La Corte costituzionale effettua il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE anche in sede di giudizio incidentale: non c’è mai fine ai nuovi inizi

(sull’ordinanza n. 207 del 2013 della Corte costituzionale)

Con l’ordinanza n. 207 del 18 luglio scorso, la Corte costituzionale è tornata, a distanza di cinque anni dalla celebre ordinanza n. 103 del 2008, a effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. La novità, questa volta, sta nel fatto che i giudici della Consulta hanno chiamato in causa la Corte di Lussemburgo in occasione di una controversia sollevata in sede di giudizio incidentale, laddove, come si ricorderà, nell’occasione precedente la ragione che aveva spinto ad infrangere il tabù del rinvio pregiudiziale muoveva dalla peculiare natura del giudizio in via principale: in particolar modo dal fatto che, in esso, mancasse un giudice in grado di farsi carico dell’onere di effettuare il rinvio e quindi la Corte fosse, di necessità, da intendersi come autorità giurisdizionale ai sensi del Trattato in quanto “unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia”.

Questa circostanza aveva spinto sin da subito molti dei commentatori a ritenere che la portata di quella ordinanza non potesse che restare confinata nello spazio del giudizio in via principale, senza quindi che quelle ragioni potessero trovare spazio nel giudizio in via incidentale, nel quale è al giudice a quo che, finora, la Corte ha sempre addossato l’onere di attivare lo strumento del rinvio pregiudiziale. L’ordinanza in discussione, invece, ribadisce la portata più generale dell’autoattribuzione della qualifica di organo giurisdizione nazionale ai sensi del Trattato operata nel 2008, estendendola anche alla sede del giudizio incidentale. Questa estensione, tuttavia, viene operata dalla Corte costituzionale perseguendo, come già avvenuto in molte occasioni sui temi che investono i rapporti con l’Unione europea, una linea di ricercata continuità con la propria giurisprudenza pregressa. Continuità che in questa occasione emerge nell’affermazione per cui, in linea di principio, la competenza a sollevare il rinvio pregiudiziale non provoca, almeno a prima vista, una sostanziale alterazione del riparto di funzioni tra giudici e Corte come delineato sino ad oggi, perché si inquadra nel controllo che la Corte stessa opera sul rispetto, da parte della normativa primaria interna, delle norme dell’Unione prive di effetto diretto. Se queste ultime, infatti, quando confliggano con un atto primario interno “rendono concretamente operativi i parametri di cui agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.”, a conclusioni diverse si giunge, come noto, per le norme UE dotate di effetto diretto, in relazione alle quali la competenza a risolvere il contrasto, eventualmente ricorrendo al rinvio pregiudiziale, resta saldamente nelle mani del solo giudice della controversia (a meno che, beninteso, dalla eventuale disapplicazione possa scaturire una lesione dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale).

Una simile prospettiva di lettura “continuista” non può tuttavia non tenere conto di quanto l’adozione dell’ordinanza n. 207 del 2013 incida, in una direzione questa volta fortemente innovativa, su altri presupposti che hanno sinora presieduto al rapporto tra Corte costituzionale, giudici e Corte di giustizia.

Innanzi tutto, va osservato come con questa pronuncia la Corte costituzionale mostri di voler tenere aperto un canale di interazione con la Corte di giustizia più attento, rispetto al passato, a valorizzare i presupposti sostanziali della propria giurisdizione rispetto alle questioni meramente definitorie, prima fra tutte quella attinente alla possibilità di definirsi “autorità giurisdizionale”. Mentre in passato, infatti, la Corte aveva alternato, ad un registro più sensibile alle esigenze sostanziali di interazione (penso all’obiter dictum contenuto nella sent. n. 168 del 1991: “ferma restando la facoltà di sollevare anch’essa questione pregiudiziale di interpretazione …”), una più netta preclusione al dialogo, incentrata sulla non riconducibilità del suo ruolo a quello di un giudice (più volte ribadita a partire dall’ord. n. 536 del 1995), la strada aperta dalle due pronunce del 2008 (nn. 102 e 103) e ribadita oggi con l’ord. n. 207 cit. mostra una Corte sempre più attenta a tenere in considerazione le conseguenze che potrebbero discendere da un suo rifiuto, sia per la tenuta del rapporto tra i due sistemi (nazionale e dell’Unione), sia per la creazione di eventuali vuoti di tutela. La stessa affermazione secondo cui “deve ritenersi che questa Corte abbia la natura di «giurisdizione nazionale» … anche nei giudizi in via incidentale”, formulata in termini così apodittici e senza ulteriori spiegazioni, non potrebbe essere compresa se non richiamando quell’esigenza sostanziale, già chiaramente espressa nel 2008 e oggi amplificata, rivolta a salvaguardare la sua interazione con la Corte di giustizia laddove essa si renda necessaria in quanto unico strumento per porre rimedio ad un contrasto tra sistemi. Un’esigenza, quest’ultima, rispetto alla quale l’interrogativo posto in astratto su come la Corte debba qualificarsi perde sempre più di rilievo.

