Il decreto riders fuori tempo massimo: un anno di attesa per consegnare un “pacco”
Un mese è trascorso dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto legge 3 settembre 2019, n. 101, “Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali”. Sebbene circolato già in agosto, la funambolica estate della politica ha finito per rubare la scena al provvedimento che pure rappresenta l’esito di un percorso su cui, fin dal suo insediamento, l’ex ministro del lavoro Di Maio aveva dedicato molte attenzioni.
Un percorso che si è rivelato fin da subito accidentato; non sono mancate le fughe in avanti, le retromarce plateali e un andirivieni di tavoli di confronto poco efficaci. Più di recente, era prevalsa la convinzione che si fosse imboccato un vicolo cieco. Tra l’altro, la misura volta a regolare le condizioni di lavoro dei riders, annunciata in modo fulmineo e altrettanto rapidamente ritirata, ha cambiato più volte forma e sostanza, tanto che ripercorrerne la traiettoria si rivelerebbe uno sforzo titanico, utile se non altro a restituire la sensazione di grande confusione. Vale la pena, tuttavia, segnalare la brusca inversione di marcia: da un avventato rimaneggiamento della nozione di lavoro subordinato, almeno secondo le bozze circolate in modo corsaro nel giugno 2018 (quasi in risposta alla sentenza torinese che, per la prima volta, affrontava il tema dell’inquadramento dei ciclofattorini delle app), fino all’intervento piuttosto “cosmetico” licenziato mentre si concludeva l’avventura governativa del Conte I. Nel frattempo, la vitalità del comparto della logistica dell’ultimo miglio non ha conosciuto battute d’arresto: i collettivi dei fattorini hanno mosso accuse gravi alle società di pasti a domicilio, in diverse aree del paese sono stati firmati contratti territoriali tra sindacati e piattaforme, gli organi di informazione hanno svelato aspetti intollerabili del “dietro le quinte” del business delle consegne.
Per non parlare dei tanti risultati ottenuti oltreconfine su diversi fronti. Ultima, solo in ordine cronologico, l’ambiziosa legge californiana che combatte apertamente il falso lavoro autonomo, mutuando un test sviluppato dalle corti per (ri)stabilire la natura del rapporto tra impresa e (presunti) contrattisti esterni. D’altro canto, le istituzioni europee hanno presidiato la questione con sforzi notevoli. Non solo l’inaugurazione del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, serie di iniziative che hanno rilanciato l’azione della Commissione Juncker, culminate nell’approvazione della Direttiva sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, ma anche un mandato chiaro per il commissario designato nella squadra della von der Leyen. Nel mezzo, un ritrovato protagonismo delle pratiche di mobilitazione. E un forte attivismo delle forze sociali, tradizionali o autoconvocate, che ha portato alla firma di accordi collettivi pilota o, con sempre maggiore intensità, all’organizzazione di momenti di protesta (da quella classica, lo sciopero, magari nella forma rivista del log-out di massa, fino a iniziative nella logica name-and-shame). Per quanto sommaria, questa rassegna evidenzia la complessità del tema e, cosa ancor più importante, contribuisce a sottolineare l’eterogenità del fenomeno, liquidato con l’etichetta “gig-economy”, che meriterebbe analisi meno superficiali e interventi meno estemporanei.
Quanto al testo, gli interventi rilevanti vanno in tre direzioni, una “rafforzativa”, una “salariale” e un’altra ancora “assicurativa”. Non va trascurato il fatto che, almeno stando alle indiscrezioni di stampa, diversi deputati e senatori (e persino qualche esponente del governo) sarebbero al lavoro per presentare emendamenti in vista della sua conversione. L’esegesi è quindi intrinsecamente effimera, allo stesso tempo c’è da sperare che possa contribuire all’opera di rielaborazione, evitando così che si consegni, se non alla storia quantomeno alle cronache parlamentari, un pacco di disposizioni “ben al di sotto delle aspettative” (Martelloni, 2019).
Più nel dettaglio, l’articolo primo interviene sull’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, uno dei decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act. Quest’ultimo prevede che “si applic[hi] la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La previsione aveva stimolato un acceso dibattito in dottrina, forse pure eccessivo se parametrato al ricorso effettivo a tale strumento. Cionondimeno, l’espediente che allarga il campo di applicazione soggettivo delle norme in materia di lavoro dipendente – in presenza delle condizioni appena richiamate – era stata interpretato come un dispositivo flessibile, in grado di fornire risposte tempestive anche ai dubbi sollevati circa l’ambiguo inquadramento dei cosidetti lavoratori delle piattaforme. Infatti, pur senza stravolgere le definizioni codicistiche, la formula della “collaborazione organizzata dal committente” ben si presta a disciplinare le situazioni in cui sussiste un reale potere organizzativo in capo alle società dell’economia on-demand. Tanto più che la pronuncia d’appello sulla vicenda dei fattorini della piattaforma Foodora, pur con qualche ambiguità, ha adottato questa interpretazione.
