Una ragionevole apologia della supremacy. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale sul caso Taricco
1. L’ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017, con cui la Corte costituzionale ha rinviato alla Corte di giustizia dell’UE la questione pregiudiziale in merito all’interpretazione da accordare alla sentenza Taricco della stessa Corte (resa l’8 settembre 2015, in causa C-105/14), è una di quelle pronunce destinate a segnare la storia dell’integrazione giurisdizionale (e non solo) europea.
I fatti sono noti ma si possono brevemente riassumere nel modo che segue. Con la pronuncia appena citata, la Grande Sezione della Corte, adita dal Tribunale di Cuneo, ha dichiarato l’incompatibilità del limite massimo di durata del termine prescrizionale di cui agli artt. 160 u.c. e 161, co. 2, c.p., relativamente alle frodi in materia di IVA, con l’art. 325 TFUE, mirante a reprimere tale tipo di frodi in quanto lesive degli interessi finanziari dell’Unione. In particolare, il giudice europeo ha ritenuto contrario a detto articolo il meccanismo secondo il quale, per effetto delle norme del codice penale italiano, l’interruzione del termine prescrizionale per tale tipo di reati comporta il prolungamento del termine stesso limitatamente a un quarto della sua durata iniziale. Da un primo punto di vista, perché da ciò discende l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave che, se riferibili ad un numero considerevole di casi, minano l’effettività e la dissuasività degli obblighi repressivi gravanti sugli Stati ai sensi del par. 1 del suddetto articolo. Da un secondo punto di vista, perché l’attenuazione della risposta punitiva è in contrasto col regime previsto per la repressione di reati simili, ma lesivi degli interessi finanziari dello Stato, come nel caso dei delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco (sottratti al regime privilegiato di prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 c.p.). Di conseguenza, la Corte di Giustizia addossa al giudice nazionale, una volta che questi abbia appurato che dall’applicazione degli articoli in questione derivi un’impunità di fatto per casi di frode grave e un trattamento più favorevole rispetto ai reati che colpiscono gli interessi finanziari dello Stato, l’obbligo di disapplicare le norme che limitano gli effetti temporali dell’interruzione della prescrizione nei termini anzidetti.
A fronte di un’isolata pronuncia con cui la Corte di cassazione ha provveduto a dare seguito alla richiesta del giudice dell’Unione, giungendo a disapplicare le norme sulla prescrizione in un giudizio di legittimità nel quale il termine era già decorso (III sez. pen., sentenza 17.9.2015 n. 2210), è prevalsa nei giudici di merito e di legittimità la scelta di affidare alla Corte costituzionale il compito di valutare la compatibilità di quanto affermato in Taricco con il rispetto dei principi costituzionali in tema di riserva di legge e di divieto di retroattività in materia penale e la conseguente necessità di far eventualmente valere, rispetto al contenuto ritenuto vincolante della pronuncia, i controlimiti. Da entrambi i punti di vista, la sentenza Taricco è stata ritenuta in contrasto con i principi pacificamente acquisiti del diritto penale costituzionale. Sia perché essa dispone un obbligo di disapplicazione avente portata retroattiva, giustificando tale scelta con il fatto che alle norme sulla prescrizione dovrebbe attribuirsi natura processuale e non sostanziale (sottraendo così la materia in questione all’ambito di applicazione degli artt. 49 della Carta dei diritti fondamentali e 7 della CEDU). Sia perché, imputando all’art. 325 TFUE una portata immediatamente precettiva, la sentenza Taricco finisce per addossare ai giudici nazionali il compito di individuare nella sostanza essi stessi la fattispecie penale (con particolare riferimento al requisito della “gravità” della frode e al “numero considerevole di casi” in cui avviene la violazione), con la conseguente messa a repentaglio dei principi di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali.
Di fronte a tutto ciò, e ai pressanti inviti rivolti alla Corte a rompere gli indugi e a far valere l’arma dei controlimiti, è innanzi tutto significativo che con l’ordinanza che si discute la Corte costituzionale abbia deciso, dando prova di notevole fairness istituzionale, di tornare a coinvolgere la Corte di giustizia con il terzo rinvio pregiudiziale della sua storia, chiedendo ad essa dei chiarimenti rispetto alla portata della propria precedente pronuncia, facendo però al tempo stesso discendere dalle risposte che ne verranno precise conseguenze in termini di eventuale violazione dei principi supremi sopra richiamati.
