Recensione P. Pannia, La diversità rivendicata. Giudici, diritti e culture tra Italia e Regno Unito, Wolters Kluwer, 2021
La diversità rivendicata di Paola Pannia si pone come obiettivo quello di rispondere ad una richiesta sempre più pressante avanzata sia dalla società civile sia dal mondo accademico e politico alle istituzioni delle democrazie costituzionali: come approcciare, e come governare, la diversità culturale in un mondo sempre più interconnesso e multiculturale? Come definire la diversità culturale e quali principi debbono guidare il legislatore ed il giudice a fronte della richiesta di riconoscimento di un’identità culturale diversa da quella “dominante”?
La cornice normativa sovranazionale fornisce certamente elementi utili alla comprensione dei “marcatori d’identità”, quali la cultura, la lingua, la religione. È, infatti, nell’ambito del diritto internazionale che i diritti culturali ricevono per la prima volta formale riconoscimento giuridico. Il diritto di ogni individuo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione viene sancito nel Patto internazionale dei diritti civili e politici (1966), il cui articolo 18 include la libertà di avere o di adottare una religione o un credo di propria scelta, nonché la libertà di manifestare, individualmente o in comune con altri, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nel culto e nell’osservanza dei riti, nelle pratiche e nell’insegnamento. L’articolo 18 del Patto internazionale tiene quindi in considerazione la dimensione collettiva dei diritti identitari. L’articolo 27, invece, stipula che l’individuo appartenente a minoranze etniche, religiose o linguistiche non può essere privato della propria vita sociale, né impedito di professare la propria religione o di usare la propria lingua. Se, da un lato, gli ordinamenti giuridici nazionali hanno nel tempo fornito esplicito riconoscimento e protezione delle minoranze “storiche” nazionali, anche incoraggiati dai traguardi raggiunti in ambito internazionale sopramenzionati, dall’altro, ciò non è spesso avvenuto compiutamente nei confronti delle “nuove” minoranze, formate da migranti con cittadinanza e identità differenti e con un radicamento territoriale di minor durata (Biondi Dal Monte, Casamassima, Rossi, 2017).
A livello europeo, il Piano d’azione per l’integrazione e l’inclusione 2021-2027 lanciato dalla Commissione europea nel 2020 sembra anteporre alla frammentazione delle strategie nazionali per l’inclusione di persone con background migratorio differente specifiche misure che vadano a rafforzare, inter alia, l’inclusione e l’integrazione tramite educazione, inserimento nel mercato del lavoro, partecipazione alla vita della comunità ospitante. Nel documento, la Commissione nota, infatti, che “i migranti e i cittadini dell’UE provenienti da un contesto migratorio si trovano spesso ad affrontare sfide in termini di discriminazione e disparità per quanto riguarda l’istruzione, il lavoro, l’assistenza sanitaria e l’alloggio. Integrandosi nelle società e nei mercati del lavoro europei i nuovi arrivati devono inoltre affrontare la sfida dell’apprendimento di una nuova cultura, una nuova lingua e di nuove norme sociali” (enfasi aggiunta). L’inserimento nella società di accoglienza può, in certi casi, determinare un conflitto tra le norme sociali che regolano la propria cultura di appartenenza e quelle a cui la cultura dominante fa riferimento.
La diversità rivendicata di Paola Pannia è un lavoro che pone al centro questo incontro/scontro tra culture differenti, con particolare riferimento alla diversità culturale, dall’autrice intesa come pari dignità del soggetto e il proprio conseguente diritto a salvaguardare, mantenere e promuovere la propria appartenenza culturale. Un riconoscimento, quindi, che passa sia per il piano politico che giuridico. Ma quali risposte giuridiche, quali norme e quali politiche hanno adottato le democrazie costituzionali per governare la diversità?
Il libro si pone nel solco degli studi sul “giudice antropologo” (Ruggiu, 2016) e, per rispondere a questa cruciale domanda, l’autrice organizza il proprio studio in quattro parti. Nella prima parte, Paola Pannia introduce la cornice teorico-concettuale necessaria per comprendere la rilevanza data alla diversità culturale dal diritto penale di Italia e Regno Unito, due casi-studio scelti appositamente dall’autrice non solo per colmare una lacuna all’interno del filone degli studi sul governo delle differenze culturali, ma anche per favorire la comparazione di due sistemi e approcci alla diversità culturale antitetici tra loro. Dopo aver delineato la dimensione internazionale ed europea in cui la diversità culturale ha ottenuto riconoscimento giuridico, a cui qui si è solo brevemente accennato, l’autrice si sofferma sull’interpretazione giudiziale e sulle principali difficoltà che il giudice è chiamato ad affrontare in caso di richiesta di trattamento differenziato su base culturale avanzata, nell’ambito di un procedimento penale, dall’imputato appartenente ad una minoranza. Il lavoro si concentra sulle sentenze di diritto penale emesse tra il 1998 e il 2018 nell’ambito dei cosiddetti reati culturalmente motivati; quindi, comportamenti accettati od incoraggiati nella cultura del gruppo minoritario di appartenenza che tuttavia vengono considerati reati nell’ordinamento vigente.
