La perdita della cittadinanza europea dopo Brexit. Per la Corte di giustizia una conseguenza inevitabile della “decisione sovrana” del Regno Unito di recedere dall’Unione
In un tweet pubblicato il 3 giugno 2016, Boris Johnson scriveva: “Vienna Treaty protects rights of UK residents in France and elsewhere in EU! Brexit will make no difference”. Bastarono pochi giorni dopo il referendum celebratosi il 23 giugno dello stesso anno perché i cittadini britannici residenti nell’Unione si accorgessero di una realtà ben diversa. Poco dopo, il motto del governo inglese sarebbe diventato “Brexit means Brexit”. Era chiaro che essi avrebbero perso la cittadinanza dell’Unione e la triste realtà fu confermata dall’accordo sul recesso del Regno Unito dall’Unione europea. Diversi cittadini britannici hanno tentato di modificare questo loro destino portando la questione alla Corte di giustizia. Alcuni (Shindler e a., T-198/20; Price, T-231/20 e Silver, T-252/20) hanno chiesto direttamente al Tribunale UE di annullare la decisione (UE) 2020/135 del Consiglio che ha approvato a nome dell’Unione l’accordo di recesso nella parte in cui prevedeva la perdita della loro cittadinanza dell’UE. Il Tribunale ha però respinto tutti i ricorsi per mancanza di legittimazione (sono ora pendenti gli appelli dinanzi alla CGUE). Un altro caso è giunto alla Corte tramite il rinvio pregiudiziale di un giudice francese, che ha portato alla pronuncia in commento. Una decisione che stupisce per la drasticità con cui vengono respinte le argomentazioni secondo cui i cittadini britannici avrebbero potuto mantenere la cittadinanza dell’UE e che, secondo alcuni, rappresenta “la fine di un’era” (Peers, 2022). Anche la Corte, infatti, sembra dire ai cittadini britannici residenti nell’UE: Brexit means Brexit.
Il caso di specie
A seguito dell’entrata in vigore dell’accordo di recesso (1° febbraio 2020), EP, cittadina del Regno Unito residente in Francia dal 1984, venne cancellata dalle liste elettorali francesi, non potendo così partecipare alle elezioni comunali ivi tenutesi nel marzo 2020. Dinanzi al Tribunal judiciaire d’Auch, EP lamentava di essere stata privata, come conseguenza della perdita della sua cittadinanza dell’Unione, del diritto di voto alle elezioni comunali ex artt. 18, 20 e 21 TFUE e artt. 39 e 40 CDFUE e di non godere più nemmeno del diritto di voto nel Regno Unito in virtù della cd. “norma dei 15 anni”, che – allo stato attuale – priva di tale diritto il cittadino inglese che risieda da oltre 15 anni all’estero (il governo inglese, promotore oggi di una politica “votes for life”, ha proposto di superare tale regola).
Il giudice francese chiedeva quindi alla Corte di giustizia se i cittadini britannici che, come EP, hanno trasferito la loro residenza in uno Stato membro continuino a beneficiare dello status di cittadino dell’Unione e, più nello specifico, del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nel loro Stato membro di residenza. Se così non fosse, il giudice invitava la Corte a valutare, alla luce del principio di proporzionalità, la validità della citata decisione del Consiglio.
