Costituzionalismo e sopravvivenza umana*

*Intervento al Seminario pedagogico su “I diritti della terra”, marzo 2014, presso l’Universidade Eduardo Mondlane di Maputo – Mozambico

Devi rispettare la terra, perché non ti è stata donata dai tuoi padri, ma ti è stata prestata dei tuoi figli – Proverbio Masai

Esiste un profilo del tema della legalità in generale (e costituzionale in particolare) ancora poco presente all’attenzione dell’opinione pubblica, come anche nei dibattiti giuridici e nella formazione delle giovani generazioni: è il tema del rapporto tra regole costituzionali e sopravvivenza umana.

La Costituzioni non parlano di sopravvivenza umana: possono parlare di diritti intergenerazionali, sviluppo, giustizia distributiva nel tempo e nello spazio. Se hanno richiamato la sopravvivenza, lo hanno fatto immaginando la guerra come unico strumento di distruzione dell’umanità e la pace come unica “garanzia” di sopravvivenza (si pensi, del resto, all’art. 11 della Costituzione italiana): una prospettiva, come acutamente colto da Carl Shmitt nel suo sempre attuale Nomos della terra, che spesso occulta il nesso storico tra guerra e accumulazione di risorse naturali, pace e scambio di risorse naturali (W. Bello, Le guerre del cibo, trad. it., Modena, Nuovi Mondi, 2009), regole costituzionali e proprietà delle risorse naturali (D. Schneiderman, Constitutionalizing Economic Globalization: Investments Rules and Democracy’s Promise, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2008).


Non sembra quindi che “legalità” costituzionale sia sinonimo immediato di tutela della “sopravvivenza”.

Eppure non è così.

Alcune recenti esperienze del Sud del mondo, a partire dal cosiddetto “nuevo constitucionalismo andino” identificato dalle Costituzioni dell’Ecuador del 2008 e della Bolivia del 2009, segnano un forte cambiamento, quanto meno con riferimento a quattro passaggi:

–          la Costituzione non serve più soltanto a garantire le libertà individuali e collettive fondate sul primato della persona umana come soggetto della storia e della natura;

–          la Costituzione non si limita a incidere sulla dialettica sociale tra libertà e autorità, al fine di garantire i diritti, la proprietà, l’uso dei beni, il limite agli abusi di potere;

–          la Costituzione ha il compito di farsi carico anche della dialettica storica tra uomo e natura, in quanto elementi compresenti dell’ecosistema “geo-umano”;

–          pertanto la Costituzione non ripudia solo la guerra quale unico “male” per la sopravvivenza dell’umanità, ma anche lo sfruttamento indiscriminato e interessato della natura e del suo ecosistema.

È per questo che le due Costituzioni andine affermano il primato della “madre terra”: l’essere umano non è solo società; è innanzitutto natura; vive nella natura e con la natura; sicché i rapporti con essa non possono più essere lasciati all’indifferenza della legalità o alla sola regolazione in funzione degli interessi e dei beni di individui e comunità.

È un passaggio di grande rilievo: la natura è finalmente riconosciuta come soggetto costituzionale, in quanto, senza la natura, nessun essere umano e nessuna società possono sopravvivere.

Ma che cosa comporta questo messaggio?

La natura è divenuta ormai il Tertium necessario (accanto al binomio libertà-autorità) della dialettica costituzionale: si tratta di un Tertium per lungo tempo ignorato da tutte le teorie politiche e costituzionali, comprese quelle più critiche verso l’individualismo metodologico sotteso al costituzionalismo moderno, a partire dalle stesse tradizioni del socialismo utopico e del marxismo, che hanno sempre negato, salvo alcune eccezioni (come il Nuovo mondo industriale e societario di Charles Fourier o la Dialettica della natura di Friedrich Engels), ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della socialità. La natura, considerata senza diritti e soprattutto senza rappresentanza, perché appunto rubricata come “materia prima” della produzione, deve far parte dei “dilemmi costituzionali”; deve diventare “soggetto” delle decisioni interne a quei “dilemmi” (il che conferma la originalità della proposta del “nuevo constitucionalismo“, rispetto alle ridondanze marxiste del pensiero critico latinoamericano del Novecento).