La seconda parte del volume opera un’analisi comparatistica della normativa e casistica della giurisprudenza penale in Italia e Regno Unito (in particolare, con riferimento al sistema inglese) dei reati culturalmente motivati. Nonostante i due ordinamenti appartengano a due famiglie giuridiche diverse (civil law e common law), ciò non ha condotto ad un trattamento significativamente diverso del dato culturale da parte dei legislatori e giudici italiani e britannici. Infatti, in entrambi i casi, Paola Pannia riscontra che la gestione della diversità culturale è lasciata essenzialmente nelle mani dei giudici: “in assenza di indicazioni provenienti dal piano legislativo, i giudici, privi della formazione necessaria e, tuttavia, obbligati a pronunciarsi sulle istanze loro presentate, si trovano disorientali e soli di fronte ai delicati, inediti, difficili dilemmi sollevati da questi casi”. Nei due decenni di riferimento, la solitudine dei giudici ha comportato esiti sostanzialmente differenti delle pronunce sui casi di reati culturalmente motivati, in cui la diversità culturale i) per la maggior parte dei casi sia in Italia che nel Regno Unito viene ignorata o ritenuta irrilevante ai fini del reato; ii) conduce ad una mitigazione della pena fino alla totale assoluzione; iii) viene considerata una aggravante nella commissione del reato. Ciò che desta preoccupazione è che, a spostare l’ago della bilancia verso la colpevolizzazione o assoluzione dell’imputato, sembrano intervenire, da un lato, le convinzioni e l’etica della cultura dominante nel quale il giudice è inserito e, dall’altro, approcci “simbolici e semplificanti” alla diversità culturale, in assenza di un esame attento ed approfondito della diversità culturale nel contesto di riferimento. La solitudine dei giudici italiani e britannici di fronte al dato culturale dell’imputato è ulteriormente acuita dallo scarso, per non dire nullo, impiego della perizia antropologica durante la fase istruttoria, considerata dai più poco credibile ed obiettiva.
Nella terza parte del suo lavoro, l’autrice punta quindi i riflettori su una grave lacuna nei due Paesi presi a riferimento: non solo la diversità culturale non trova il giusto riconoscimento nello spazio legislativo, ma nemmeno in quello giurisprudenziale, in cui si assiste a tecniche argomentative di semplificazione e negazione dell’elemento culturale per evitare di affrontarne l’oggettiva complessità. Il superamento di questo doppio stallo è condizionato, secondo l’autrice, da tre fattori, al centro dell’ultima parte del suo scritto. Innanzitutto, il reciproco rispetto delle diverse identità e culture è fondamentale per garantire la salvaguardia dei diritti delle minoranze. Pertanto, è essenziale che la diversità culturale trovi esplicito riconoscimento nello spazio pubblico e legislativo. In secondo luogo, la diversità culturale che viene rivendicata dall’imputato durante il processo penale non può essere lasciata interamente nelle mani dei giudici; al contrario, sono necessarie indicazioni legislative precise che ne guidino l’interpretazione giudiziale in modo costituzionalmente orientato. In terzo luogo, Paola Pannia sostiene la necessità di un ripensamento della cultura e della formazione giuridica che, in un mondo sempre più interconnesso in cui la migrazione ha assunto un carattere strutturale in molte democrazie costituzionali, dovrebbe vertere verso un’educazione giuridica che affronti il tema della diversità culturale con senso critico e aperto alla collaborazione con discipline non-giuridiche, quali la psicologia e l’antropologia, che possono contribuire in maniera essenziale alla composizione del quadro culturale in sede penale. Da tali considerazioni emerge il brillante tentativo dell’autrice di revisionare i rapporti tra cultura e diritto, sensibilizzando gli studiosi e gli interpreti del diritto alla conoscenza e al rispetto del dato culturale, scevro da derive relativistiche.