti alla privacy e alla dignità, dal già citato Lawrence a Obergefell, e il caso del diritto all’aborto, l’opinion di maggioranza non fuga i dubbi circa la precarietà di tutti i diritti la cui protezione è stata riconosciuta tramite tecniche libere di incorporation. Se è l’erroneo metodo della incorporation ad aver determinato l’overruling di Roe e Casey, sono oggi a rischio diversi altri diritti fondamentali che hanno dato forma e voce a quella pursuit of happiness che i Founding Fathers auspicavano per i loro figli.