La decisione della Corte
La Grande Sezione della Corte di Giustizia, con sentenza del 9 giugno 2022, accogliendo sostanzialmente le conclusioni dell’AG Collins, rispondeva che, dal momento del recesso del Regno Unito dall’UE, i cittadini di tale Stato residenti in altro Stato membro “non beneficiano più dello status di cittadino dell’Unione né … del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nel loro Stato di residenza”, anche qualora siano altresì privati del diritto di voto nello Stato di cui sono cittadini (§83). La Corte arriva a tale conclusione sulla base di quattro semplici considerazioni: i) i Trattati hanno cessato di essere applicabili al Regno Unito dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso, sicché tale Stato non è più uno Stato membro (§55); ii) i cittadini del Regno Unito non possiedono più la cittadinanza di uno Stato membro, bensì quella di uno Stato terzo (§56); iii) il possesso della cittadinanza di uno Stato membro costituisce una condizione indispensabile affinché una persona possa conservare lo status di cittadino dell’Unione, mentre nessuna disposizione dei Trattati riconosce tale status e i diritti che ne conseguono a favore dei cittadini di Stati terzi (irrilevante è che i cittadini britannici abbiano precedentemente esercitato il diritto di soggiorno in uno Stato membro; §§57-58); iv) nulla nell’accordo di recesso consente di constatare che esso abbia voluto mantenere la cittadinanza dell’Unione e quindi il diritto di voto alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza a tali cittadini (cfr. l’art. 127 dell’accordo che aveva espressamente escluso gli artt. 20, par. 2, lett. b e 22 TFUE e gli artt. 39 e 40 CDFUE dalle norme del diritto dell’Unione che avrebbero continuato ad applicarsi al Regno Unito in via transitoria fino al 31 dicembre 2020; §§63-67).
Inoltre, rilevava che nessun elemento consente di ritenere che l’Unione, in quanto parte contraente dell’accordo di recesso, non avendo richiesto che fosse previsto in tale accordo un diritto di voto alle elezioni comunali a favore dei cittadini britannici residenti in uno Stato membro, abbia ecceduto i limiti del suo potere discrezionale (§98), in quanto le istituzioni dell’Unione dispongono di un “ampio margine di scelta politica nella gestione delle relazioni esterne”. Esse non sono infatti tenute a concedere ai cittadini dei paesi terzi diritti quali il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza, riservato, del resto, ai soli cittadini dell’Unione (§99).
Le conseguenze inevitabili della “decisione sovrana” del Regno Unito di recedere dall’Unione
Un’argomentazione abbastanza forte con cui la Corte motiva la sua decisione è che la perdita del diritto di voto dei cittadini britannici residenti in altri Stati UE è conseguenza inevitabile della “sola decisione sovrana” del Regno Unito di recedere dall’Unione (v. §§53, 59 e 91; terminologia già utilizzata dalla Corte in Wightman, §59). Decisione, peraltro, che è stata assunta con un referendum a cui tutti i cittadini britannici hanno avuto modo di partecipare. Il punto è però proprio che EP, in quanto residente da più di 15 anni all’estero, aveva perso il diritto di voto nel Regno Unito. Una situazione del tutto diversa, per esempio, rispetto a quella in riferimento alla quale la Cour de Cassation francese aveva dichiarato che la perdita della cittadinanza dell’Unione non comporta una lesione sproporzionata ai diritti civili e politici della persona interessata, giacché quest’ultima “n’a pas perdu son droit de vote et d’éligibilité au Royaume-Uni, de sorte qu’il ne peut, de manière pertinente, arguer de ce qu’il serait privé de tout droit électoral et que cette privation constituerait une atteinte disproportionnée à ses droits politiques de citoyen”.
Questa specificità di EP, tuttavia, non viene particolarmente approfondita dalla Corte, che si limita a dire che “la norma dei 15 anni [è] una scelta di diritto elettorale effettuata da questo ex Stato membro, ora Stato terzo” e pertanto irrilevante per il diritto dell’Unione (§60). Sia la Corte che l’AG Collins (§§44-45) affermano che qualsiasi violazione che EP desideri invocare per quanto concerne il suo status di cittadina dell’Unione deve essere fatta valere nei confronti del Regno Unito, che ha receduto dall’Unione europea, e non nei confronti delle autorità francesi o dell’Unione europea. In altre parole, deve prendersela con il Regno Unito.
La “decisione sovrana” del Regno Unito di lasciare l’Unione è da interpretarsi come esplicito rigetto dei principi fondativi dell’Unione, compresi quelli di cui agli artt. 18, 20, 21 TFUE e art. 39 e 40 CDFUE sul diritto di voto (che lo stesso giudice del rinvio definisce principi “che formano l’identità dell’Unione”). Una tale decisione, pertanto, non può non rimanere senza conseguenze, tra cui quella di perdere il più fondamentale status personale che l’Unione è in grado di offrire e i diritti che ne conseguono. L’Unione non è poi più tenuta a garantire diritti di individui che sono cittadini di uno Stato che ha abbandonato l’Unione europea (così l’AG al §75). Si tratta di rispettare la decisione democratica del Regno Unito, che non può non produrre spiacevoli conseguenze, peraltro espressamente volute o accettate dai sostenitori di Brexit. Per dirla con Theresa May, anche per la Corte “Brexit means Brexit!”.
