Ilva: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione degli art. 8 e 13 della Convenzione
Con la decisione del 24 gennaio 2019, la Prima Sezione della Corte EDU si è pronunciata sul caso Cordella e al. c. Italia (ricorsi n° 54414/13 e 54264/15), condannando unanimemente lo Stato italiano per aver violato gli articoli 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (Diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione. I 180 ricorrenti, che avevano altresì invocato la violazione dell’art. 2 (Diritto alla vita), non preso in considerazione dalla Corte in quanto ricondotto al suddetto art. 8 (parr.93 – 94), sostenevano che le autorità nazionali non sarebbero state in grado di proteggere l’ambiente e la salute dei cittadini residenti nell’area circostante l’acciaieria Ilva di Taranto ed i rimedi giurisdizionali interni a disposizione sarebbero risultati inefficaci alla tutela dei loro interessi. Senza ricorrere alla procedura della sentenza pilota (come invece auspicato dal ricorso n° 54264/15), la Corte nel condannare lo Stato riconosce l’assoluta urgenza del recupero delle condizioni di salubrità del complesso industriale e delle zone limitrofe, invitando le autorità nazionali a mettere in atto nel più breve tempo possibile il piano contenente le misure necessarie ad assicurare la protezione ambientale e sanitaria della popolazione, nonché rinviando al Comitato dei Ministri (art. 46) per la definizione in termini pratici delle misure da adottare per assicurare l’attuazione della sentenza (parr. 177 – 182).
Sono intervenuti nel giudizio in qualità di terzi (art.36 par. 2 CEDU e art. 44 par. 3 Regolamento della Corte) l’ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente), Clinical Program (Università di Torino), nonché la società Riva S.p.a. Tuttavia le memorie di Riva S.p.a., gruppo cui l’Ilva ha fatto capo dalla privatizzazione avvenuta nel 1995 fino al commissariamento nel 2012, non sono state tenute in considerazione, successivamente riconoscendosi l’insussistenza delle condizioni previste per un intervento di terzo da parte del gruppo (art. 44 par. 5 Reg. Corte), che, come evidenziato dai ricorrenti, sarebbe stato interessato all’esito del processo. Dopo aver brevemente ripercorso le articolate vicende societarie dell’acciaieria più grande d’Europa, sorta a Taranto nel 1965 (parr. 8 – 12), i giudici di Strasburgo passano in rassegna numerosi studi scientifici realizzati da diversi enti e istituzioni, registri sull’incidenza di determinate malattie nella zona soggetta ad emissioni, nonché indagini sulla presenza di agenti inquinanti oltre le soglie consentite dalla legge. A tale ultimo riguardo, si rileva che le emissioni allo stato attuale si sono ridotte a causa della momentanea chiusura di una parte della cokeria, ma la situazione cambierà di nuovo non appena l’impianto riprenderà a lavorare a pieno regime, continuando a danneggiare l’ambiente e la salute delle persone. Dagli studi condotti emerge che i decessi per tumori, malattie del sistema circolatorio e altre patologie sono di gran lunga superiori alle medie regionali e nazionali (parr. 13 – 31). A tale proposito si richiama la decisione Smaltini c. Italia (ricorso n°43961/09), su cui la Corte ritorna in questa sede. Nel 2015 la Quarta Sezione aveva dichiarato l’irricevibilità del ricorso promosso ai sensi dell’art. 2 (Diritto alla vita) e dell’art. 6 (Diritto ad un equo processo). La ricorrente, oltre alle carenze individuate in relazione alle garanzie processuali, lamentava la sussistenza di un nesso causale tra le emissioni dello stabilimento Ilva e l’insorgere della sua leucemia. I giudici di Strasburgo avevano però motivato l’irricevibilità data la regolarità dell’attività svolta dal giudice penale interno e l’impossibilità di provare la causalità emissioni – malattia. La Corte rileva esplicitamente che, a differenza di Smaltini, nel caso in oggetto i ricorrenti denunciano l’assenza di misure statali volte a proteggere la salute e l’ambiente, ma constata che sì, fin dagli anni ’70, gli studi hanno dimostrato la sussistenza di un nesso tra esposizione ambientale alle emissioni inquinanti e insorgenza di malattie (parr.162 – 166). Tale passaggio non è esente da una latente ambiguità. La Corte infatti, pur prendendo atto delle risultanze scientificamente provate, sembra non voler smentire la giurisprudenza Smaltini, facendo leva sulla differenza del petitum. A ciò pare funzionale la stessa decisione di esaminare i fatti solo in relazione all’art. 8 e non anche all’art. 2, come richiesto dai ricorrenti, sulla base dell’argomentazione che “ces griefs se confondent” (par. 94).
