Anche la memoria pubblica ha genere
Nei giorni scorsi ha generato qualche eco mediatica l’inaugurazione della statua dedicata a Margherita Hack, nell’anniversario della sua nascita.
Non che le questioni locali che attengono alle politiche memoriali debbano animare il dibattito pubblico nazionale…possono farlo, ma non necessariamente. Non di meno, è forse possibile cogliere in questo evento un rilievo che trascende l’ambito cittadino e ci invita a una riflessione di più ampio respiro.
La statua, intitolata Sguardo fisico, è posta a Milano, in Largo Richini, nei giardini di fronte all’Università Statale. È stata promossa dalla Fondazione Deloitte, in collaborazione con la Casa degli Artisti e il Comune.
Il monumento in bronzo, alto 2,70 metri, è opera dell’artista bolognese Sissi, che ha voluto ritrarre l’astrofisica mentre «emerge dal magma della vita che pulsa dentro la crosta terrestre», con il corpo ancora incastonato nella materia grigia e le mani dorate che si protendono al cielo per mostrarle le stelle senza l’ausilio di alcuno strumento.
Si tratta, invero, ed è qui che va emergendo il nostro interesse, di una delle pochissime sculture dedicate in Italia a una donna. La prima in suolo pubblico a commemorare una scienziata.
Ciò genera o dovrebbe generare l’interesse del diritto e in particolare del diritto pubblico?
Sono convinta di sì, se partiamo dal presupposto che la memoria pubblica è un atto politico teso a ribadire su quali valori stiamo costruendo i nostri legami comunitari e a definire quali sono i principi su cui vogliamo fondare la società di domani.
Si può concordare sul fatto che lo Stato “parli” anche attraverso le politiche memoriali, di modo che possiamo affermare che la monumentalistica pubblica è divenuta una forma consueta di speech government: talmente consueta che a volte non avvertiamo neppure la potenza di questi atti di occupazione, non solo simbolica, dello spazio pubblico.
Invero, basterebbe ripartire dal recupero della dimensione spaziale e memoriale per percepire la portata di alcuni processi storici, la rappresentazione del potere sottesa, gli ordini di gerarchia della società consolidati e, dunque, le sue conflittualità, più o meno latenti.
Passeggiare nel reticolo di strade e piazze, tra mezzi busti e targhe delle nostre città diviene, infatti, occasione non solo per spostarsi geograficamente da un quartiere all’altro, ma anche per muoversi nel tempo e nelle relazioni di potere.
Lo stradario e l’apparato monumentale cittadino sono senza dubbio concepiti come occasione per agire sul presente e per costruire la nostra identità futura, servendosi pedagogicamente dell’arena memoriale. Esiste, infatti, una dimensione materiale della memoria, che opera attraverso delle “presenze” che si fanno simboli, rappresentando qualcosa che vale la pena ricordare a livello collettivo.
Viste così le cose, il monumento dedicato a Margherita Hack assume un’importanza fondamentale. Non è solo il doveroso omaggio a una grande donna italiana, ma è anche l’atto con cui un’assenza si fa presenza pubblica.
Con lei l’assenza secolare del femminile, si fa presenza nello spazio pubblico urbano.
Si proverà a dire meglio.
Negli ultimi anni, è andata crescendo la sensibilità rispetto a una parità di genere che non sia frutto di una mera produzione normativa, bensì il risultato di un genuino atto di smantellamento del sistema patriarcale, nella consapevolezza che, senza insubordinazione a un sistema consolidato dell’immaginario collettivo, non è possibile innescare un cambiamento strutturale.
La storiografia, che già da tempo aveva avviato un processo di trasformazione portando molti storici a soffermarsi più sui processi che sugli eventi, più sulle persone che sui personaggi, non si è fatta trovare impreparata all’appuntamento.
Non sono mancate, dunque, riflessioni tese a ripensare la narrazione più tradizionale in favore di percorsi non ancora battuti, nei quali risalta il discorso anticoloniale e femminista, capaci di aprire la strada a nuovi punti di vista sul passato.
Capita così che anche i giuristi siano invitati a guardare con occhi nuovi ad alcuni processi storici, come per esempio la formazione dello Stato nazionale. Da una parte, essa rappresenta un punto di arrivo e al contempo di partenza, fondamentale rispetto al forgiarsi dei modelli di organizzazione politica della modernità che sono alla base dello stato costituzionale democratico contemporaneo; dall’altra è, senza dubbio, espressione di un processo che ha determinato irrimediabilmente la massiccia esclusione dall’orizzonte politico di una larga fascia di gruppi e persone non solo in termini di visibilità storica, ma anche di accesso ai diritti. Costruire una nazione significava costruire un modello ideale di cittadino i cui caratteri hanno finito con il delimitare lo spazio materiale e simbolico della cittadinanza: l’essere uomo, bianco, borghese, timorato di Dio…
Al di fuori di questo profilo c’era l’esclusione, talora la tolleranza, a volte una benigna protezione, ma mai l’accettazione della diversità come manifestazione del reale.