Si tratta allora di discutere della “cattura costituzionale” (una inedita “Ergreifung” rispetto alle esperienze novecentesche degli Stati progressisti europei) dell’egoismo dei diritti e delle libertà (base delle idee occidentali di “felicità”), a tutela di una “armonia” non solo sociale, ma appunto “naturale”. Non a caso, “armonia” è parola fondante delle cosmogonie ctonie, mentre essa risulta ormai rimossa dal vocabolario morale e politico del pensiero occidentale, come magistralmente documentato da Leo Spitzer (L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea, trad. it., Bologna, il Mulino, 1967).

Del resto, sopravvivenza umana significa tante cose: vuol dire “esistenza”, ma anche appunto “armonia” e “persistenza” nel tempo (termini ricorrenti nelle due Costituzioni andine citate); significa pure alimentazione, cibo, acqua, aria. In una parola, sopravvivenza umana diventa sinonimo non di “risorse maturali” da sfruttare, ma di pari dignità costituzionale (da garantire) nel rapporto uomo-natura: è per questo che la sua tutela non può che realizzarsi attraverso il riconoscimento della natura come soggetto costituzionale insieme all’uomo. È questo il punto cruciale del costituzionalismo contemporaneo come normatività intergenerazionale (K.S. Ekeli, Green Constitutionalism: The Constitutional Protection of Future Generations, in 20 Ratio Juris, 3, 2007, 378 ss.).

È da qui che derivano nuovi principi costituzionali come la sovranità alimentare, il diritto al cibo, la qualificazione delle risorse naturali come “beni comuni” sottratti a qualsiasi proprietà pubblica o privata, la subordinazione del primato dell’economia alla salvaguardia della biodiversità.

In occasione del convegno del 2012 dell’American Geophysical Union, Brad Werner ha sostenuto, sulla base di una serie di complesse rilevazioni e proiezioni, che i “sistemi geo-umani” sono ormai diventati pericolosamente instabili. In poche parole, l’armonia millenaria tra essere umano e natura è venuta meno.

Anche le regole giuridiche, a partire proprio da quelle costituzionali, non possono rimanere indifferenti a questo dato epocale. Non è una questione di orientamento ideologico, ma appunto di sopravvivenza della specie umana. I modelli costituzionali di legittimazione dell’idea del primato dell’individuo, nella crescita e nello sviluppo materiale e spirituale della società, mettono a rischio – senza ulteriori ripensamenti – la stabilità ecologica del pianeta.

Del resto, non è un mistero per nessuno che la soluzione al dramma dei cambiamenti climatici (con da ultimo la catastrofe delle Filippine del novembre 2013) si scontri proprio con l’assenza di regole costituzionali globali che vincolino tutti gli Stati al rispetto di prospettive comuni di sopravvivenza umana, con buona pace di chi dichiara l’esistenza di un costituzionalismo cosmopolitico. Il Protocollo di Kyoto sulla tutela globale dell’ambiente non è stato ratificato dagli Stati Uniti. Il recente Vertice di Varsavia del 2013 si è chiuso con un nulla di fatto tra i 190 paesi partecipanti. I paesi con economie emergenti, compresi Cina, India e Brasile, non accettano le imposizioni di riduzione di gas serra al pari dei paesi industrializzati, utilizzando paradossalmente un argomento di equità intertemporale: le enormi disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo sono state determinate  da quei processi di sfruttamento della natura che hanno favorito la crescita della ricchezza e lo sviluppo economico a danno dei paesi più poveri. Stati colonizzatori di un tempo e  sfruttatori oggi delle ricchezze naturali del pianeta, responsabili del rilascio di quasi la totalità di anidride carbonica degli ultimi due secoli, non possono imporre sacrifici proprio agli Stati colonizzati e sfruttati, dove oltre un miliardo di persone continua a vivere ancora senza elettricità (M.T. Klare, Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna gli equilibri politici mondiali, trad. it., Milano, Edizioni Ambiente, 2010).