L’«ostacolo costituzionale» del legame inscindibile tra cittadinanza dell’Unione e cittadinanza di uno Stato membro
Come noto, gli artt. 9 TUE e 20 TFUE stabiliscono che è cittadino dell’Unione solo chi ha la cittadinanza di uno Stato membro. Era quindi del tutto conseguente da questa chiara regola che i cittadini britannici avrebbero perso la cittadinanza UE a seguito del recesso del Regno Unito dall’Unione. Alcuni avevano però proposto di attribuire ai cittadini britannici residenti nell’Unione uno “special EU protected citizen status”, tale da non far perdere loro i diritti connessi alla cittadinanza dell’Unione (Kostakopoulou, 2018). Una proposta che non è andata esente da critiche (Van Den Brink, Kochenov, 2019) e che la sentenza in commento ha definitivamente rigettato. L’AG Collins ricorda come gli Stati membri non hanno voluto attribuire all’Unione il potere di creare una cittadinanza dell’Unione slegata dalla cittadinanza nazionale e hanno pertanto eretto un vero e proprio “ostacolo costituzionale” alla possibilità che un siffatto potere venga fatto discendere implicitamente dal diritto dell’Unione (§22 delle conclusioni). Anche per la Corte, il legame tra il possesso della cittadinanza di uno Stato membro e l’acquisizione (e la conservazione) dello status di cittadino dell’Unione è “inscindibile ed esclusivo” (§48 della sentenza).
Coloro che, in vario modo, propongono di “slegare” la cittadinanza dall’Unione da quella nazionale (il dibattito è ben ricostruito da Orgad, Lepoutre, 2019), quantomeno in caso di perdita della cittadinanza dell’Unione dopo Brexit, dovrebbero superare un “ostacolo costituzionale” che la Corte ancora una volta non ha potuto abbattere.
Nessuna novità dopo Tjebbes
EP aveva cercato di appellarsi a quelle decisioni in cui la Corte, sulla base del principio di proporzionalità, aveva sancito l’obbligo di un esame individuale delle conseguenze derivanti dalla perdita della cittadinanza dell’Unione, come nel caso in cui uno Stato membro revochi la cittadinanza in applicazione di una misura legislativa di tale Stato membro (Tjebbes, C-221/17) o di una decisione individuale adottata dalle autorità competenti (Rottmann, C-135/08 e Wiener Landesregierung, C-118/20), precisando che deve trattarsi di “situazioni specifiche, rientranti nel diritto dell’Unione”. Secondo EP, la perdita della cittadinanza europea e, in particolare, del diritto di voto alle elezioni comunali in Francia produrrebbe per lei conseguenze del tutto sproporzionate, considerato il fatto che essa è privata del diritto di voto pure nel Regno Unito.
La dottrina si era interrogata sull’applicabilità di questa giurisprudenza allo scenario Brexit (Davies, 2016; Garner, 2016; Van Den Brink, 2019). Ma la Corte chiarisce che essa non può applicarsi per analogia al caso di specie, in quanto la perdita del diritto di voto e di eleggibilità in occasione di elezioni indette nello Stato membro di residenza della persona interessata è “la risultante automatica di una decisione sovrana adottata da un ex Stato membro”, cosicché nessun obbligo di esaminare individualmente, alla luce del principio di proporzionalità, la situazione di EP può più essere imposto alle autorità francesi (§§59-62). La perdita della cittadinanza (e quindi del diritto di voto) non è conseguenza di una decisione di uno Stato membro, ma – a differenza delle situazioni considerate sia in Rottmann sia in Tjebbes – è la decisione sovrana di uno Stato terzo ad aver causato la perdita, da parte di EP, dei benefici derivanti dai diritti connessi alla cittadinanza UE.