Lo Stato italiano contesta la qualità di vittime dei ricorrenti, che può essere accertata solo a seguito di processi domestici, nonché il carattere particolare delle violazioni asserite, che sarebbe invece generale e quindi non sottoponibile alla Corte ma possibile oggetto di actio popularis e infine rileva che parte dei ricorrenti sono residenti in aree non sottoposte alle emissioni dell’Ilva. I giudici di Strasburgo allora chiariscono che, vista l’inesistenza di una disposizione convenzionale che garantisca una generalizzata protezione dell’ambiente in quanto tale, l’elemento che permette di individuare una violazione dell’art. 8 par.1 è l’esistenza di effetti negativi sulla vita privata o familiare di una persona, non potendo limitarsi l’analisi al solo peggioramento delle condizioni ambientali (parr. 100 – 101). Quanto ai Comuni soggetti alle emissioni nocive, una delibera del Consiglio dei Ministri del 30 novembre 1990 aveva classificato solo alcuni come “ad alto rischio ambientale”, ed è per questa ragione che una parte dei ricorrenti, appunto non residenti in questi Comuni e che non hanno dimostrato di essere stati personalmente lesi, non si ritengono legittimati al giudizio (parr. 102 – 108). Lo Stato sostiene inoltre che il ricorso non sia ricevibile per via del mancato esperimento dei rimedi interni in ambito penale, civile e costituzionale (parr. 110 – 113). I ricorrenti osservano che nessuno dei rimedi prospettati risponde alle loro esigenze, senza contare il fatto che, nonostante si fossero già costituiti parte civile in processi penali domestici, non abbiano comunque potuto ottenere alcun risarcimento per via della sottoposizione dell’Ilva al regime di amministrazione straordinaria (in part. par. 115). La Corte aggiunge che spetta allo Stato dimostrare che, all’epoca dei fatti, i rimedi interni fossero stati accessibili e in grado di offrire delle prospettive ragionevoli di successo e che, secondo i principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti, la sussistenza di particolari circostanze può esimere il ricorrente dall’obbligo di esperire tutti i rimedi interni (par. 122). Inoltre, il d.l. n°1/2015, contenente misure per l’attuazione di un “piano ambientale” (di cui si dà conto al par. 59 della sentenza) comporta l’immunità penale ed amministrativa all’amministratore straordinario, nonché al futuro acquirente dello stabilimento. E, come più volte indicato, il giudizio costituzionale non può essere considerato un rimedio richiesto dalla Convenzione, non essendo previsto nell’ordinamento italiano il ricorso diretto del singolo. Stando al d.l. n°152/06, invece, è solo il Ministro dell’Ambiente che può chiedere un risarcimento per il danno ecologico (parr.124 – 126).
Riguardo alle specifiche violazioni, conformemente alla giurisprudenza precedente, la Corte afferma che l’art. 8 non si limita a prevedere l’astensione dal compimento di atti di ingerenza arbitrari da parte dello Stato, ma pone a suo carico degli obblighi positivi, quali l’adozione di un impianto legislativo finalizzato a prevenire i danni all’ambiente e alla salute e a regolare adeguatamente ogni attività, pubblica o privata, pur mantenendo un certo margine di apprezzamento nell’equilibrata regolazione di interessi concorrenti dell’individuo e della società nel suo insieme (parr. 157 – 160).
L’art. 13 è invece collegato alla previsione dell’esaurimento dei ricorsi interni e si fonda sull’idea che il regime di tutela convenzionale sia sorretto dal principio di sussidiarietà, in base al quale i diritti devono essere garantiti primariamente a livello statuale (par. 176).