In un simile scenario, che è sotto gli occhi di tutti, il rapporto tra costituzionalismo, da un lato – con le sue rivendicazioni di libertà, giustizia, equità intergenerazionale – e natura come “geo-sistema” della sopravvivenza umana, dall’altro, segna ormai un enorme paradosso di civiltà: come è possibile pensare ad una società mondiale più equa, più giusta, più degna nel rispetto dei diritti e delle libertà, se gli Stati, le cui Costituzioni nazionali perseguono quei “valori”, fanno nulla o poco per scongiurare l’autodistruzione del pianeta?

La nota attivista canadese Naomi Klein parla giustamente di “potere rivoluzionario del cambiamento climatico” (N. Klein, Il clima rivoluzionario, trad. it. in Internazionale, 1028, 2013, 40 ss.). Sarà il clima a imporre una rivoluzione economica, sociale, e quindi anche costituzionale?

L’originalità impressa dalle citate Costituzioni di Ecuador e Bolivia, ora ripresa in contesti costituzionali emergenti di Africa e Asia, sembrerebbe dimostrare la fondatezza dell’ipotesi. La sopravvivenza umana nella (non contro la) natura deve diventare oggetto di legalità costituzionale, dentro gli Stati e fra gli Stati.

Non sembra che l’Occidente industrializzato abbia consapevolezza piena di questo snodo. Nel novembre 2013 si è svolto ad Edimburgo il primo “Forum mondiale sul capitale naturale” (www.naturalcapitalforum.com). Vi hanno partecipato le più importanti banche del pianeta tra cui UniCredit e Monte dei Paschi di Siena. Il Forum segue alla “Dichiarazione sul capitale naturale” dell’ONU, siglata a Rio de Janeiro nel 2012, per affermare che lo “sviluppo sostenibile” (il paradigma secondo cui la crescita economica prodotta dallo sfruttamento delle risorse naturali è “compatibile” con il rispetto della natura stessa in quanto entrambi i “fattori” – accumulazione ed equilibrio naturale – espressivi di “valori” e di “bisogni” bilanciabili) si realizzi anche attraverso l’attribuzione di valore monetario ai “servizi” resi dagli ecosistemi: acqua, aria, terra non possono quindi che avere un prezzo, perché solo così assumono “valore” e possono quindi essere tutelati.

Questa prospettiva apre una nuova fase del capitalismo mondiale ed è in assoluta contraddizione con le evidenze di rischio e instabilità, prima richiamate sul futuro dei “sistemi geo-umani”.

Infatti, parlare di “capitale naturale” significa ammettere che lo scambio di soldi o altri prodotti finanziari associati ai “servizi” degli ecosistemi produrrà profitto. La natura, da luogo di armonia come “madre terra” di tutti gli esseri viventi, compreso l’essere umano, si trasforma in strumento di profitto, in nome della sostenibilità. Non a caso questo “capitalismo della natura” si alimenta costantemente dell’immagine metaforica dell’oro: il petrolio è l’ “oro nero”; il carbone l’ “oro grigio”; il gas l’ “oro azzurro”; l’acqua l’ “oro blu”; la terra l’ “oro marrone”; grano, riso e soia l’ “oro bianco”; l’intero ecosistema l’ “oro verde” (A. Tricarico, La natura è sul mercato, in Altreconomia, 154, 2013, 25 ss.).

