La Corte costituzionale mette un freno al deficit spending degli enti locali che danneggia le generazioni presenti e future
Le anticipazioni di liquidità che consentono agli enti locali in predissesto di finanziare il disavanzo di parte corrente, spalmandone l’ammortamento su un arco temporale di trent’anni violano il principio dell’equilibrio dinamico del bilancio al quale tutte le pubbliche amministrazioni sono costituzionalmente soggette, si pongono in contrasto con il principio di responsabilità politica degli amministratori locali di fronte ai propri elettori e contraddicono elementari principi di equità tra le generazioni presenti e future. A questa conclusione giunge la Corte costituzionale nella sent. 14 febbraio 2019, n. 18 (rel. Carosi), giudicando su una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Campania rispetto a una disposizione della cd. legge di bilancio per il 2017. La sentenza è di particolare interesse per ragioni processuali e sostanziali. Rispetto alle prime, la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimazione delle Sezioni regionali ad adire il Giudice delle leggi nell’ambito del controllo di legittimità-regolarità sui bilanci degli enti territoriali e, in particolar modo, nell’esercizio dei poteri di vigilanza sull’adozione e sull’attuazione delle misure di riequilibrio finanziario. Quanto alle seconde, invece, la Corte ha fissato alcuni punti fermi rispetto a talune scelte del legislatore statale in tema di contabilità pubblica, suscettibili di annacquare i vincoli costituzionali in materia di equilibri di bilancio.
- I fatti: il Piano di Riequilibrio Finanziario Pluriennale del Comune di Pagani
La disposizione censurata, introdotta dalla legge di stabilità 2016 e sostituita dalla legge di bilancio per il 2017, aveva modificato la disciplina del predissesto di cui al Testo Unico Enti Locali, autorizzando gli enti locali che avessero presentato o approvato il piano di riequilibrio finanziario pluriennale (PRFP) prima del rendiconto per l’esercizio 2014, ma che, al momento della presentazione o approvazione del piano, non avessero ancora effettuato il riaccertamento straordinario dei residui attivi e passivi, a rimodulare il predetto piano entro il 31 maggio 2017, scorporando la quota di disavanzo risultante dalla revisione straordinaria dei residui antecedenti al 1 gennaio 2015 e ripianandola entro trent’anni, anziché entro il termine originariamente previsto, compreso tra i quattro e i dieci anni.
Nel caso di specie, nel 2016 il Comune di Pagani (SA), a seguito dell’accertamento di un maggior disavanzo derivante dal riaccertamento straordinario dei residui, aveva presentato un PRFP con quote di ripiano annuali assai più gravose rispetto a quelle preventivate in origine. Se, infatti, nel 2014, l’ente locale si era impegnato a ripianare in 10 anni il disavanzo di amministrazione, ripartendolo in quote da 507.000 euro l’anno e in 5 anni il disavanzo da debiti fuori bilancio, accantonando quote annuali da 420.000 euro, a seguito dell’anzidetto accertamento del maggior disavanzo, il Comune avrebbe dovuto accantonare nel complesso 1,2 milioni di euro l’anno. Mentre il disavanzo da riaccertamento straordinario avrebbe però potuto essere ripianato in 30 anni con rate annuali da 678.000 euro ciascuna, sulla base di una disposizione eccezionale contenuta nel d.lgs. n. 118/2011, il disavanzo originario, derivante da una revisione dei residui antecedenti il 1 gennaio 2015 e condotta nell’ambito delle procedure di riequilibrio, avrebbe, invece, dovuto essere obbligatoriamente ripianato in 10 anni con accantonamenti annuali da 507.000 euro. Nel 2017, l’applicazione della disposizione di legge censurata consentiva al Comune di Pagani una rimodulazione del PRFP tale per cui il disavanzo originario derivante dalla revisione straordinaria avrebbe potuto essere ripianato nel medesimo arco temporale previsto per il disavanzo da riaccertamento straordinario, godendo così di una ripartizione annuale degli accantonamenti significativamente più contenuta (246.000 euro, anziché 507.000 euro). In questo modo, l’ente avrebbe acquisito, per così dire, un margine finanziario di misura pari a quella dei mancati accantonamenti (261.000 euro) che avrebbe potuto impiegare per spesa corrente attraverso anticipazioni di liquidità da restituire anch’esse in trent’anni.