Richiamando l’art. 46 (Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), la Corte evoca il ruolo del Comitato dei Ministri nell’indicare allo Stato italiano le misure necessarie all’enforcement della decisione, specificando che la bonifica dell’impianto e della zona occupa “une place primordiale et urgente”(par. 182) e che il piano che prevede azioni volte ad assicurare la protezione dell’ambiente e della salute deve essere attuato il prima possibile. Infatti, a partire dalla fine del 2012 il Governo ha adottato una serie di decreti, denominati “Salva – Ilva”, che riguardavano esclusivamente l’attività dello stabilimento. Nel 2013 la Corte Costituzionale, a seguito di ricorso incidentale sollevato dal GIP di Taranto in relazione ad una parte di uno di tali decreti, che autorizzava la società a continuare la sua attività, malgrado le emissioni nocive, nonché a rientrare nel pieno possesso dei beni e dello stabilimento, nonostante la sottoposizione a sequestro giudiziario, dichiarava infondata la questione. Questo perché il decreto avrebbe da una parte tenuto conto del diritto al lavoro e dall’altro del diritto all’ambiente, garantito dal rispetto delle misure di controllo e prevenzione previste dall’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) del 2012. Con il DPCM del 29 settembre 2017 il termine per l’attuazione delle misure previste dal piano ambientale è stato esteso ad agosto del 2023. La Regione Puglia ed il Comune di Taranto hanno promosso di fronte al giudice amministrativo un’azione di annullamento (attualmente pendente) avverso tale decreto, prefigurando appunto le conseguenze negative per l’ambiente e la salute pubblica derivanti dall’estensione del termine. Sono stati anche numerosi i procedimenti penali che hanno visto gli amministratori dell’Ilva in qualità di imputati per danno ambientale, avvelenamento di acque o sostanze alimentari, rimozione od omissione di cautele sul luogo di lavoro, emissione di sostanze inquinanti. La Corte di Cassazione ha stabilito che il gruppo che amministrava l’acciaieria era colpevole per l’inquinamento dell’aria e lo scarico di materiali pericolosi, nonostante anche gli accordi, diretti a diminuire le emissioni, presi con le autorità locali a partire dal 2003. La Corte di Giustizia si è invece pronunciata sulla vicenda il 31 marzo 2011, dichiarando l’inadempienza dell’Italia agli obblighi individuati dalla direttiva 2008/1 EC, riguardante la prevenzione ed il controllo dell’inquinamento. Nel 2014 è stata aperta una procedura d’infrazione, nell’ambito della quale la Commissione ha chiesto alle autorità nazionali di rimediare ai seri problemi di inquinamento. Nel 2018 la Corte Costituzionale si è di nuovo pronunciata su uno dei decreti “salva – Ilva” del 2015, questa volta dichiarandone l’incostituzionalità in quanto le autorità avrebbero finito per dare un maggior peso alla continuazione dell’attività produttiva, a discapito della protezione del diritto alla salute e alla vita.
All’esito delle complesse e alterne vicende industriali, legislative e giudiziarie nelle quali è stata coinvolta l’Ilva di Taranto, la sentenza della Prima Sezione della Corte EDU segna sicuramente un passo in avanti nella tutela della salute e dell’ambiente. Tuttavia l’adozione di una sentenza pilota come auspicato nel ricorso proposto nel 2015, avrebbe costituito una più forte presa di posizione nei confronti di una situazione che denota sicuramente una disfunzione strutturale dello Stato italiano, che si trascina da oltre quarant’anni e che ha visto i diritti di migliaia di cittadini nella gran parte riconosciuti nelle aule di tribunale ma poi persistentemente lesi nei fatti.
Da ultimo, quanto alla richiesta di risarcimento dei danni morali avanzata dai ricorrenti, la Corte ha stabilito che la stessa constatazione della violazione costituisce di per sé un’equa riparazione sufficiente per il ristoro dei danni morali subiti e condanna l’Italia alla sola rifusione delle spese. La logica alla base di una soluzione del genere si potrebbe rintracciare nel passaggio in cui i giudici sottolineano che il petitum della causa in oggetto riguarda non il nesso causale emissioni – malattia ma l’incapacità dello Stato di provvedere alla tutela della salute e dell’ambiente ed il conseguente obbligo positivo di attuare al più presto il piano ambientale.
Una condanna morale anche per i Presidenti della Regione Puglia Vendola ed Emiliano