L’installazione “ex Ilva” dopo la sentenza della Corte di giustizia UE: le emissioni climalteranti tra interesse “strategico” e generazioni future

In data 25 giugno 2024, è stata pubblicata l’attesa decisione della Corte di giustizia della UE sui c.d. “decreti salva Ilva” (Causa C-626/22). Rispondendo a tre quesiti pregiudiziali del Tribunale per le imprese di Milano, dove pende la prima class action italiana contro il colosso siderurgico (per una ricostruzione, si v. F. Laus, La saga Ilva all’attenzione della Corte di Giustizia), il Giudice lussemburghese ha sostanzialmente bocciato, perché contrarie al diritto europeo, le «ripetute proroghe» italiane delle attività industriali (appunto i c.d. “decreti salva Ilva”), in presenza di «individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana», affermando non solo la doverosità del riesame dell’autorizzazione all’esercizio dell’installazione considerando, «oltre alle sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi, tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale», ma anche la possibilità di sospensione delle attività, in assenza di siffatte verifiche o di riscontri problematici per la tutela della salute e dell’ambiente.

È una sconfitta sonora su tutti e quattro i fronti delle difese dello Stato italiano e dei privati convenuti (Ilva Spa in Amministrazione Straordinaria, Acciaierie d’Italia Holding Spa, Acciaierie d’Italia Spa):
– quello di reputare l’attività privata “ex Ilva” sottratta agli obblighi europei, perché contenuti in direttive vincolanti solo gli Stati;
– quello dell’invocazione del bilanciamento, avallato dalla Corte costituzionale nella famosa decisione n. 85/2013, per giustificare che «l’adozione delle norme speciali applicabili all’Ilva deriverebbe da una ponderazione tra gli interessi in gioco, vale a dire la protezione dell’ambiente, da un lato, e quella dell’occupazione, dall’altro» (come si legge in sintesi al par. 129 della sentenza);
–  quello dell’inquadramento riduzionistico della “protezione dell’ambiente” ai soli profili emissivi indicati in autorizzazione, senza alcuna considerazione del fatto che «i grandi impianti di combustione contribuiscono considerevolmente all’emissione di sostanze inquinanti nell’atmosfera, che hanno gravi ripercussioni sulla salute umana», e non solo sull’ambiente, come pur dichiarato dalla normativa europea;
– quello consequenziale di escludere dai presupposti dei provvedimenti nazionali tanto il danno sanitario “reale” quanto gli impatti anche solo “potenziali” sulla salute umana, nonostante la condanna già ricevuta, sempre sulla vicenda “ex Ilva”, dalla Corte europea dei diritti umani (sentenza “Cordella et al.” del 2019), in forza proprio di studi scientifici su quegli impatti reali e potenziali (sulla giurisprudenza della Corte si v. in questo blog Greco).

Il primo fronte di difesa è stato facilmente demolito dalla Corte di giustizia, in ragione del fatto che, nel diritto europeo, sono assimilabili a uno Stato membro anche gli «organismi o entità, anche se disciplinati dal diritto privato, che sono soggetti all’autorità o al controllo di un’autorità pubblica o che sono stati incaricati da uno Stato membro di svolgere un compito di interesse pubblico», a maggior ragione se rubricato come “strategico” (par. 60 ss.). L’ “interesse strategico nazionale”, da formula magica cavalcata dal legislatore italiano per legittimare il regime derogatorio del siderurgico tarantino, è degradato a boomerang, tradotto nel motivo della sottoposizione dell’impresa a tutti i vincoli europei.
Sugli altri tre fronti, il giudice unionale smantella l’uso aziendale del bilanciamento costituzionale, dai più abusato in quest’ultimo decennio di agonia tarantina (su cui, si v. un accenno in Carducci, La fine dell’uso “aziendale” della Costituzione nella saga ex Ilva). Tale bilanciamento, infatti, deve fare i conti con il parametro unitario degli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Se l’art. 35 stabilisce che deve essere garantito un «livello elevato di protezione» della salute umana, lo stesso criterio è indicato dall’art. 37, per la tutela dell’ambiente. Pertanto, il bilanciamento serve ad “elevare” la tutela di salute e ambiente, non ad annichilirla o a sostituirla, come piattamente rivendicato dalla vulgata statale.

Per i grandi impianti di combustione che contribuiscono considerevolmente all’emissione di sostanze inquinanti, la “elevazione” della protezione si apprende dai paragrafi 109-122 della sentenza:
– è indispensabile un approccio di prevenzione,
– che valuti tutti gli «effetti significativi delle emissioni sull’ambiente»,
– tenendo conto «di tutte le fonti di inquinanti e del loro effetto cumulativo»,
– e che assuma come «oggetto», oltre alle «sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi», anche «tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale di tale installazione».

La nitida distinzione tra “fonti di inquinanti”, “sostanze”, “emissioni” ed “effetti significativi delle emissioni sull’ambiente” è determinante. Essa non consiste in una classificazione tassativa o formalisticamente chiusa dentro il procedimento di autorizzazione inziale. Diventa totalmente aperta, in nome appunto del duplice «livello elevato di protezione» della salute e dell’ambiente, a «tutte [le sostanze] oggetto di emissioni scientificamente note come nocive».