2.Nulla della fairness mostrata dalla Corte è quindi rivelatrice di un’accondiscendenza nei confronti della Corte di giustizia, e tanto meno di un’arrendevolezza rispetto ai contenuti e alle conseguenze del pronunciamento di quest’ultima. Anzi, è proprio sul filo sottile che lega il rispetto verso il ruolo e lo spazio del giudice dell’Unione con la salvaguardia delle prerogative che alla Corte costituzionale spettano nell’ordinamento italiano che si snoda la complessa trama della pronuncia e si colgono le implicazioni di essa.
L’elemento che spinge la Consulta a interrogare la Corte di giustizia è, innanzi tutto, la presa d’atto che la sentenza Taricco presenta non pochi problemi interpretativi, primo ed essenziale dei quali è legato alla possibilità per il giudice nazionale di non dare ad essa applicazione quando da ciò discenda la violazione del principio costituzionale di legalità in materia penale (pt. 3). Con riferimento al regime legale della prescrizione, infatti, viene precisato che la natura sostanziale ad essa accordato nell’ordinamento italiano (e non solo in esso) resta (o dovrebbe restare) di per sé indifferente per l’ordinamento dell’UE, che non è improntato sul punto ad alcuna esigenza di uniformità. Quello che per l’UE dovrebbe quindi essere tollerato (l’innalzamento del livello di garanzia per l’imputato e il rispetto del principio del maggior favore) costituisce invece un preciso obbligo per il giudice nazionale, vincolato al rispetto dei contenuti insopprimibili di tutela discendenti dall’impianto della Costituzione (pt. 4). Discorso analogo vale poi in relazione al profilo della necessaria determinatezza delle norme penali sostanziali. Benché questo punto non sia stato direttamente preso in esame nella sentenza Taricco, l’ordinanza si mostra convinta che le conseguenze di una piena applicazione del contenuto di detta sentenza si porrebbero in aperto contrasto non solo col più volte richiamato art. 25, comma 2, Cost., ma anche con quanto previsto nel diritto sovranazionale. In particolare, la Corte dubita che sussistesse per l’autore del reato, al momento del fatto, la ragionevole possibilità di prevedere che dal contenuto dell’art. 325 TFUE potessero discendere le conseguenza che la Corte di giustizia ne ha ricavato in Taricco per quanto concerne il regime della prescrizione. La Corte costituzionale ritiene quindi il dubbio fondato non tanto alla luce dei contenuti dello stesso art. 325 TFUE, che essa (almeno espressamente …) non mette in discussione, quanto per il fatto che la natura sostanziale del regime della prescrizione impone in quest’ambito uno scrutinio stretto, in cui assume un peso la valutazione prognostica effettuata in chiave soggettiva al momento del fatto. È quindi sulla base di questa qualificata accezione che deve essere valutata anche la conformità del regime di prescrizione introdotto dalla sentenza Taricco rispetto alla CEDU, piuttosto che limitarsi a predicare – al contrario – che questo esula in generale dall’ambito di applicazione dell’art. 7 CEDU. Ancora più problematico è poi ritenere che il principio di determinatezza sia soddisfatto in assenza di qualsiasi concretizzazione dei contenuti dell’art. 325 TFUE che non sia quella resa di volta in volta, in modo del tutto discrezionale, dal giudice. L’individuazione del “numero considerevole di casi” come presupposto del potere del giudice di disapplicare la regola codicistica sulla prescrizione si pone infatti in contrasto con l’idea che l’attività del giudice, in materia penale, debba essere governata da regole altrettanto determinate, mentre quello in parola resta un concetto “per sua natura ambiguo, e comunque non riempibile di contenuto attraverso l’esercizio della funzione interpretativa” (pt. 5). Insieme alla difesa dell’irretroattività della legge penale, quindi, a formare il contenuto essenziale del principio di legalità in materia penale è anche la centralità della legge parlamentare come sede eminente in cui l’individuazione del disvalore penale e dei contorni determinati delle condotte soggette a sanzione emergono dalle dinamiche della rappresentanza.