La giurisprudenza della Corte sulla perdita della cittadinanza UE non si applica più dunque alle autorità britanniche: qualsiasi aspettativa che le autorità francesi si impegnino nella valutazione individuale della situazione del ricorrente è infondata, perché la giurisprudenza in materia è sempre stata rivolta alle autorità nazionali che hanno causato la perdita della cittadinanza UE (che nella specie è il Regno Unito, non la Francia). Qualsiasi privazione del suo diritto di partecipare al processo democratico in quanto cittadina del Regno Unito discende esclusivamente dalla normativa del Regno Unito. Ancora una volta, è con quest’ultimo che EP deve prendersela.
Il caso paradossale di EP e il rilievo del suo legame effettivo con l’Unione. Un’occasione mancata?
EP aveva affermato che avrebbero dovuto essere gli stretti legami creatisi con la Francia ad impedire che essa fosse privata della cittadinanza dell’Unione. Tuttavia, nonostante la sua lunga residenza in Francia e il suo matrimonio con un cittadino francese, EP aveva scelto di non acquisire la cittadinanza francese, pur essendo nelle condizioni di farlo. È evidente come tutte le violazioni lamentate da EP svanirebbero una volta ottenuta la cittadinanza francese, che le conferirebbe automaticamente la cittadinanza dell’Unione. Come ha messo in rilievo anche l’AG (§33), è quindi paradossale che, fondandosi esclusivamente sui suoi legami con la Francia per sostenere di avere diritto a conservare la cittadinanza dell’Unione, EP rifiuti, al contempo, di compiere il singolo passo che le consentirebbe di conservare la sua cittadinanza dell’Unione, ossia la presentazione di una domanda di cittadinanza francese.
È proprio il paradosso del caso in esame a stimolare qualche riflessione conclusiva. A ben vedere, EP lamenta di aver perso la cittadinanza dell’Unione, non il fatto che la sua cittadinanza nazionale non sia più legata a quella dell’Unione. Lamenta in altre parole che il suo legame effettivo con l’Unione, in particolare con la Francia (che deriva dalla sua stabile residenza in questo paese), a prescindere dalla sua nazionalità (inglese o francese), non venga tenuto in alcuna considerazione. Poteva essere questa l’occasione per la Corte di sviluppare quanto in qualche modo già anticipato con Tjebbes?
Quest’ultima decisione si era conclusa con l’affermazione che un soggetto che non possiede più un legame effettivo con l’Unione può perdere, senza problemi di compatibilità con il diritto dell’Unione, la propria cittadinanza europea (Tjebbes, §34-35). La Corte, come si era tentato di spiegare, avrebbe potuto proseguire il ragionamento affermando che, se è l’assenza di un legame effettivo con l’Unione a precludere la possibilità di continuare a godere dei diritti connessi alla cittadinanza europea, allora è la presenza di un siffatto legame a giustificare il riconoscimento della possibilità di godere di questi ultimi. A rilevare sarebbero così, ai fini soprattutto della conservazione della cittadinanza dell’Unione, gli elementi volontaristici della residenza e del legame con la comunità nazionale in cui il soggetto è integrato (Kostakopoulou, 2019; CESE, 2013), piuttosto che quelli accidentali della nascita in un determinato territorio o dei vincoli di sangue. Certo, è la lettera dei Trattati che impedisce di accogliere simili conclusioni.
La Corte, in questo caso, non ha quindi potuto spingersi oltre i Trattati. Probabilmente, era forte l’esigenza di non rendere senza conseguenze, persino in tale delicata materia, la “decisione sovrana” del Regno Unito di recedere dall’Unione, anche per evitare di rendere la prospettiva dell’uscita dall’Unione attrattiva per altri Stati membri, dicendo loro che possono lasciare l’Unione senza il sacrificio dei diritti dei propri cittadini. Sarebbe stato però forse il caso di spendere qualche parola in più sul rilievo che la (stabile e duratura) residenza nell’Unione – il legame effettivo con l’Unione – può avere ai fini della conservazione della cittadinanza UE, quanto meno per dare una più approfondita risposta alle (infondate, ma forse non così paradossali) richieste di un ormai ex cittadina dell’Unione.