È questa la più significativa novità della sentenza. Una clausola onnicomprensiva e includente è abilitata dalla Corte per favorire una lettura della questione delle emissioni industriali, da parte dei giudici nazionali, non più appiattita sul riduzionismo delle singole discipline di settore.
Ma allora quali sono «tutte [le sostanze] oggetto di emissioni scientificamente note come nocive»?
La risposta non può che essere triplice, nella conformità con il riparto di competenze ex artt. 4, 191 e 193 TFUE. “Tutte” significa:
– quelle già previste come nocive, dunque dannose, dalle fonti europee, anche quando non riguardanti i parametri dello specifico provvedimento autorizzatorio;
– quelle che la scienza rende “note” come dannose;
– infine quelle che il diritto interno, in nome del medesimo duplice «livello elevato di protezione» della salute e dell’ambiente, contempla come dannose, in aggiunta (aggiunta ammessa dall’art. 193 TFUE) al diritto europeo.

Da quel “tutte”, quindi, non si può escludere nulla; neppure le “sostanze” oggetto di emissioni climalteranti, ovvero i gas serra (in primis, CO2 e CH4)
Il dato scandisce una constatazione significativa per il prosieguo del contenzioso davanti al Tribunale di Milano, dove i ricorrenti hanno lamentato – tra gli altri diritti lesi – quello umano al clima stabile e sicuro (come ricordato dalla stessa Corte di giustizia nel suo paragrafo 37), vincolando di conseguenza il giudice, in forza dell’art. 112 Cod. proc. civ., a esprimersi in merito.

I gas serra industriali sono sostanze “nocive” all’ambiente e alla salute.
Lo dice inequivocabilmente la scienza, con i Report dell’IPCC, dato che essi alterano la loro concentrazione atmosferica, destabilizzando il sistema climatico e proiettandolo oltre le soglie di sicurezza, fissate dagli Stati nell’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015.
Lo dicono gli Stati, che alla COP28 del 2023 si sono impegnati ad abbandonarli.
Lo ammette anche il diritto europeo, dopo l’introduzione del principio DNSH (Do No Significant Harm), riaggiornato dai Regolamenti UE nn. 2020/852 e 2021/241, proprio in funzione della lotta al cambiamento climatico antropogenico, spiegando che il carattere “significativo” dell’effetto emissivo deve sempre essere rapportato anche «al fine di individuare il grado di ecosostenibilità di un investimento» (come quelli di cui ha bisogno l’installazione tarantina), ai criteri elencati dall’art. 3 del cit. Reg. 853.
Ma lo conferma pure l’ordinamento italiano, in particolare con la “Guida operativa per il rispetto del principio di non arrecare danno significativo all’ambiente”, adottata dalla Presidenza del Consiglio e allegata alla Circolare n. 22 del 14 maggio 2024, dove le fonti fossili sono escluse dalla compatibilità con il suddetto principio DNSH.
E lo fa proprio persino la Soft Law delle Linee Guida OCSE, applicabili alle imprese come quelle di Taranto in virtù del c.d. “nexus Stato-Imprese” stabilito dal Piano d’azione nazionale su impresa e diritti umani, con l’aggiornamento 2023 della Due Diligence sugli impatti climatici negativi, anche solo potenziali, parametrati agli scenari di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi.

Insomma, la valutazione preventiva dell’installazione “ex Ilva” o sarà olistica o non sarà; e, nell’essere olistica, non potrà non essere anche climatica.

Non esistono alternative a questo sbocco. Dopo questa sentenza, un esito differente risulterebbe formalmente illegittimo e inadeguato: illegittimo perché antieuropeo, visto che, in nome dell’attuazione del diritto europeo a garanzia della “elevata protezione” di salute e ambiente, si pretenderebbe di escludere le “sostanze” climalteranti, esplicito ostacolo di tale garanzia; inadeguato perché materialmente schizofrenico, come, tra l’altro, fatto presente da una recente, importante decisione della Corte suprema del Regno Unito, nel caso “R. (Appellant) v Surrey County Council and others” del 20 giugno 2024, pretendendo di considerare settoriali impatti ambientali e sanitari nell’omissione delle “sostanze” destabilizzanti il sistema climatico che li include.

Invero, sarebbe pure incostituzionale e in violazione della CEDU, se solo si pone attenzione a due importanti sentenze, quasi coeve a quella della Corte di Lussemburgo:
– la decisione della Corte costituzionale n. 105/2024, che affida a soggetti pubblici e privati il “mandato” di coniugare i riformati artt. 9 e 41 Cost. in prospettiva intergenerazionale per non «recare danno alla salute e all’ambiente» (in merito, rinvio a Carducci, Il duplice “mandato” ambientale);
– il famoso caso “climatico” Verein KlimaSeniorinnen (ricorso n. 53600/20), che nella medesima proiezione colloca proprio quell’art. 8 CEDU, già utilizzato nel citato caso “Cordella”, nella situazione di fatto dell’emergenza climatica in corso (cfr. per una sintesi, F. Gallarati, Il costituzionalismo climatico dopo KlimaSeniorinnen e in questo blog Guarna Assanti).

Il “combinato disposto” delle tre sentenze supreme (Corte UE, Corte EDU e Corte costituzionale) è convergente: se davvero si deve decidere sul futuro dell’installazione “ex Ilva” in nome della “elevata protezione” della salute e dell’ambiente, quel futuro non può estromettere gli impatti climatici e l’interesse anche delle generazioni future.