3. All’esposizione dei profili di contrasto tra un recepimento letterale della sentenza Taricco e le garanzie costituzionali in materia penale segue poi l’illustrazione delle ragioni per cui, ad avviso della Corte costituzionale, ad impedire la disapplicazione paventata dai giudici rimettenti è anche il rilievo che assume per lo stesso sistema eurounitario il rispetto dei principi fondamentali della Costituzione intesi come parte integrante dell’identità costituzionale degli Stati membri. È infatti in relazione a questi principi e alla loro possibile violazione in circostanze specifiche che, ad avviso della Consulta, il rispetto dell’uniformità dovrebbe cedere il passo alla leale cooperazione e alla salvaguardia di un “tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro” (pt. 6). Si tratta sicuramente della parte più impegnata e interessante dell’ordinanza, da cui traspare un notevole sforzo di ricostruzione in termini cooperativi dei rapporti tra ordinamenti, cui però fa da contraltare la ferma presa di posizione in ordine alla necessità che le regole europee non rescindano i loro legami di derivazione con il patrimonio delle tradizioni costituzionali nazionali. Ed è proprio la ripetuta invocazione di queste, intese come matrice ultima rispetto a cui commisurare il grado di sostenibilità costituzionale di quanto predicato a livello sovranazionale, che costituisce uno dei tratti distintivi della pronuncia, che finisce per lasciare progressivamente in ombra il piano della pur evocata salvaguardia dell’identità costituzionale di cui all’art. 4(2) TUE.
La ricostruzione operata dalla Corte su questi aspetti assume in più punti una valenza anche teorica notevole, sia perché ripropone la vitalità di un Italian style nell’impostazione dei rapporti tra diritto interno e diritto UE, sia perché, di conseguenza, non nasconde l’ambizione di offrirsi come valida alternativa rispetto ad analoghi criteri di giudizio forgiati in questi anni di turbolenza costituzionale da altre Corti costituzionali, prima fra tutte il Bundesverfassungsgericht.
Dal primo punto di vista, è chiaro lo sforzo della Corte costituzionale di prospettare alla Corte di giustizia una via d’uscita dai problemi sollevati con Taricco, alleggerendola da una serie di incombenze che potrebbero ostacolare il raggiungimento di un’intesa. Si pensi alla circostanza, valorizzata nell’ordinanza, che la stessa sentenza della Corte di giustizia (ai parr. 53 e 55) impone al giudice nazionale una verifica sul rispetto dei diritti fondamentali che sarebbero lesi da una disapplicazione del diritto nazionale, ovvero al fatto che l’eventuale accoglimento della soluzione invocata dalla Corte costituzionale non sottrarrebbe comunque l’Italia alla responsabilità che discende dalla mancata introduzione di un sistema di calcolo della prescrizione idoneo al fine di evitare il ripetersi di frodi lesive degli interessi dell’UE.
In una prospettiva più generale, è però ancora più significativo il richiamo insistito al fatto che i giudici di Lussemburgo restano investiti del compito di definire il campo d’applicazione del diritto dell’Unione e di stabilire il contenuto delle relative regole (ivi incluso l’art. 325 TFUE). Esso dimostra infatti che qui non è in discussione la primacy dell’ordinamento sovranazionale, rispetto al quale la Corte costituzionale si pone all’esterno, quanto piuttosto la supremacy dell’ordinamento nazionale di stabilire quando da ciò discenda una violazione dei suoi principi supremi. Mi pare emblematico di questo approccio quanto l’ordinanza afferma in chiusura del pt. 6: “la Corte di giustizia non è sollevata dal compito di definire il campo di applicazione del diritto dell’Unione, né può essere ulteriormente gravata dall’onere di valutare nel dettaglio se esso sia compatibile con l’identità costituzionale di ciascun Stato membro. È perciò ragionevole attendersi che, nei casi in cui tale valutazione sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale”. Uno spazio di manovra che non può che residuare in via ultimativa alla Corte costituzionale, proprio in ragione dell’insostituibilità del suo ruolo e della necessità di una sua valutazione anche alla luce del diritto dell’UE.