In sede di controllo sull’attuazione del piano, la Sezione regionale riteneva di non poter accertare se l’ente locale avesse o meno rispettato gli obiettivi intermedi di sostenibilità finanziaria, nella misura in cui la Corte costituzionale non avesse prima risolto la q.l.c. della disposizione di legge de qua (ord. 28 febbraio 2018, rel. Sucameli), ritenuta in violazione degli artt. 81 e 97 Cost., autonomamente, e in combinato disposto con gli artt. 1, 2, 3 e 41 Cost., dal momento che essa avrebbe derogato al principio dell’equilibrio di bilancio, ampliando la capacità di spesa di un ente in condizioni di squilibrio, avrebbe sottratto gli amministratori locali dalla responsabilità politica dinanzi agli elettori, gravato di debiti le generazioni future, impedito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico-sociale che limitano l’uguaglianza e, infine, pregiudicato un tempestivo adempimento degli impegni finanziari nei confronti delle imprese creditrici e pertanto ne avrebbe compromesso l’esercizio dell’attività economica.
- La sinergia fra giudici contabili e Corte costituzionale
Prima di entrare nel merito, la Corte costituzionale ha risolto positivamente il problema relativo alla legittimazione a sollevare la questione di legittimità costituzionale da parte del giudice contabile in sede di controllo. Il riconoscimento del suo ruolo di “giudice” ai sensi della legge cost. n. 1/1948 e della legge n. 87/1953 è stato ricavato a partire da un’interpretazione evolutiva di un illustre precedente (sent. n. 226/1976, rel. Crisafulli) e, più nello specifico, dalla natura delle attribuzioni di controllo, affidate a un organo dotato di terzietà e imparzialità (artt. 100, co. 2-3), ma anche dalla loro connessione a funzioni giurisdizionali (art. 103, co. 2 Cost.). In particolare, dopo la riforma introdotta dal d.l. n. 174/2012, le Sezioni regionali non si limiterebbero a svolgere un controllo sulla gestione di tipo collaborativo, ma svolgerebbero anche un controllo successivo di legittimità-regolarità sui bilanci degli enti territoriali ancorato a rigidi parametri di legalità finanziaria. Nel caso oggetto del giudizio, esso si sostanzierebbe nel compito di vigilare sulla corretta esecuzione del PRFP ex art. 243-bis/quater T.U.E.L., adottando, a cadenza semestrale, un’apposita pronuncia nelle forme di una sentenza, articolata in motivazione in diritto e dispositivo. Tale procedimento costituirebbe anche l’unica sede in cui, in pubblica adunanza e nel contraddittorio con il pubblico ministero contabile (artt. 172 e sgg. c.g.c.), possono essere fatti valere gli interessi dell’amministrazione locale sottoposta al controllo. La sentenza potrebbe, peraltro, essere impugnata presso le Sezioni riunite della Corte dei Conti in speciale composizione e, se ciò non accadesse, essa risulterebbe «dotata di una definitività non reversibile», a differenza delle pronunce di controllo preventivo sugli atti del Governo, sede nella quale pure era già stata riconosciuta la legittimazione ad adire il Giudice delle leggi.
Nel merito, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità della disposizione in oggetto per contrasto con gli artt. 81 e 97, co. 1 Cost., atteso che essa avrebbe consentito a un ente locale in predissesto di diluire nel tempo gli sforzi per rimediare agli squilibri strutturali, destinando risorse finalizzate alla riduzione del disavanzo per la spesa di parte corrente. In questo modo, l’ente si sarebbe discostato dal principio dell’equilibrio tendenziale del bilancio e da quello ad esso connesso della copertura pluriennale della spesa e, allo stesso tempo, anche dal principio della responsabilità nell’esercizio del mandato elettivo dei suoi amministratori, visto che essi non avrebbero mai potuto presentarsi agli elettori «separando i risultati direttamente raggiunti dalle conseguenze imputabili alle gestioni pregresse». La “contabilità di mandato”, da qualche tempo al centro delle elaborazioni concettuali della Corte (cfr. sent. n. 184/2016, su cui G. Delledonne, 2016 e poi ancora sentt. nn. 228 e 247/2017), appare, insomma, come la cartina al tornasole del bilancio come “bene pubblico”: quanto più il bilancio è astretto a rendere conto delle principali decisioni di entrata e di spesa nell’orizzonte del mandato elettorale, tanto più esso assicura l’esercizio della funzione di controllo politico da parte degli elettori. Tali precetti non sarebbero desumibili soltanto dall’ordito costituzionale, ma troverebbero puntuale riscontro anche in una lettura sistematica delle fonti primarie che disciplinano la gestione dei disavanzi degli enti territoriali. Esse stabiliscono, infatti, che, una volta accertato un disavanzo di amministrazione, esso vada tempestivamente ripianato e, comunque, in un tempo mai superiore alla scadenza del mandato elettorale nel corso del quale si è verificato, così da evitare che esso produca il dissesto. Del resto, la disposizione censurata non potrebbe essere fatta salva neanche sulla base di un asserito rapporto di genere-specie