Esso, invece di contestare la logica di mercato, ormai onnipresente (M.J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare, trad. it., Milano, Feltrinelli, 2012), utilizza quella logica come pretesa soluzione della crisi degli equilibri “geo-umani”. Ecco allora che gran parte degli approcci di Legal Origins Theory, Public Choice Theory, Economic Analysis of Law, Law and Development pretendono di convincerci che la “neutra oggettività” del mercato (con i suoi “imperativi”: G. Di Plinio, Sulla Costituzione economica. Contributo per una teoria degli effetti costituzionali dell’economia, in Il Risparmio, 2008) sia l’unica a salvaguardare persino i beni fondamentali delle regole costitutive della convivenza, i cosiddetti “beni pubblici hobbesiani” (S.P. Hargreaves-Heap, M. Hollis, B. Lyons, R. Sugden, A. Weale, The Theory of Rational Choice, Cambridge, Blakwell, 1992) che reggono gli ordinamenti giuridici. Valga, per tutti, il riferimento al WTO-Centered Corporate Food Regime, che subordina la sicurezza e la sovranità alimentare degli Stati e delle loro popolazioni a un sistema di relazioni di mercato transnazionale, fondato sul profitto (Ph. McMichael, The Global Restructuring of Agro-Food System, Ithaca NY, Cornell Univ. Press, 1994).

Su questa linea, tra l’altro, si muove in parte anche la prospettiva del cosiddetto “diritto costituzionale del rischio” (A. Vermeule, The Constitution of Risk, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2014).

Eppure l’ “imperativo” di quella supposta “logica” non sembra confermato dai fatti. Recentemente il filosofo della scienza Donald A. Gillies, in occasione del Workshop on the Debate on Mathematical Modeling in the Social Science (Universidad de la Coruña, Ferrol Campus, 23-24 September 2010), ha scritto un interessante articolo sull’uso “oggettivo” della matematica in fisica e in economia, per verificare se il ricorso alla matematica in economia abbia prodotto spiegazioni o previsioni confermate dall’osservazione della realtà e quindi qualificabili come “oggettive” e “neutre”, al pari di quanto avviene per la fisica. Il risultato è stato desolante: ad esempio, il celebre Manuale di Paul Samuelson, uno dei classici della matematica economica ampiamente utilizzato nelle università di tutto il mondo, in tutte le sue pagine riempite di formule matematiche non fornisce alcun risultato derivato da conferme con dati osservati nella realtà comparata dei diversi contesti del mondo.

Pertanto, senza ricorrere alla “neutralità” econometrica, si provi a immaginare che cosa possa significare classificare la natura come “capitale”. Non vuol dire forse favorire speculazioni finanziarie mirate a far crescere i prezzi di alcuni generi di questo nuovo “oro”, come già si è verificato con l’esplosione speculativa sul grano e sul cibo in generale, verificatasi nel 2008, con connesse ulteriori ingiustizie e rinnovate povertà? Non indirizzerà anche gli investimenti di enormi capitali finanziari pubblici e privati, con tutte le implicazioni geopolitiche conseguenti? Non alimenterà persino una criminalità transnazionale, nella misura in cui i luoghi più incontaminati del pianeta saranno insidiati da interessi illeciti favoriti dalla debolezza istituzionale e sociale dei paesi periferici (le esperienze del narcotraffico e della deforestazione illegale dovrebbero insegnare qualcosa ai sostenitori della bontà “neutrale” del “capitale naturale”)? Si pensi, del resto, al fenomeno del Land Grabbing. Proprio a seguito della crisi indotta dalla crescita dei prezzi dei prodotti alimentari del 2007-2008, si sono intensificati gli investimenti – non tutti leciti – in terra, per realizzare coltivazioni agricole nei “paesi in via di sviluppo”. Oltre alle tradizionali imprese del cosiddetto Agribusiness, si aggiungono ora le aziende di agro-carburanti, la cui domanda mondiale è in costante crescita, spinta dalle politiche europee, che ne incentivano il consumo in nome dello “sviluppo sostenibile” (Rapporto ActionAid, Il pieno che lascia a secco i poveri. La politica europea sui biocarburanti e il suo impatto sulla sicurezza alimentare e l’accesso alla terra nei Paesi poveri, Giugno 2012, 54 ss).