Una rivendicazione di supremacy, quindi, che non nasce però né dalla pretesa di sostituirsi al Giudice dell’Unione, né dalla rivendicazione di astratte Kompetenz-Kompetenz, quanto piuttosto dalla ricerca di una composizione tra l’autonomia del diritto dell’UE e il suo ancoraggio ultimo al medesimo quadro di valori e di ideali delle costituzioni nazionali. La prospettiva non pare neanche tanto quella di una comunitarizzazione dei controlimiti, come è stato più volte auspicato a seguito dell’introduzione della richiamata clausola dell’identità costituzionale, quanto piuttosto quella della ricerca di un pluralismo costituzionale ordinato, in cui i controlimiti assumono una valenza reattiva di fronte a isolate violazioni di principi supremi che assumono però una specifica consistenza tanto alla luce del quadro costituzionale nazionale che di quello sovranazionale, proprio in considerazione di alcuni suoi principi costitutivi: da qui, oltre che a quello alle tradizioni costituzionali comuni, si comprende il ripetuto richiamo al principio di leale cooperazione.
L’idea, insomma, è di far generare già dall’interno del diritto dell’UE quei dispositivi idonei a rendere l’utilizzo dei controlimiti a livello nazionale qualcosa che non incrina il paradigma dell’uniforme applicazione del diritto eurounitario, ma al contrario contribuisce a rafforzare la possibile continuità di valore tra i diversi sistemi (in un’ottica non dissimile si muove anche l’analisi di Oreste Pollicino e Marco Bassini già pubblicata su diritticomparati.it).
Si tratta, in definitiva, di quanto di più lontano si possa immaginare da un controllo che segue le logiche non solo dell’ultra vires ma anche dell’Identitätskontrolle, e piuttosto di una riproposizione e di un aggiornamento dell’impianto separazione/coordinamento tra ordinamenti che in Italia regge tutto l’edificio dell’integrazione comunitaria da Granital in poi. La supremacy non chiama in causa una logica di sovra- o sottordinazione, ma piuttosto misura l’occasionale ritrarsi dell’ordinamento rispetto all’immissione di regole che si pongano in contrasto con principi di primario rilievo costituzionale.
Si pensi alla cautela con cui è costruita la delimitazione dei compiti tra i due giudici in apertura del pt. 8: “L’impedimento del giudice nazionale ad applicare direttamente la regola enunciata dalla Corte non deriva da una interpretazione alternativa del diritto dell’Unione, ma esclusivamente dalla circostanza, in sé estranea all’ambito materiale di applicazione di quest’ultimo, che l’ordinamento italiano attribuisce alla normativa sulla prescrizione il carattere di norma del diritto penale sostanziale e la assoggetta al principio di legalità espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost. È questa una qualificazione esterna rispetto al significato proprio dell’art. 325 del TFUE, che non dipende dal diritto europeo ma esclusivamente da quello nazionale”.
Proprio in questa chiave si coglie anche la valorizzazione della clausola di maggior favore contenuta nell’art. 53 della Carta di Nizza, le cui inizialmente decantate sorti magnifiche e progressive sono state stroncate in tenera età dopo il caso Melloni. A segnare la differenza con quel caso, ritiene l’ordinanza, è il fatto che in quell’occasione sarebbe stata minacciata una “rottura dell’unità del diritto dell’UE in una materia basata sulla reciproca fiducia in un assetto normativo uniforme”, mentre in Taricco non si discute la regola che la Corte di giustizia ha desunto dall’art. 325 TFUE, “ma solo l’esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice”. È questo uno dei punti più complessi di tutta l’ordinanza e su cui probabilmente si giocheranno i tempi supplementari della partita. Se pure, infatti, per la Corte costituzionale è ancora sostenibile ritenere che l’applicazione del diritto UE a livello nazionale è questione che resta in fondo esterna al diritto sovranazionale, sessant’anni di giurisprudenza della Corte di giustizia dimostrano che per questa le cose stanno ben diversamente, tanto che, nella prospettiva della delimitazione del suo sindacato, si è tanto più assottigliato da diventare in fondo evanescente il confine tra cosa è, in senso proprio, “applicazione” del diritto dell’UE e cosa è, in vario modo, “influenza”, “deroga” o “eccezione” rispetto ad esso. Né ad un esito diverso può condurre l’invocazione del caso Omega, conosciuto più per essere riportato sui manuali di diritto europeo che per una sua significativa incidenza nella giurisprudenza europea.