Un’altra conseguenza innovativa, forse la più rilevante, che discende da questa pronuncia riguarda poi la questione della c.d. “doppia pregiudizialità”, intesa in particolare nel senso più stretto dell’espressione, vale a dire come eventualità che il dubbio concernente l’interpretazione di una norma dell’Unione si compenetri con la questione di legittimità costituzionale, entrando così a farne parte. È noto che casi del genere sono stati sinora sempre risolti nel senso dell’inammissibilità, disposta dalla Corte nel presupposto dell’irrilevanza della questione. Al giudice incombeva prima l’onere di rivolgersi alla Corte di giustizia e, solo dopo aver esperito questo rimedio e ricorrendone ancora i presupposti, alla Corte costituzionale. Una scelta, quest’ultima, ritenuta eccessivamente rigida e quindi criticata in dottrina, per la quale ciò nonostante la Corte aveva optato anche in quei casi in cui l’efficacia diretta era tutta da verificarsi, in assenza di una pregressa giurisprudenza sul punto della Corte di giustizia (cfr. ordd. nn. 415 del 2008 e 100 del 2009). Alla luce di ciò, diventa quindi inevitabile chiedersi quale sia la ragione che, nel caso di specie, ha spinto la Corte a superare la propria precedente giurisprudenza restrittiva e a sollevare essa stessa il rinvio pregiudiziale.

La ragione, a ben vedere, merita di essere individuata nella specificità del caso sottoposto al suo giudizio e nel rilievo sostanziale che ad esso deve essere attribuito. La questione sollevata dai giudici a quibus riguarda l’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 che, nel disciplinare il conferimento delle supplenze per la copertura dei posti vacanti dei docenti e del personale ATA della scuola, viene ritenuto in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, che chiama gli Stati ad introdurre nel proprio diritto interno norme idonee a prevenire il ricorso continuato a contratti a tempo determinato. Il punto sostanziale attiene alle condizioni e ai limiti di applicabilità dei principi contenuti nella direttiva nel settore pubblico e, in particolare, nell’ambito dell’organizzazione scolastica. Un ambito nel quale – osserva la Corte – insopprimibili esigenze di organizzazione del servizio impongono all’autorità di dotarsi di strumenti, come le supplenze annuali e temporanee, che le consentano di rispondere alle variazioni demografiche della popolazione scolastica e, così, di garantire un più adeguato soddisfacimento del diritto all’istruzione. La questione di costituzionalità, sollevata in relazione ai soli artt. 11 e 117 cit., finisce inevitabilmente per intersecare principi di rilievo costituzionale, primi fra tutti quelli del concorso pubblico e il diritto all’istruzione, e impone di verificare, di conseguenza, se e fino a che punto la salvaguardia di questi ultimi possa valere quale “ragione obiettiva” in grado di giustificare una legislazione statale derogatoria rispetto ai principi della direttiva.