con la disposizione di cui al d.lgs. n. 118/2011, che prevede l’ammortamento trentennale del disavanzo da riaccertamento straordinario dei residui. Mentre in quest’ultimo caso, la dilazione trentennale, «seppur in un lasso temporale anomalo», trarrebbe giustificazione dall’eccezionalità del passaggio a un nuovo sistema di contabilità, nel caso in oggetto, invece, la revisione avviene come fase necessaria della procedura di riequilibrio e non si spiega affatto con la sua natura transizionale. Pertanto, assimilando i due orizzonti temporali, il legislatore non avrebbe rimediato ad alcuna incongruenza ordinamentale, ma, al contrario, avrebbe consentito il differimento di un ripiano del disavanzo secondo una ratio esattamente opposta a quella sottesa all’istituto del predissesto, ledendo così anche il principio di ragionevolezza o, meglio, di razionalità di cui all’art. 3 Cost. Infine, la deroga al principio dell’equilibrio di bilancio sarebbe entrata in conflitto anche con un parametro già più volte evocato dalla giurisprudenza contabile, quello di equità intergenerazionale (cfr. G. Arconzo, 2018), declinato per l’occasione anche nella sua versione intragenerazionale. Rispetto a quest’ultima, che sembra potersi desumere da una lettura combinata degli artt. 2, 81, 97 Cost., misure che determinano uno squilibrio nei conti della finanza pubblica allargata finiscono per richiedere manovre finanziarie restrittive, destinate a riverberarsi in maniera negativa sulle fasce deboli della popolazione (rispetto agli effetti finanziari derivanti dal mancato rispetto dell’art. 81 Cost. cfr. in senso analogo la sent. n. 10/2015, Punto 8 del Considerato in Diritto). Rispetto al primo, invece, ulteriormente ricavabile dal principio in base al quale l’indebitamento deve essere finalizzato agli investimenti e non all’allargamento della spesa corrente (art. 119, co. 6 Cost.), le misure di riequilibrio graverebbero in modo sproporzionato «sulle opportunità di crescita delle generazioni future, garantendo loro risorse incerte per lo sviluppo».
Quanto agli effetti della declaratoria di fondatezza, di là dall’incertezza circa la sua applicabilità agli enti locali per i quali i piani di riequilibrio siano già stati approvati, la Corte costituzionale si fa carico di segnalare che, di fronte all’impossibilità di alcuni enti territoriali di risanare i conti in maniera strutturale attraverso l’istituto del predissesto, il legislatore potrà prevedere soluzioni normative alternative anche al dissesto, le quali, però, dovranno prescindere dalla natura interlocutoria tipica delle sanatorie. Il riferimento all’adeguatezza di una soluzione ordinaria e non eccezionale, che appare persino più esplicito nel comunicato stampa, chiama in causa la corretta operatività del Fondo di Solidarietà Comunale (FSC), principale strumento di perequazione finanziaria tra gli enti territoriali, ad oggi dotato ancora di scarsa efficacia.
- Conclusioni
A ormai più di quarant’anni dalla riforma dei trasferimenti statali, con la quale i cd. decreti Stammati posero fine alla prassi diffusa della spesa in disavanzo degli enti territoriali e della conseguente assunzione di mutui per il loro ripiano, la Corte costituzionale ha arginato un’analoga spirale di indebitamento, fatta di anticipazioni di liquidità da restituire in un arco trentennale per coprire spese di parte corrente, a loro volta autorizzate allo scopo di differire su un orizzonte temporale anch’esso trentennale la riduzione del disavanzo. La corretta contabilizzazione delle anticipazioni di liquidità, fenomeno centrale già nella sentenza n. 181/2015, con la quale la Corte costituzionale aveva riconosciuto la legittimazione delle Sezioni regionali di controllo a sollevare questione di legittimità in sede di parifica del rendiconto regionale, è destinata a impegnare ancora la Corte, investita proprio di recente di un’altra questione dalle Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti (ord. n. 5/2019, rel. Pischedda). Nell’ampliare le modalità di accesso al giudizio di legittimità costituzionale da parte delle Sezioni regionali di controllo, la Corte costituzionale ha, infatti, preparato il terreno per la remissione di nuove questioni aventi ad oggetto artifici contabili idonei a produrre un avvitamento finanziario di molti enti territoriali. Se in passato esse risultavano di rara giustiziabilità anche per la dubbia sussistenza di una legittimazione delle Sezioni di controllo a sollevare questione di legittimità – dovendo così essere filtrate perlopiù attraverso i giudizi in via d’azione (cfr. ad es. le sentt. n. 274 e 247/2017) – oggi, invece, anche grazie alla sofisticata impalcatura concettuale eretta a partire dalla revisione costituzionale degli artt. 81, 97, co. 1, 119, co. 1 e 6 Cost., rappresentano la testa di ponte per l’esercizio di controlli assai più penetranti sui bilanci, che, in quanto “beni pubblici”, debbono dar conto con trasparenza e veridicità dei reali sforzi di risanamento di ogni ente territoriale, Stato incluso.