C’è poi un altro punto particolarmente controverso, che potrebbe mettere a dura prova la tenuta dell’impianto teorico fatto proprio dalla Corte. Stupisce, infatti, che a corredo dei propri argomenti la Corte costituzionale non abbia invocato la natura dell’art. 325 TFUE in quanto norma priva di effetti diretti. Se questo per un verso si può comprendere, alla luce di quanto detto, in ragione del fatto che si tratta di una valutazione comunque riservata alla Corte di giustizia, resta il fatto, per altro verso, che tutto il reasoning messo in campo dall’ordinanza presuppone che a quell’articolo del Trattato un effetto diretto non si possa in alcun modo attribuire. Se la Corte di giustizia vorrà convalidare il percorso seguito dalla Corte costituzionale, potrebbe lasciare dietro le quinte il problema della natura dell’art. 325 TFUE lasciando la questione irrisolta, mentre in caso contrario questo sarà assai difficilmente aggirabile.
Anche per questo, si comprende quindi come facili vie di fuga o giochi a somma zero non siano più disponibili, perché un chiarimento intorno agli aspetti di fondo della questione non è più eludibile, con tutto quel che ne discende in relazione alla reciproca posizione delle due Corti. Per ora, la Corte costituzionale ha inteso sì mostrarsi collaborativa e, per così dire, ridurre l’area del conflitto, ma impostando in termini molto netti e chiari i termini della propria pretesa e dell’accertamento che ora sarà chiamata a compiere la Corte di giustizia.
4. Quelli appena ricordati sembrano quindi alcuni dei nodi della partita che si giocherà nei prossimi mesi. Insieme alle sorti che dall’epilogo della vicenda scaturiranno per una configurazione più o meno “europea” delle garanzie del diritto penale, l’ordinanza resa dalla Corte costituzionale nel caso Taricco solleva infatti interrogativi più generali su quello che sarà di qui a breve il modo d’essere dell’integrazione europea sul fronte giudiziario.
Da un lato, perché la tradizionale resistenza della Corte di giustizia a incamerare nei propri criteri di giudizio una qualche considerazione per l’impatto costituzionale che hanno le regole europee a livello nazionale sembra ogni giorno di più difficilmente sostenibile. Benché il ricorso alle tradizioni costituzionali comuni sia tutt’altro che scomparso dopo l’avvento della Carta di Nizza, resta il fatto che la giurisprudenza della Corte di giustizia ne ha fatto un uso sempre più marcatamente octroyée, in ultima analisi funzionale a consolidare il proprio ruolo di organo di chiusura e l’unidirezionalità del processo di costruzione dei significati costituzionalmente rilevanti del diritto dell’Unione.
Non è quindi un caso, dall’altro lato, che l’ordinanza sul caso Taricco giunga in una fase in cui proliferano i casi di judicial rebellion delle corti supreme nazionali nei confronti della Corte di giustizia (segnalo sul punto l’efficace post di Daniel Sarmiento pubblicato qui). Si erano appena metabolizzate, e con fatica, la “tregua armata” imposta dal Bundesverfassungsgericht sul caso Gauweiler/OMT e la prova di forza operata dallo stesso giudice con la sentenza del febbraio 2016 sul mandato d’arresto europeo (Solange III), che la Corte suprema danese, buon ultima, ha stabilito nel dicembre scorso che non vanno ritenuti vincolanti, per il proprio ordinamento, i principi generali del diritto dell’UE che si pongono in contrasto con norme interne di recepimento di direttive dell’UE imponendo vincoli ai singoli, incrinando così l’autorità di tutto quel filone di giurisprudenza della Corte di giustizia che va da Mangold a Kücükdeveci (si può leggere un riassunto qui).
Di fronte a questi allarmanti sviluppi, il contributo che viene oggi dalla Corte costituzionale si muove, per le ragioni già dette, seguendo una logica in larga parte diversa, in cui la rivendicazione della propria supremacy, nel senso anzidetto, non assume un significato conflittuale rispetto al mantenimento di una primacy per il diritto dell’UE e per il suo giudice, purché però quest’ultimo decida, una buona volta, di mettersi in ascolto dei giudici nazionali e di prendere sul serio il tono costituzionale dei conflitti con cui si misura. Mi sembra, se i giudici di Lussemburgo vorranno ascoltare questo invito, un buon viatico per contribuire a migliorare la situazione.