In realtà, la logica “neutrale” sottesa all’affermazione del “capitale naturale” è proprio questa: di fronte alla crisi economica mondiale, il futuro “sostenibile” si giocherà sulle risorse naturali primarie e sull’accesso all’alimentazione, per cui chi avrà più terre per produrre alimenti o risorse naturali primarie sarà più ricco non solo nello sfruttamento ma soprattutto  nell’attribuzione di valore monetario e finanziario a quelle terre. I “capitalisti della natura” gestiranno l’agenda degli Stati sovrani e delle loro belle Costituzioni.

Dieci paesi al mondo, a partire dagli Stati Uniti a seguire con Malesia, India, Cina, Emirati Arabi Uniti fino all’Inghilterra, stanno acquistando l’80% delle terre del pianeta. La formula ricorrente è Earth Rapine che letteralmente significa rapina di terre, perché il prezzo di acquisto di questo “capitale naturale” è bassissimo a causa del basso sviluppo economico dei paesi dove abbondano le varie tipologie del nuovo “oro”.

Gli Stati del Sud del mondo, a partire dall’America Latina, hanno cominciato ad affermare principi costituzionali refrattari a questo mito della “neutralità” del “capitale naturale”. Lo fanno rivendicando l’emancipazione dal logos eurocentrico del diritto costituzionale che, come detto in apertura, non si è mai fatto carico del tema della sopravvivenza umana rispetto alla natura (O. Quijano Valnecia, Ecosimías. Visiones y prácticas de diferencia económico/cultural en contextos de multiplicidad, Quito, UASB-UC, 2012).

Che cosa significa in sintesi?

La colonizzazione moderna, guidata dall’Inghilterra, dall’Olanda e dalla Francia a partire dal XVII secolo, si è fondata su una concezione apparentemente nuova dell’uomo, incentrata sul primato della ragione come dominio sulla natura e strumento di edificazione della società tra uguali (J.M. Headlay, The Europeanization of the World, Princeton, Princeton Univ. Press, 2008). L’obiettivo dell’uguaglianza fissava una sola via all’umanità: il trionfo della ragione sulla natura. Alla selezione naturale delle specie non poteva che affiancarsi il darwinismo sociale di chi accetta la sfida della “modernità” (L. Sanchez, Darwin, Artificial Selection, and Poverty. Contemporary Implications of a Forgotten Argument, in 29 Politics and the Life Sciences, 1, 2010, 61 ss.).

Questa figurazione della società e del diritto costituzionale come frutto della “razionalità umana” ha dunque presupposto una vera e propria “dialettica della natura”, che ha fatto delle risorse naturali beni oggetto di valore e sfruttamento, e degli essere umani, individui da adattare alle esigenze della crescita e dello sviluppo. Modernità (rapporto di dominio razionale dell’uomo sulla natura) e modernizzazione (come adattamento dell’uomo alle esigenze del progresso, della crescita e dello sviluppo) sono assurti a sinonimi del futuro dell’intera umanità. Come accennato, fu Federico Engels, nel suo omonimo scritto del 1873-1882 (pubblicato postumo nel 1925), a denunciare l’ideologia dell’assunto: la presunta “razionalità” del nesso tra natura, sviluppo e istituzioni giuridiche non è “neutro” né “naturale”; riflette rapporti di dominio, egemonie interne all’umanità.

Si tratta allora di diventare consapevoli di questi nessi anche oggi, per non cadere nella trappola di visioni ireniche del rapporto tra legalità costituzionale e relazioni sociali, indipendentemente dal vincolo costruito con la natura e le sue risorse, e non lasciarsi affascinare dalla ideologia del “capitale naturale”. La natura non ha ideologie e non si può pensare di salvarla legalizzando in suo nome una nuova ideologia di dominio.

Se davvero il sistema “geo-umano” è in pericolo, è giunto il momento di rivendicare quella legalità costituzionale, che il Sud del mondo grida a nome della “madre terra”.

Questo è un compito che spetta alle Costituzioni come fonti nate per rivolgersi al futuro nella costruzione del patto intergenerazionale dell’umanità: per farla sopravvivere.

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