È principalmente in virtù del coinvolgimento di questi principi, pertanto, che si può comprendere la scelta della Corte di non sanzionare con l’inammissibilità la mancata attivazione del rinvio da parte dei giudici, ma anzi di fare proprio il dubbio interpretativo e di innestare in esso ragioni di ordine propriamente costituzionale, in quanto tali non adeguatamente veicolabili dai rimettenti che, nella loro prospettiva, giustamente avevano ritenuto “non esserci dubbi interpretativi sulla pertinente normativa comunitaria tali da richiedere il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia”. L’attivazione del rinvio da parte della Corte costituzionale, in altre parole, si giustifica in ragione del rilievo costituzionale dei beni e dei principi che si contrappongono al dispiegarsi del contenuto della direttiva nel diritto interno: beni e principi che richiedono di essere portati all’attenzione della Corte di Giustizia da chi, per il ruolo che assolve, è in grado di difenderne in modo più pieno le ragioni.

Ma se quindi è il coinvolgimento, nella soluzione della controversia, di questioni di ordine costituzionale a giustificare l’attivazione del rinvio pregiudiziale da parte della Corte invece che da parte dei giudici (come avvenuto sinora), proprio perché qui si riflette la specificità del suo ruolo, è legittimo allora chiedersi se sia ragionevole che questo strumento di interazione resti confinato al solo caso in cui vengano in discussione norme prive di efficacia diretta e non debba operare anche in quei casi, che sembrerebbero restare esclusi dalla ordinanza in questione, dove si verte intorno a norme comunitarie dotate di effetto diretto. E se ciò si dovesse ritenere inevitabile in base alla stessa impossibilità, in casi del genere, di instaurare il giudizio davanti alla Corte (in osservanza ai dettami posti con la sent. n. 170 del 1984), non può non osservarsi come il presupposto su cui quell’indirizzo si fonda – cioè l’autonomia del circuito giudici nazionali-Corte di giustizia rispetto alla Corte costituzionale – troverebbe una ulteriore, significativa, smentita proprio in questa ordinanza, che ha dimostrato come il coinvolgimento di principi costituzionali rappresenta una ragione sufficiente per far rientrare la Corte costituzionale in quel circuito (senza, per questo, arrivare all’ipotesi estrema e sempre più depotenziata dei controlimiti).

Un ultimo punto, destinato verosimilmente a sollevare molti interrogativi, riguarda infine la natura obbligatoria o facoltativa del rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte costituzionale in quanto giudice nazionale di ultima istanza. Il riconoscimento di un obbligo, in capo alla Corte, di effettuare il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, par. 3, TCE (oggi art. 267, par. 3, TFUE) veniva giustificato nel 2008 dalla peculiare natura del giudizio in via principale, nel quale la Corte è ritenuta giudice non solo di ultima, ma di unica istanza, sia perché contro le sue decisioni non è ammessa alcuna impugnazione, sia perché in quel giudizio “manca un giudice a quo abilitato a definire la controversia” (punto 8.2.8.3. della sent. n. 102 del 2008).

Ora, nel caso del giudizio in via incidentale, sussiste solamente uno di questi due requisiti che portano a ritenere “di ultima istanza la sua giurisdizione”, tenuto conto che in capo al giudice a quo rimane sempre la facoltà (e in taluni casi l’obbligo) di farsi carico di effettuare il rinvio pregiudiziale. Seppure, in questa chiave, si potrebbe dubitare della piena equiparazione tra un giudizio che è e resta incidentale, qual è quello della Corte, ad un giudizio di unica (e quindi ultima) istanza, sembrerebbe che la questione sia stata risolta dalla stessa ordinanza n. 207 del 2013, secondo la quale “deve ritenersi che questa Corte abbia la natura di «giurisdizione nazionale» ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea anche nei giudizi in via incidentale”.

L’effetto che ne deriverebbe è, con tutta evidenza, quello di una Corte costituzionale sempre soggetta all’obbligo di effettuare il rinvio, con tutte le conseguenze problematiche che si possono immaginare in termini di irrigidimento dei rapporti (ancora esili ed incerti) tra le due Corti. Ciò nonostante, anche in questo caso il problema, rimasto finora tutto di definizione dell’identità del giudizio incidentale, può essere in fondo sdrammatizzato, come dimostrano le applicazioni pratiche successive al 2008, in cui non mancano casi in cui la Corte ha variamente richiamato, nei giudizi in via principale, le ipotesi previste dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (in particolare le dottrine dell’acte claire e dell’acte éclairé) per sottrarsi all’obbligo di rinvio (ad es. sentt. nn. 439 del 2008 e 16 del 2010).