In questo contesto, su cui non mi soffermo perché noto, le donne, tradizionalmente, abitano la storia, ma mai come protagoniste. Se a esse uno spazio è concesso, questo le riproduce immancabilmente solo come madri di, sorelle di, amanti o spose di…. Sempre in posizione funzionale rispetto a chi quella storia non si limita ad abitarla bensì a forgiarla; sempre destinatarie di protezione o tutt’al più custodi di valori che, però, non esaltano il loro ruolo all’esterno, anzi le ingabbiano socialmente. Non è un caso se tutte le rappresentazioni degli ideali, così come delle virtù hanno fattezze femminili. Spesso, ad onor del vero, anche quelle dei peccati e dei vizi: ma in quel caso si trattava di ribadire la natura maligna e tentatrice delle donne, così confermandone il carattere inaffidabile che impedisce loro di assumere responsabilità pubbliche…
Con fatica negli ultimi anni è stato attribuito ad alcune donne di indubbia eccellenza il ruolo che meritavano, in particolare nel campo delle scienze. A partire da quelle “dure” come si è soliti chiamarle, in cui la loro presenza era rimasta in ombra. Si iniziano a vedere i frutti di questo atteggiamento nel crescere della presenza femminile nelle aule delle facoltà dove si insegnano le cosiddette discipline STEM, nei laboratori, negli uffici un tempo inaccessibili al genere femminile.
Si tratta di timide, ma evidenti conquiste conseguenza delle rivendicazioni in favore di uno smantellamento del sistema patriarcale che ha contribuito alla marginalizzazione delle donne attraverso un circolo vizioso in cui l’assenza dallo spazio politico ha generato inevitabilmente un’assenza nello spazio pubblico e simbolico, che ha finito con il legittimare ordini di potere e immaginazione delle gerarchie di ruolo percepite, infine, come “naturali”, “biologiche”.
La memoria istituzionalizzata è stata per secoli, e per certi versi lo è ancora, domaine réservé del genere maschile. Coloro che la storiografia tradizionale ha decretato essere i protagonisti del passato, si sono arrogati il diritto di essere anche protagonisti del nostro presente attraverso il palinsesto memoriale, delimitando l’immaginario futuro.
Per questo anche da qui bisogna muovere per sostenere un cambiamento, attraverso un uso energico di politiche memoriali capaci di far emergere narrazioni represse che chiedono di confrontarsi nell’arena memoriale pubblica. Nella capacità dei poteri pubblici di farsi mediatori di narrazioni memoriali a volte parallele, a volte in contrasto si può valutare la loro capacità di farsi soggetto in grado di gestire la pluralità, dal momento che la memoria pubblica è democratica quando è polifonica, non necessariamente condivisa. Ciò avviene ricontestualizzando l’esistente, risemantizzando le simbologie pubbliche come reclamano le recenti e reiterate proteste contro alcune statue, ma anche recuperando memorie rimaste al margine, domestiche non per natura, ma perché relegate dal potere nello spazio familiare.
Certo, non sarà una sola statua a cambiare il corso delle cose. Ma è necessario partire ed è necessario avere consapevolezza dei processi politici che stanno dietro a questi atti memoriali pubblici.
Non è sufficiente, infatti, dar conto di una trasformazione (già in atto da tempo, invero) che vede le donne concepite finalmente non più come “oggetti” della storia, ma come soggetti che hanno saputo lasciare un segno.
Bisogna riconoscere che i cambiamenti, pur lenti, ci sono. Ma la meta da un punto di vista politico, ossia dalla prospettiva di ciò che deve divenire lo spazio pubblico per garantire reali spazi di parità di genere, è ancora lontana. Non sarà raggiunta sino a quando le donne non si trasformeranno da soggetti ad agenti politici, capaci di elaborare strategie, consolidare pratiche sociali, sviluppare tattiche politiche. È la piena partecipazione ai processi di decisione che può rappresentare il vero punto di svolta, perché c’è differenza tra decidere in favore delle donne e decidere con le donne. C’è differenza tra la definizione di una politica memoriale definita da uomini per le donne e quella in cui le donne partecipano all’arena memoriale non solo nello spazio pubblico latamente inteso, ma anche a livello istituzionale. Solo percependo questa differenza è possibile cogliere la distanza tra l’iconografia della statua che raffigura Margherita Hack e quella che accompagna la rappresentazione della Spigolatrice di Sapri che in occasione della sua inaugurazione nel 2021, tanto aveva fatto parlare di sé, sollevando lo sdegno di gran parte del mondo femminile. Al di là dell’estro artistico dell’autore esiste una funzione che la memoria pubblica deve conservare.
Se la memoria è uno spazio di lotta politica allora è necessario essere presenti per poter fare la differenza. Presenti simbolicamente nei luoghi in cui la memoria cittadina si fa sguardo sul futuro; presenti attivamente nei luoghi in cui si decide verso dove volgerlo quello sguardo.
C’è una soggettività, oltre che una dimensione cronologica nella rappresentazione del tempo.
Anche la memoria ha un genere.