Il fatto che oggi il legislatore avverta la necessità di ribadire che tali disposizioni “si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali” si candida ad essere bollato come un intervento tra l’innocuo e il pleonastico. Non si spiega altrimenti la precisazione rispetto al campo di applicazione, condita dall’involontaria ironia dell’espressione “piattaforme anche digitali”. Val la pena ricordare che la norma del Jobs Act prevede delle eccezioni espresse al comma secondo (frutto di accordi collettivi “in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative di settore”, per le professioni intellettuali e per altri casi tassativi). Indubbiamente, nessun salvacondotto è stato previsto per i casi di organizzazione in forma algoritmica. Per questo, la precisazione “rafforzativa” con valenza generale si presta ad essere letta più come un messaggio neanche troppo cifrato agli interpreti, giudici in primis¸ che come un raffinato esercizio di tecnica legislativa additiva, a vantaggio di quanti eseguano prestazioni di natura personale innescate, facilitate o architettate da un’app. Che l’(etero-)organizzazione possa realizzarsi anche per mezzo di (talvolta opache) infrastrutture immateriali, e non semplicemente ad opera di manager in carne e ossa, è d’altronde un’ovvietà.
Il secondo capitolo dell’intervento, espressamente titolato “Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”, stabilisce livelli minimi di tutela, tanto salariali quanto assicurativi, efficaci, con sprezzo dell’urgenza, “decorsi centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Nonostante l’etichetta piuttosto ampia, il campo di applicazione è ristretto ai soli “lavoratori impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli” (quelli che non siano però collaboratori etero-organizzati, bisogna dedurre). Eppure, non passa giorno in cui agenzie europee e organizzazioni internazionali non provino a ribadire che quello delle consegne a domicilio è semplicemente il segmento più sgargiante di un fenomeno largo e variegato. Interventi così specifici sono perniciosi al pari di operazioni one-size-fits-all. Mentre i primi rischiano di segmentare ulteriormente la forza lavoro in nome di criteri labili e tavolta risibili (“ambito urbano”, “velocipedi”), tralasciando di intervenire una volta per tutte sul lavoro “casualizzato” e “non-standard”, i secondi ignorano gli elementi peculiari dei diversi settori e finiscono per rappresentare un indebito vantaggio per gli oligopolisti. Per di più, nonostante gli sforzi di confezionare definizioni quanto più efficaci possibile di “piattaforma digitale di lavoro”, il legislatore nostrano preferisce un’espressione tanto complessa quanto imprecisa (“programmi e procedure informatiche delle imprese che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, organizzano le attività di consegna di beni, fissandone il prezzo e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”).
Individuato l’ambito di applicazione ristretto, il decreto impone che “il corrispettivo per [tali] lavoratori di può essere determinato in base alle consegne effettuate purché in misura non prevalente” e rimanda gli accordi collettivi che “possono definire schemi retributivi modulari e incentivanti che tengano conto delle modalità di esecuzione della prestazione e dei diversi modelli organizzativi”. A ben vedere, la norma “aggancerebbe” la retribuzione a cottimo – vale a dire per consegna effettuata – ad un corrispettivo (minimo?) orario, erogato a patto di accettare almeno una chiamata per ciascuna ora lavorativa. Il risultato è un modello ibrido che, anche in ragione della litote, ha suscitato reazioni di insoddifazione da parte di un gruppo di diretti interessati. Nonostante le buone intenzioni di regolare l’eccessivo ricorso al pay-per-drop, sistema che accresce pressione e competizione – oltre ad essere corresponsabile di rischi in fatto di salute e sicurezza sul lavoro, la norma rischia di fissare un tetto alle consegne dagli esiti pratici discutibili. Non è un mistero che, accanto alle tante questioni sollevate, la rivendicazione di trattamenti retributivi più dignitosi sia emersa con nettezza da studi qualitativi e quantitativi. Stride che la soluzione approntata si limiti ad un meccanismo proporzionale che non affronta il cuore del disagio. Scontenta su diversi fronti, specie all’indomani della firma di alcuni pionieristici contratti collettivi che hanno ancorato il trattamento salariale a quello negoziato per il settore. Da ultimo, una doppia nota commendevole. Il testo prevede infatti una copertura assicurativa obbligatoria contro infortuni sul lavoro e malattie professionali per i contrattisti delle consegne, a carico delle imprese, tenute a rispettare il Testo Unico su salute e sicurezza sul lavoro.
In attesa della conversione, non si può tacere che la misura passata in rassegna brilli più per le omissioni che per le scelte. Grande è l’incongruenza tra l’ordine e la consegna. Mentre tutto tace in fatto di management by algorithms, discriminazione, protezione dei dati personali, orario e tempi di lavoro, salute e sicurezza, trasparenza dei ranking interni, forse c’è da apprezzare che, avendo rinunciato a trattare questi ed altri aspetti, il decreto legge abbia almeno limitato i danni.